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SIAMO TUTTI STRESSATI?
Nella lingua inglese, il termine stress era già
in uso molto tempo prima della sua introduzione nel linguaggio scientifico. Il
significato di tale termine, oggi fin troppo usato ed abusato, ha subìto
numerose variazioni; nell’inglese del XVII° secolo “stress” significava difficoltà,
avversità, afflizione; in seguito il significato corrente era
quello di forza, o tensione, o sforzo. Infine, in tempi più
recenti, ha acquisito il senso di stato di tensione o resistenza
di un oggetto o di una persona che si oppone a forze esterne che agiscono su di
loro. L’uso scientifico in biologia e medicina è iniziato con W. Cannon, per
arrivare poi a Seyle, J. Mason e infine a R. Lazarus che per primo ha proposto
il concetto di stress psicologico.
Ma anche dopo essere entrato nella letteratura scientifica, il termine
“stress” è stato usato ed è tuttora usato in modi diversi, a seconda del
punto di vista adottato, e può essere riferito sia all’ambito somatico, sia a
quello psicologico.
Si va dal significato di stimolo nocivo (di vario genere) che non tiene
conto della reazione dell’organismo allo stimolo stesso, alla più recente
accezione che sposta quasi completamente l’accento sulle modalità reattive
dell’organismo, viste nel loro duplice aspetto difensivo e patogeno (cioè
causa di sofferenza e/o malattia).
In altri termini, di fronte ad uno stimolo nocivo, si può reagire, come insegna
l’etologia, con la fuga o con l’attacco –
intesi anche in senso metaforico - : in entrambi i casi, si tratta di modalità
difensive e quindi utili. Viceversa, una modalità reattiva dell’organismo può
essere a sua volta dannosa, quando non è utile a combattere lo stimolo nocivo.
Oppure quando lo stimolo nocivo supera le capacità di difesa dell’organismo.
Particolarmente rischiose sono tutte le situazioni di conflitto in cui
l’individuo non ha o crede di non avere possibilità di scelta, né alcuna
possibilità di evitare (con la fuga) o di vincere (con la lotta) l’evento
stressante. Le emozioni negative, come l’ansia, la rabbia, la
tristezza, lo scoramento, si sperimentano appunto nelle situazioni conflittuali.
Persino in un evento positivo, come può essere una promozione in ambito
lavorativo, è possibile ravvisare un conflitto: da un lato la soddisfazione per
la promozione, dall’altro la paura delle nuove e più pesanti responsabilità,
con conseguente tentazione di fuga. Si parla infatti di “stress da
promozione”.
Certo, ogni volta che si tenta una definizione di emozione, ci si trova
di fronte alla difficoltà di uscire dalla soggettività: ogni essere umano sa
cosa significhi provare un’emozione e può anche essere capace di descriverla
verbalmente in modo efficace, ma, dinanzi alla necessità di distinguere uno
stato emozionale da uno stato di tipo cognitivo, ogni individuo si trova a dover
usare termini autoreferenziali come sento oppure penso, di scarsa
utilità operativa. Di conseguenza, anche una precisa valutazione qualitativa e
quantitativa dello stress e delle emozioni ad esso collegate, diventa
estremamente difficile. Tale valutazione sarebbe di notevole importanza non solo
a fini di ricerca e di studio, ma anche perché consentirebbe interventi più
mirati ed efficaci a livello clinico; infatti, se uno stress di grado lieve e di
breve durata può costituire uno stimolo positivo, viceversa uno stress eccessivo
o troppo prolungato può essere causa o concausa di disturbi somatici e/o
psicologici, che vanno dalle semplici cefalee muscolo-tensive agli attacchi di
panico, dal diffusissimo colon irritabile ad alcune forme di depressione, e
altre numerose disfunzioni e patologie più o meno gravi, fonti di profondo
disagio e sofferenza da parte di chi ne è colpito.
Recenti
statistiche denunciano che una percentuale piuttosto alta di italiani si
dichiara stressata. A molti sarà capitato di dire (o sentir dire):
“non ce la faccio più, non ho più tempo neppure per respirare” e magari di
chiedersi: “ma come ho fatto a ridurmi così?”
Purtroppo
quasi mai si tenta di rispondere veramente a questa domanda. Cerchiamo di
riflettere insieme, non dimenticando che si sta parlando della nostra
realtà (in altre parti del pianeta, esistono realtà ben diverse!).
Tra i tanti
aspetti della questione, credo che due siano quelli più interessanti.
In primo
luogo, una considerazione che può sembrare banale: la vita di oggi è oggettivamente
più complicata rispetto ad epoche precedenti.
C’è
stato un tempo in cui era possibile governare un impero senza saper leggere né
scrivere. In una situazione, come la nostra, in cui i bambini piccoli sanno già
navigare in Internet con disinvoltura, è difficile che qualcuno si soffermi a
pensare che non sempre è stato così. Pensate a quante cose, oggi, sa o sa
fare, in media, uno dei nostri giovani; l’elenco è interminabile: oltre a
leggere e scrivere, fare i conti o usare sofisticate calcolatrici, capire e
parlare una o più lingue straniere, sapere usare un numero esorbitante di
elettrodomestici, praticare sport, guidare moto e automobili, suonare qualche
strumento, districarsi tra infiniti meccanismi burocratico-tecnologici, carte di
credito, bancomat, acquisizione di documenti, informazioni o documentazioni,
ecc. ecc. Il numero di competenze che si richiede all’uomo moderno medio
non è neppure paragonabile a quello che si richiedeva all’uomo di qualche
secolo fa. E persino di qualche decennio fa. Prendiamo un contadino analfabeta,
come ce n’erano tanti all’inizio del secolo scorso, e che ha vissuto
all’epoca in modo dignitoso e soddisfacente, servendosi delle poche competenze
a sua disposizione (i ritmi della terra, i tempi di schiusa delle uova, il
procedimento per fare il vino, ecc.). Trapiantiamolo, per magia, nel mondo del
duemila: nasce in un casolare, in un piccolo paese, lavora lì, porta lì sua
moglie, lì alleva i suoi figli. Mettiamo che debba andare in città per una
visita medica: si presenta la necessità di leggere il numero degli autobus
(ovviamente non ha la patente perché è analfabeta), di cercare un indirizzo,
di fare un numero telefonico. E poi dovrà votare, dovrà pagare le tasse,
iscrivere i figli a scuola, fare dei pagamenti tramite bollettini, e magari dovrà
capire le istruzioni della nuova sega elettrica. In tutte queste circostanze, e
in mille altre, dovrà farsi aiutare da qualcuno, per giunta con il rischio di
farsi imbrogliare. L’alternativa è restarsene recluso nel suo casolare, nel
suo piccolo mondo protetto. In entrambi i casi, sarà un emarginato, un
handicappato (nel senso originario del termine, e cioè “in condizione di
svantaggio” nei confronti degli altri).
E’
evidente che vivere nel mondo moderno è obiettivamente molto più difficile e
richiede, per la sua complessità, molte più competenze.
Il secondo
aspetto è la scelta delle priorità. Scelta tanto più difficile quanto
più numerose sono le alternative tra cui scegliere. Contrariamente al contadino
analfabeta del secolo scorso, che si limitava ad assecondare i ritmi e le regole
della natura, la giornata dell’uomo di oggi, in una moderna azienda agricola,
così come in una grande città, è scandita da continue scelte e decisioni,
alcune automatiche, altre no. Poter contare su strumenti complessi come
macchinari computerizzati, automobili sempre più accessoriate,
lavatrici superautomatiche, telefoni muniti di
infinite funzioni (a cui manca solo di fare il caffè, come mi ha detto ieri
un’operatrice del servizio telefonico), o il computer in tutte le sue
varianti, garantisce, è vero, molto tempo in più a disposizione, ma bisogna
considerare che parte di quel tempo va impiegato ad apprendere il funzionamento
di queste meraviglie della tecnica, e poi a gestirne adeguatamente l’uso.
Inoltre il tempo recuperato lo si impegna quasi immancabilmente in altre attività
che a loro volta richiedono scelte, decisioni, tempi di apprendimento… in una
perversa e frenetica reazione a catena.
Il
risultato è una sorta di zapping tra infiniti impegni ed attività,
senza avere il tempo e la possibilità di soffermarsi su nessuna di esse.
Che fare
allora? Forse ci si potrebbe fermare ogni tanto e chiedersi: “Ma
tutto quello che faccio è veramente importante per me? C’è qualcosa che
posso organizzare meglio, o qualcosa che posso eliminare dalla lista dei miei
impegni? Qual è il vero motivo
per cui non riesco mai a fermarmi un momento?”
Tempo
fa ho assistito ad un episodio molto carino: due signore si erano incontrate per
strada. Una delle due, che evidentemente si era attardata a chiacchierare più
del previsto, si stava scusando per aver fatto perdere del tempo all’altra. E
l’altra: “Oh no, parlare con un’amica non è tempo sprecato, è il resto
del tempo che è sprecato”.
dr.ssa
Paola Locci
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