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VIVERE CON LA DEPRESSIONE

 

Il luogo della depressione è un luogo vuoto,

il discorso sulla depressione è un non discorso.

E’ la perdita del significato,

è la caduta del desiderio di trovare un significato.

Spesso è un buco da riempire,

spesso un buco senza pareti.

 

Vivere con la depressione spesso equivale ad avere una compagna che si accomoda dentro prendendo sempre più spazio, uno spazio sottratto all’autonomia, alla presenza nel mondo, al piacere di vivere. Viene e si espande, viene e ricopre, offusca, intorpidisce, rallenta, pietrifica. Il vissuto di costrizione dentro a se stessi, di chiusura, di limitazione, di impossibilità diventa la scatola che imprigiona mentre all’interno un turbinio di pensieri si dibatte nell’impotenza di non trovare un’uscita. Spesso al rallentamento dei movimenti e dell’eloquio corrispondono un’inquietudine ed un rimuginare interno; come un grido che rimane soffocato, un gesto che rimane spezzato, come trovarsi su una strada parallela alla vita separati da un vetro che permette di vedere ma non di andare là. La vita intorno è visibile ma come irraggiungibile, le persone, le cose, la natura,  arrivano privi di colore, di suono, di calore, di movimento, di vibrazione. Il mondo è alieno al depresso, egli si sente alieno al mondo, irrimediabilmente diverso, tragicamente non necessario, fuori posto, senza un posto, escluso dal flusso della vita. Il confronto con le altre persone è impietoso, sembra impossibile afferrare una mano, credere che qualcuno possa essere d’aiuto, la sfiducia pervade le relazioni, una sfiducia che contiene un senso di indegnità, di colpa, di fatica e mancanza di speranza. La percezione del tempo è distorta, il qui ed ora della sofferenza depressiva è permeato di eternità, un tempo immobile e dilagante che non contiene aperture sul futuro, non accoglie stimoli che possano testimoniare la dinamicità degli eventi e la possibilità del cambiamento. Il rischio di suicidio cresce in proporzione all’intensità di questo vissuto, quando si pone quale unica via di fuga ad una condanna sentita come priva di appello e protratta per un tempo infinito. Il vuoto è intorno e il vuoto è dentro; doloroso, pesante, pervasivo. Un grande buco dal quale ci si sente inghiottire, una spirale verso il basso che pare non avere una fine, nè pareti e appigli. Traditi dalla vita, sbagliati, difettosi, colpevoli, vittime del passato nel quale si continua a navigare su traiettorie circolari di rabbia che si autoalimenta, abbandonati, perduti, non pensati, dimenticati, non riconosciuti, non visti, confusi nelle proiezioni del mondo, esclusi e incompresi. Ho l’immagine di una persona che cammina con le spalle chiuse, lo sguardo verso il basso e le braccia abbandonate lungo i fianchi come ad occupare il minor spazio possibile. Tutto succede dentro di se, nulla può entrare, nulla può uscire; lo scambio con il mondo simbolizzato dal respiro è ridotto al minimo indispensabile per la sopravvivenza.  Ciò che dall’esterno appare come passività, vittimismo, mancanza di volontà, insoddisfazione immotivata, porta dentro un groviglio, un senso di non essere, un dibattersi nell’immobilità, scalpitare nel nulla, spalancare disperati gli occhi nel buio, intravedersi e non poter raggiungere se stessi. La percezione di ineluttabilità del proprio stato, di indegnità e di colpa rendono difficile compiere il passo della richiesta di aiuto. La distanza che separa la persona sofferente dalla possibilità di cura e di cambiamento dipende dai fattori esterni e interni che vengono attivati nella ricerca di una forma di terapia. Quando il disagio è visibile sono spesso i familiari a farsi carico della richiesta di cura ma in tutte quelle situazioni in cui la sofferenza è mascherata, e non per questo meno intensa, il rischio di isolamento è alto. Viviamo in una società che tende a negare uno spazio al dolore di vivere, in nome di superfici lisce e luccicanti si scavano caverne sempre più profonde e labirintiche, è come se sentissimo senza ascoltare e guardassimo senza vedere. Occorre dare spazio e dignità alle parti buie, illuminare caverne, stendere fili nei labirinti, aiutare le persone a incontrarsi con meno paura, a incontrare la loro paura ed accoglierla, tenerla e non rinchiuderla. Ognuno di noi può accorgersi di situazioni di disagio in se stesso e negli altri, ci sono segnali che possono essere riconoscibili ad uno sguardo più attento. Una volta attivato il contatto e formulata una domanda di terapia le possibilità di miglioramento della condizione di sofferenza sono reali e concrete. Credo che sia necessario costruire ponti perché la terra di nessuno che separa dalla possibilità di cura cominci a ripopolarsi.

Dott.ssa Nadia Zuccarello

 

 

 

 

 

 

 

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Aggiornato il: 17 settembre 2002