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Crimini
e apparenze
Perché
tanta sorpresa ogni volta che la realtà contraddice le apparenze?
Dopo un fatto di
cronaca, e negli ultimi tempi ce ne sono stati di abbastanza sconvolgenti,
emerge molto frequentemente la necessità di normalizzare. Mi riferisco
in particolare a quegli episodi che vedono coinvolte persone comuni, in
situazioni comuni, persone come noi, immerse, senza lode e senza infamia,
nella comune vita quotidiana.
Non entrando nel
merito dei singoli episodi, è però evidente il ripetersi di un fenomeno
abbastanza irrazionale, ma talmente usuale che è diventato quasi scontato.
Quando si viene a
sapere che il tale ha strangolato la moglie, o il tal altro ha sparato ai
colleghi, o la figlia del vicino di casa ha accoltellato una vecchietta,
immancabilmente tutti - parenti, compaesani, amici, conoscenti - dichiarano che
quella era una persona assolutamente normale, tranquilla, ben educata, e quasi
sempre, persino mite e timida... Superficialità? Paura? Bisogno di esorcizzare?
Si possono dare due
letture. La prima: lo sbigottimento che segue alla sorpresa e all’incredulità
sottende una convinzione ben radicata quanto inconscia, e cioè che un feroce
assassino debba avere delle caratteristiche tali da essere riconoscibili ed
individuabili a prima vista, come nei cartoni animati. Tutti sappiamo che questo
non è vero, ma ad ogni nuovo crimine, si ripete la litania.
La seconda: ammettere
che una persona ben conosciuta, tranquilla, mite, normale
-
normale come noi - possa essere capace di commettere un delitto,
significa ammettere che anche noi potremmo in qualsiasi momento essere capaci di
commettere lo stesso delitto. Prendere atto di non poter controllare il
manifestarsi del “male”, che pure è dentro di noi, dentro ciascuno di noi,
è la causa di quell’insostenibile sensazione di incertezza ed impotenza che
può portare anche la persona più sensata a negare l’evidenza.
La
reazione immediata è l’allontanamento, l’esclusione, una reazione difensiva
ben conosciuta in psicologia: quel mostro non fa parte della mia famiglia, non fa parte del giro dei miei amici, non è del mio
paese, della mia città, della mia
razza…
Eppure la specie umana
è una. E la storia dovrebbe averci insegnato che eroismo e crudeltà,
santità ed efferatezza possono nascere e crescere ovunque, ovunque vi siano
esseri umani.
La reazione successiva
è la ricerca di una spiegazione che dia un senso e restituisca ordine a questo
scombussolamento insopportabile, e cosa c’è di meglio della follia? Sì,
quel mostro è nella mia famiglia, è del mio paese, è della mia razza, ma…
è pazzo! Quindi – di nuovo – non ha niente a che vedere con me!
D’altronde la pazzia è sempre stata motivo di esclusione e di rifiuto da
parte dei membri cosiddetti “normali” della società: in fondo è qualcosa
che ancora ci sfugge, che ancora non siamo in grado di spiegare completamente e
che soprattutto è difficilmente controllabile.
Riguardo poi alla
prevedibilità di certi eventi, gli addetti ai lavori potrebbero aggiungere che
forse – almeno in alcuni casi - i segnali ci sono, ma, oltre al fatto che
pochi sono in grado di riconoscerli, dobbiamo ammettere che neppure in questi
casi è possibile prevedere se, quando, e in che modo il male o, se preferite,
la follia si manifesterà.
Purtroppo pensare che
qualcosa è possibile, e persino probabile, non ci dà la
sicurezza che quel qualcosa accadrà. La mente umana non è sondabile fino a
questo punto.
Credo però che –
tutti - una piccola cosa potremmo farla: essere più attenti, più attenti
soprattutto ai segnali di sofferenza di un essere umano, che sia un
familiare, un vicino di casa, o un collega di lavoro. La sofferenza non sempre e
non solo si palesa con lamentele, pianti o richieste di aiuto. Quella è la
sofferenza più visibile, ed anche la più sana.
Talvolta la sofferenza, quella più profonda e disperata, si nasconde, si
traveste da timidezza, da mitezza, da “normalità”, in un desiderio
quasi di invisibilità. Io sono convinta che per compiere certi delitti siano
necessari un’ostilità, un rancore, ed un odio talmente
grandi che possono scaturire, trovare le loro radici e la loro linfa, solo in
una sofferenza altrettanto grande.
Il
che, mi preme sottolinearlo, non giustifica
e non deve indurre all’indulgenza. Ma questa è un’altra storia.
dott.ssa
Paola Locci
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