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Lo sviluppo delle emozioni sociali e la integrazione interpersonale

 

Gian Luigi Dell'Erba


Come parziale programma di lavoro mi pongo il compito di tracciare una, spero breve, introduzione alle emozioni, e procedere verso la descrizione dello sviluppo della comprensione infantile delle emozioni, e della capacità degli individui in generale di "capire" cosa possono provare gli altri ed in quali condizioni; questi aspetti, come spero di dimostrare, sono cruciali per lo sviluppo del senso di responsabilità personale e di adeguamento alle norme di un gruppo o di una comunità; inoltre, questi antecedenti psicologici sono, in definitiva, tra i presupposti principali sia del disadattamento individuale che della deviazione dalla cooperazione sociale.Come definizione iniziale propongo la seguente: le emozioni sono schemi di azione che coinvolgono il livello psicologico (le rappresentazioni), il livello comportamentale (le reazioni), ed il livello biologico (le attivazioni neuro-ormonali). La funzione delle emozioni è di:

a) informare il soggetto delle emozioni degli altri,
b) riconoscerle in se stesso,
c) preparare l’azione adeguata.

Le emozioni sono euristiche di condotta derivate dalle condizioni della nostra evoluzione.

Principali teorie

Come spesso accade, vi è un cospiquo numero di teorie, che riflettono nel tempo gli interessi della ricerca.La prima, in ordine di tempo tra quelle moderne, é quella di James-Lange (dal nome dei due autori che indipendentemente contribuirono a costruirla). Secondo questa teoria l'emozione é determinata dall'effetto sulla coscienza delle reazioni organismiche scatenate da uno stimolo: lo stimolo viene colto dai sistemi superiori corticali coincidenti con la coscienza . La coscienza coglierebbe successivamente quanto è accaduto a livello biologico e comportamentale.Un'altra teoria é quella di Watson. Egli inquadrava le emozioni come reazioni periferiche in risposta a stimoli ambientali, senza il bisogno di citare la coscienza del soggetto in questa reazione. Teoria che in qualche modo si appoggiava ai riflessi condizionati.Una teoria del tutto diversa é quella di Cannon-Bard (anche in questo caso prende il nome da due fisiologi che indipendentemente vi hanno contribuito). Questa teoria, cortico-diencefalica, vede nel processo di valutazione (superiore) un ruolo primario che innesca attraverso l'azione (inferiore) dell'ipotalamo gli schemi predisposti delle reazioni organismiche neuro-vegetativo-comportamentali, e quindi rimanda alla corteccia il segnale per l'attribuzione del significato emotivo. Questa teoria introduce in campo il concetto di schemi predisposti, di natura comportamentale e lascia aperta la via per lo studio del ruolo della valutazione del pattern che ha stimolato l’attivazione emozionale. Accanto a queste teorie "storiche", citiamo alcune più recenti.La teoria di Schachter e Singer vede nel processo di valutazione cognitivo un ruolo centrale fondamentale. Gli autori evidenziano che il soggetto attribuisce ad uno stimolo un valore di attivazione (arousal) e successivamente assegna alla situazione un significato emotivo invece che un altro (oppure nessuno). In sostanza, l'attivazione non é sufficiente per avere una emozione, é il processo di attribuzione del significato che la definisce. In questo caso vi è un passo avanti nello studio della valutazione soggettiva, ma una carenza nella spiegazione dei fattori emotivi di base.Una teoria molto moderna è quella di Johnson-Laird e Oatley (1990, 1995). Essi definiscono le emozioni come un sistema di segnalazione a più livelli. Uno arcaico, immediato, primitivo, più rozzo, ma molto diffuso. l'altro livello, più complesso, "proposizionale", valutativo e autocosciente (in riferimento ad attribuzioni di significato su di sè, sul mondo, sugli altri). I due livelli hanno una giustificazione diversa: il primo, quello "di base", è essenzialmente predisposto ad una rapida risposta coerente con l'adattamento organismico all'ambiente, l'altro livello costituisce una caratteristica evoluta che coincide con le valutazioni e le comunicazioni sociali tipiche del pensiero proposizionale ed autocosciente (Johnson-Laird,1990, 1991;Johnson-Laird e Oatley, 1990).Secondo le teorie degli appraisal e delle tendenze all'azione (Arnold, Frijda, Scherer, Leventhal, Roseman, Smith e Ellsworth, Lazarus) gli elementi cognitivi e valutativi sono i contenuti e le cause delle emozioni; si tratta di conoscenze di per se stesse emotive con cui si valuta con immediatezza la dannosità/utilità dello stimolo per la persona e sono ciò che rende uniche e inconfondibili le varie emozioni.E' utile sottolineare la differenza tra il concetto di conoscenza (knowledge) e quello di valutazione cognitiva (appraisal): con il primo termine si indicano gli aspetti generali e contestuali delle conoscenze, sia concrete sia astratte e simboliche, organizzate nella nostra mente in forma di atteggiamenti, credenze, teorie ingenue, ecc...; le valutazioni cognitive sono invece una forma di significato personale che consiste di valutazioni compiute sul significato che le conoscenze hanno per il proprio benessere.Secondo le teorie della rappresentazione (Fehr e Russel, Shaver e coll., Conway e Bekerian, e per certi versi Kelly) le esperienze emotive sono concettualizzate nella mente in forma di prototipi e script; queste strutture regolano la codifica e la decodifica degli eventi emotigeni e, secondo alcuni, possono essere assunte come modelli impliciti del processo che produce l'esperienza emotiva. Le ricerche condotte per verificare la capacità discriminante delle valutazioni cognitive e delle tendenze all'azione hanno prodotto risultati incoraggianti ma non definitivi; per un verso, si può dire che sono stati individuati i sistemi valutativi specifici di alcune emozioni (quelle di base), ma d'altra parte queste associazioni fra valutazioni, tendenze all'azione ed emozioni si sono dimostrate poco stabili. Tuttavia, almeno per quel che riguarda le emozioni fondamentali si dispone di una concettualizzazione sufficiente a porre in relazione valutazioni personali, programma emozionale, e tendenza all'azione (si veda oltre, sulle applicazioni cliniche).Ad esempio, fra gli antecedenti cognitivi delle emozioni va ricordato il processo di coping, ossia la valutazione delle modalità con cui possono essere affrontate le richieste poste da una situazione in cui si prova emozione (va sottolineato che sul concetto di coping e di autoefficacia si riferiscono alcuni promettenti programmi di terapia cognitiva e terapia cognitivo-comportamentale che basano proprio sulla valutazione del proprio "potere" personale il fulcro dell'intervento).Per quel che riguarda la organizzazione della conoscenza in relazione alle emozioni, gli studi sul prototipo (Rosch, 1978) hanno mostrato che le emozioni sono concettualizzate in forma gerarchica su tre livelli che variano per specificità/generalità; inoltre, le sei emozioni di base hanno una struttura prototipica simile che comprende la rappresentazione di tutti gli elementi associati ad un'esperienza emotiva, come: antecedenti personali e situazionali, risposte fisiologiche, espressive, cognitive e comportamentali (Fehr, Russel, 1984); ciò sembra essere conciliabile con le ricerche categoriali attinenti alle emozioni fondamentali.

Lo sviluppo della capacità di comprendere gli altri

Dopo aver tracciato uno schema generale e storico sulle emozioni (per quanto succinto e forse ingiusto) è giunto il momento di addentrarci nel problema dello sviluppo della capacità degli individui di comprendere gli stati d'animo, i sentimenti, le emozioni altrui, riuscendo perfettamente a inferirne i possibili scopi, stati, bisogni, obiettivi.Uno dei problemi di base che dobbiamo porci è quello relativo all'origine dell'esperienza emotiva individuale, e dello sviluppo della comprensione delle emozioni provate dagli altri.Necessariamente molte delle argomentazioni sullo sviluppo, oltre che delle validazioni sperimentali, sono sostenute a partire dall'indagine sperimentale effettuata sui bambini. Invece, le posizioni sul sistema e sulla struttura delle emozioni è per lo più effettuata attraverso ricerche comparate, o sulle dimensioni comuni.Solitamente, in casi normali, all'esperienza di una emozione è associata la espressione di essa attraverso una qualche modalità, ad esempio attraverso il viso o la voce, o la gestualità. Questo punto così generale porta a pensare che questa regolarità (appunto in casi normali) sia data, e che anche i bambini siano in grado di comprenderla. Charles Darwin (1982) ha proposto due ipotesi che sono centrali anche ai nostri giorni. La prima sostiene che tutti gli individui possiedano in modo innato un intero repertorio di espressioni facciali discrete; la seconda sostiene che per mezzo di tali espressioni gli individui attribuiscano il giusto significato alle emozioni altrui, cioè le comprendano, e che questo riconoscimento sia anch'esso innato.Per quanto riguarda le espressioni facciali, le ricerche di Paul Ekman (1989; 1980; 1986) e dei suoi collaboratori hanno ampiamente dimostrato che le modalità espressive facciali sono comuni a tutte le culture, confermando in senso innatista la tesi darwiniana.Il riconoscimento delle emozioni sembra più complesso da dimostrare, ma molti ricercatori hanno effettuato studi solidi nella direzione già proposta da Darwin.Varie ricerche hanno dimostrato che il comportamento sociale del bambino è precoce, ed evidenzia già dal primo anno una autentica comprensione di espressioni prodotte dall'adulto in riferimento ad un oggetto, al quale il bambino reagisce in modo analogo.Come sostiene Harris (1991) <<... il bambino di un anno di età possiede una rudimentale abilità di conferire significato a specifiche espressioni emotive e di concepirle come riferimenti selettivi nei confronti di determinati oggetti. In una successiva fase evolutiva, i bambini iniziano a comprendere che un'espressione emotiva può rivelare qualcosa a proposito di chi la manifesta>>.Già nel secondo anno di vita, i bambini dimostrano di saper prevedere le possibili emozioni provate dall'altro. Uno dei diversi esempi è quello riguardante la disponibilità dei bambini di questa età a confortare i coetanei come pure a irritarli provocandoli. Essi dimostrano di conoscere il tipo di reazione dell'altro bambino. E' comune, ad esempio, notare come i bambini conoscano bene le circostanze e gli oggetti connessi a situazioni emotive che essi vogliono ridurre o innescare. Questo tipo di comportamenti suggeriscono l'esistenza di un salto di qualità nella capacità di comprendere le emozioni.Un punto fondamentale sembra essere il seguente.Durante il secondo anno di vita nei bambini vi sono alcuni cambiamenti significativi che sembrano riflettere la storia familiare dei soggetti.Come sottolinea Harris, < > (Harris,1991).All'opposto, i figli di genitori maltrattanti rimangono intensamente turbati dalle emozioni negative espresse da un altro bambino tanto da manifestare rabbia, insofferenza, e comportamenti aggressivi in genere. Inoltre, sembra esserci una differenza generale di base tra alcuni bambini ed altri nella capacità ad assumere facilmente un punto di vista di un altro.Comunque, gli elementi fondamentali qui esaminati, le chiare prescrizioni e i maltrattamenti familiari, sembrano essere delle variabili "forti" nella disponibilità a comprendere, ed a consolare e confortare un coetaneo.Secondo molti autori, la tendenza naturale dei bambini, in generale, sarebbe quella di considerare le azioni e gli eventi che comportano sofferenza ed arrecano disagio ad altri come "ingiusti".E' molto probabile, dunque, che le reazioni degli altri bambini siano un segnale importante nell'adozione di un modello adeguato della comprensione delle emozioni altrui.Dobbiamo ora porci un altro problema, e cioè quale sia, in generale, il modello più stringente per definire ciò che chiamiamo "comprendere le emozioni" (altrui).Molto spesso si dà credito ad una sorta di "risonanza" la quale giustifica e spiega come noi possiamo comprendere lo stato d'animo altrui. Ciò non è affatto necessario. Infatti, chiunque può ad esempio capire perfettamente le intenzioni e gli stati d'animo degli altri senza per questo provarli egli stesso in prima persona.E' possibile questa comprensione psicologica?Numerosi autori sostengono che verso i due o tre anni i bambini acquisirebbero la capacità di evocare situazioni di finzione, o immaginarie, e di indicarle come tali.Queste situazioni sono mantenute ben distinte dalla realtà. I bambini dimostrano di essere confusi solo se un adulto o un bambino più grande è persistente in una situazione di inganno o di gioco. Da questa età, i bambini iniziano a manifestare dimestichezza con stati di finzione o situazioni immaginarie come ad esempio, desideri, propositi, credenze, che vengono proiettati sulle bambole o altri giocattoli umanizzati.Tutto ciò porta alla lecita assunzione che è necessario prevedere una abilità specifica consistente nell'immaginare gli stati mentali dell'altro, e comunque nel fantasticare stati mentali (credenze, scopi, reazioni, emozioni, possibili comportamenti specifici) in relazione a specifiche condizioni congrue. Il bambino dimostra di essere in grado di fingere, nel gioco, i desideri dell'altro, che sono tutt'altro rispetto ai suoi. Egli anticipa e prevede, in buona misura, quali sentimenti l'altro da sè probabilmente esperisce. Le osservazioni dei bambini conducono inevitabilmente a notare che essi indicano con sufficiente precisione l'emozione più congrua con un setting specifico, a seconda che il soggetto-stimolo raggiunga o meno il suo desiderio o scopo.Attraverso questo processo si sviluppa nel bambino la capacità di simulare stati emotivi diversi da quello proprio esperito, o simili alle emozioni provate da altri. Questa capacità di attuare un comportamento simulativo non è un puro inganno deliberato, almeno all'inizio di questa abilità, ma sembra essere il luogo proprio dello sviluppo della capacità di comprendere gli stati emotivi altrui. Durante il gioco, ad esempio, appare evidente che i bambini fingono di credere ad una qualche realtà (essere qualcuno speciale, avere qualche oggetto particolare, essere in un mondo diverso, avere accanto qualcuno che non c'è, ....) che è palesemente accettata come falsa dal bambino stesso. Le ipotesi sarebbero allora due: o il bambino crede realmente ad un fatto in un momento che invece nega in un altro momento, oppure egli simula e recita un fatto che è plausibile ma falso. Quest'ultima soluzione sembra essere quella dimostrata, nella quale il bambino accetta "come se" un fatto e sospende in una certa misura le causazioni e le relazioni implicite con la realtà, da lui stesso accettata. La relazione con la situazione vera è in qualsiasi momento ripristinata (noia, altro interesse in competizione, presenza di un estraneo, perturbazioni varie, ...).Queste condizioni soddisfano ampiamente l'esigenza di concepire un individuo che comprenda le emozioni altrui pur senza viverle in prima persona.Tutt'altra situazione è quella definita come Empatia dove il soggetto vive realmente gli stati che l'altro vive; egli prova in prima persona emozioni congrue con la situazione che l'altro sta vivendo o sta per vivere.Le condizioni pensabili per il verificarsi dell'empatia sono quelle situazioni intense, scarsamente prevedibili, spontanee, dove l'individuo realmente è "spinto" a mettersi nei panni dell'altro.Per tutte queste ragioni, sia sperimentali che teoriche, è assai plausibile affermare che il bambino "intuisce" e deduce una struttura dell'apparato mentale negli altri individui. Egli, infatti, non associa meramente (come già osservato) delle espressioni facciali a certe situazioni prototipiche, ma attribuisce credenze e desideri in relazione ai quali collega le emozioni e i sentimenti più complessi in modo congruo in modo via via sempre più raffinato. Le loro proprie conoscenze emotive sono la base, in evoluzione, delle attribuzioni emotive che essi operano sugli altri. Dunque, i bambini, già dai cinque anni, iniziano a comprendere gli stati emotivi degli altri con competenza. Questo però non vuol dire automaticamente che i bambini intuiscono le "vere" emozioni che altri provano, semmai i bambini formulano delle ipotesi sugli stati emotivi e sui desideri degli altri in modo "formalmente" corretto.Già a quattro o cinque anni iniziano a comprendere le emozioni semplici in funzione degli stati mentali che le evocano. Essi, in sostanza, adottano una "prospettiva mentale". E' rilevante osservare che non vengono seguiti meccanismi di riconoscimento quali quello attraverso l'espressione altrui, o quello attraverso gli antecedenti situazionali appresi in modo meccanico, associativo.Utili per il nostro scopo, sono quelle emozioni complesse che implicano l'acquisizione di concetti di responsabilità personale e di "norme" sociali.Soffermiamoci sul concetto di emozione complessa. Le esperienze emotive, come abbiamo accennato, possono essere svariate, ma sono sempre attinenti a sei categorie emotive fondamentali, basiche (c'è un notevole accordo tra ricercatori su queste emozioni di base (Ekman, 1980; Frijda, 1990; Johnson-Laird e Oatley, 1990; Harris, 1991; D'Urso, Trentin, 1992;).Esse sono, appunto : Gioia, Paura, Tristezza, Rabbia, Disgusto, Sorpresa. Sulla base di queste fondamentali categorie dell'esperienza emotiva gli individui elaborano assunti e proposizioni sul mondo, sugli altri, e su di sè. E' così possibile concepire forme dell'esperienza emotiva più complesse rispetto a varianti di base come quelle attinenti alle categorie basiche. (Esiste in verità una variante, la teoria di Plutchick (1980), che postula le emozioni complesse come emozioni di base composte tra loro; tuttavia, non sempre comprensibile, a parere di chi scrive, non assumere uno scopo o un obiettivo definito, alla cui dinamica sia legata una specifica discreta emozione (Dell'Erba, 1992; 1993; 1994a)).Per proseguire il nostro intento, ci occupiamo delle emozioni complesse, normative e sociali: tali sono, ad esempio, orgoglio, colpa, e vergogna.L'acquisizione della capacità di comprendere le emozioni proprie avviene, dunque, su schemi predisposti. Invece, lo sviluppo della capacità di padroneggiare le emozioni complesse si articola in alcuni stadi critici. I bambini verso i sette - otto anni iniziano a riferire e commentare emozioni come orgoglio, colpa, e vergogna. Mentre prima essi facevano riferimento esclusivamente a modalità emotive basiche, a questa età si iniziano ad ampliare quegli schemi di comprensione, anche legati ad una migliore articolazione e definizione di certi antecedenti situazionali e della propria capacità di assumere una precisa prospettiva mentale attinente ai propri ed altrui stati , desideri, e credenze.Definiamo brevemente queste categorie emotive complesse individuate. Possiamo definire l'orgoglio come quello stato in cui il soggetto "crede" di essere responsabile in modo diretto o mediato di un qualche risultato positivo. La vergogna, invece, sembra essere attinente ad un risultato negativo rispetto ad uno standard sociale, ed in un certo qual modo connessa con uno scopo della autovalutazione, della autostima e dalla immagine sociale (Miceli, Castelfranchi, 1992; Castelfranchi, 1991; Dell'Erba, 1994b). La colpa, infine, implica il disatteso adeguamento ad una norma morale; una invalidazione dello scopo di equità sociale, anche implicante un bisogno di riparazione derivante dalla rappresentazione del danno commesso o della disparità risultante ad una azione del soggetto (Castelfranchi, D'Amico, Poggi, 1994).Vi sono, quindi, due aspetti centrali. Il primo implica che il soggetto deve sentirsi responsabile, dunque, il risultato non è casuale o confuso. Il secondo implica l'adesione a regole sociali e norme morali, dunque non deve essere soltanto piacevole o spiacevole.In numerose ricerche (Harris, 1991; Nutter-Wilkler, Sodian, 1988) si è dimostrato che i bambini acquisiscono in un secondo momento questa capacità, e che in un primo momento rimane essenziale lo schema di un raggiungimento o meno dello scopo.Sempre per rimanere nei due concetti dati, responsabilità personale e norme, vi sono due aspetti che emergono nello sviluppo della capacità di padroneggiamento delle tre emozioni. Un primo aspetto è la presenza o meno di un soggetto che sia osservatore o "giudice". L'altro aspetto riguarda la causalità o meno dell'evento o della azione effettuata.Per quanto riguarda la concettualizzazione delle norme, e la loro rilevanza nella comprensione delle emozioni, possono essere individuati due stadi principali nei quali si evolve e si connette il concetto di norma rispetto alla situazione emotiva. In un primo stadio, verso i quattro o cinque anni, il bambino comprende le emozioni unicamente in riferimento al raggiungimento di un desiderio; dunque, non può rappresentarsi l'emozione dell'orgoglio, così come l'abbiamo descritta. Egli può spesso sovrapporre i termini "orgoglioso" e "contento", aventi il comune significato attinente all'emozione di Gioia o Felicità. In un secondo periodo, verso gli otto anni, il bambino può riferirsi alla importanza dell'adeguarsi o meno a delle norme e regole nella situazione in riferimento ad emozioni come orgoglio, colpa, e vergogna. Cosa è avvenuto? Il bambino avrà acquisito la rappresentazione di regole e norme in quanto centrali per evocare e giustificare delle emozioni, che in tal caso sono le emozioni complesse che stiamo esaminando.Vi è ora un altro aspetto individuato: cioè, la presenza di un soggetto osservatore o giudice. Come già C.H. Cooley (1902) sosteneva, e come altri autori hanno ricordato (Harris, 1991; Dell'Erba, 1993; Miceli, Castelfranchi, 1992; Harrè, 1983), sembra essere fondamentale per il soggetto non solo la propria autovalutazione, ma anche la personale inferenza che qualcun altro avrà di lui; cioé, acquista rilevanza il modello della credenza altrui nella propria mente. E' ovvio, che questo modello della credenza altrui contiene anche l'emozione altrui.Un soggetto deve potersi rappresentare le circostanze nelle quali alcune emozioni insorgeranno in una certa persona. Dunque, il bambino può acquisire questa costruzione inferenziale. Il bambino può comprendere le emozioni di colpa, ad esempio, quando può aver chiare quelle situazioni nelle quali gli altri lo disprezzeranno cosa cha a lui dispiace. Queste emozioni costituiscono, in sostanza, delle anticipazioni di possibili reazioni emotive da parte di altri:<< Io ho fatto questo, Lui mi odierà (o mi sta odiando), Io mi sento triste = Mi sento in colpa >>.Come si può notare, vi sono entrambi gli aspetti citati: la responsabilità personale inequivoca, e l'altrui osservante.L'aspetto pubblico, sociale, di queste emozioni è acquisito per gradi. Dapprima, verso i cinque anni, il bambino è sensibile al raggiungimento dello scopo, e sperimenta emozioni basiche, semplici. In seguito, verso i sette anni, sarà sensibile alla presenza effettiva di qualcuno; infine, dopo gli otto anni il bambino riferisce emozioni di orgoglio, colpa o vergogna anche senza la presenza effettiva di altre persone che possano vederlo. Si sarà sviluppata nel bambino una chiara rappresentazione del riferimento ad uno standard (che può essere una norma o un legame affettivo). Tale prospettiva non esclude quella considerata da Mancini (Mancini, 94) che vede il senso di colpa lungo un continuum tra importanza della responsabilità personale di un danno avvenuto e presenza di un dislivello di fortuna tra se e il danneggiato; tale prospettiva sembra anzi seguire evolutivamente.In sintesi, sembra essere fondamentale che la comprensione delle emozioni complesse dipenda dalla capacità di riconoscere, anticipare, ed inferire stati emotivi altrui; e che, in questo contesto siano rilevanti sia la rappresentazione di un altro soggetto significativo sia l'adesione ad uno standard. Se un soggetto può anticipare la reazione emotiva di un altro, e ciò è rilevante, allora può esperire la colpa, l'orgoglio e la vergogna. Se il soggetto non riesce a provare le emozioni complesse, allora vorrà dire che non sono sufficientemente (o per nulla) rappresentate norme, regole, e relazioni importanti. In questo caso, il soggetto può esperire le emozioni (basiche) in relazione al raggiungimento o meno di un suo scopo.Siamo giunti al punto cardine di questo contributo sulle emozioni. Come si può sviluppare la considerazione e l'adeguamento alle regole e alle norme morali e sociali?Se un individuo persegue uno scopo attraverso una determinata condotta come può "distaccarsi" dal tentativo di centrare il proprio obiettivo a favore della valutazione "esterna", "neutrale", della propria condotta e dei suoi obiettivi? O, più semplicemente, se un bambino nel centrare un ambìto bersaglio provoca un danno, come può allontanarsi dalla gioia per esperire la colpa?E' in ballo qui la "capacità" individuale di stabilire delle covariazioni tra presenza dell'evento (il danno) e presenza e pregnanza delle rimostranze da parte dei genitori. Non si sta parlando della semplice associazione tra comportamento "sgradito" e punizione, ma della anticipazione dello stato emotivo del genitore in riferimento alla specifica azione. Sembra essere chiara a numerosi autori (Harris, 1991; Hoffman, 1970; Nutter-Winkler, Sodian, 1988) l'importanza delle rimostranze esplicite da parte dei genitori. Questi autori riferiscono che mentre i genitori che prediligono ragionare e spiegare (con chiarezza, senza ambiguità) inducono nel bambino maggiori stati di colpa, i genitori che preferiscono punizioni e coercizioni comportamentali inducino meno la colpa in modo altamente significativo. Questo elemento genitoriale nello sviluppo delle emozioni complesse sembra essere veicolato dall'aspetto, già citato, dell'importanza di un pubblico o di un osservatore o giudice (il genitore). Questa è la piattaforma sulla quale si sviluppa il sentimento internalizzato (autonomo) della colpa, dell'orgoglio, della vergogna. Infatti, dapprima è con il genitore (in genere) che il bambino sperimenta queste emozioni, ed in generale, in relazione all'adulto significativo egli costruisce la rilevanza delle regole e norme sociali; in seguito, l'individuo può fare a meno di qualcuno effettivo per sentirsi orgoglioso o vergognarsi, anche se è sempre sottinteso che qualcosa di riferimento sociale vi sia implicata.Si può in definitiva confermare la tesi di Kohlberg (1984) secondo cui in un primo momento il bambino, di quattro o cinque anni, è felice solo quando ottiene ciò che vuole; in un secondo momento, verso i sette e otto anni, il bambino ricerca l'approvazione, anche sacrificando cio che immediatamente vuole; infine, ricerca la soddisfazione per "cio che è giusto".In questo percorso evolutivo è fondamentale il contributo genitoriale. Infatti, dato che l'individuo può provare emozioni come la colpa o vergogna solo se comprende o anticipa mentalmente le emozioni di un altro (l'adulto, ad esempio), sarà centrale per questo sviluppo che l'altro soggetto, il genitore, l'adulto, dimostri chiaramente il disappunto o la propria gioia in relazione al fatto specifico. Ciò rende naturale questo sviluppo. Ma, cosa può rallentare questa acquisizione? E, in secondo luogo, cosa può rendere questa acquisizione instabile?Possiamo senz'altro partire dall'analisi, già accennata, della approvazione da parte dei genitori. Quando un bambino comprende che una data azione è in relazione ad una regola condivisa suscita approvazione o disapprovazione allora egli avrà rappresentate le basi delle relazioni sociali. Al contrario, se un bambino incorrerà continuamente nelle rimostranze dei genitori allora egli non avrà certamente rappresentato alcunché di sociale, in quanto non avrà compreso le regole secondo le quali egli può ottenere l'amore e l'approvazione dei genitori. Sembra evidente che il comportamento interattivo dei genitori sia determinante.Ad esempio, la vista della sofferenza di un altro bambino può suscitare la tendenza a confortarlo oppure può infastidire. Si è notato (Kagan, 1986) che i bambini maltrattati tendano ad essere infastiditi dal coetaneo che soffre, mentre la maggioranza degli altri bambini tende a confortare (Harris, 1992). Questo può aggiungere un elemento al nostro intento. Dunque, l'interazione dell'adulto tenderebbe ad interagire con uno sviluppo morale e sociale che è naturale per l'individuo deviando attraverso una incomprensione e sottovalutazione delle emozioni altrui. Questo sembra essere la giusta "entrata" alla spiegazione psicologica della mancata cooperazione, e dunque, della devianza concettualmente intesa (Dell'Erba, 1994b; Basso, Dell'Erba, 1993).Cosa rende insensibili? Probabilmente, alcune vicissitudini durante il rapporto con i genitori nelle esperienze di relazioni costruttive, quando il bambino deve costruire attraverso le rimostranze dei genitori, o la loro interazione, i sentimenti complessi e la considerazione degli stati altrui. Appare evidente come il naturale feedback derivante dalle percezioni delle emozioni altrui, in un primo momento, e la inferenza di esse in un secondo periodo, sia la base, probabilmente predisposta, per il comportamento sociale. Il blocco di questa prospettiva mentale nell'individuo, il suo "egocentrismo" cognitivo-emotivo, la propria diminuita sensibilità costituiscono i criteri per il mancato sviluppo della socialità e del sentimento più astratto di appartenenza sociale.

Deficit nella comprensione emotiva: alcuni esempi

Alcuni specifici quadri psicopatologici riflettono bene questa incapacità del soggetto a comprendere l'emozioni dell'altro o anche quelle proprie. Questi disturbi sono esemplificativi del fatto che la mancata acquisizione o il deficit specifico nella competenza emotiva mantiene il problema. Ciò non vuole assolutamente dire che è la mancata competenza emotiva a determinare il disturbo nel suo complesso ma soltanto che il deficit emotivo specifico ha un ruolo di rilievo nel mantenimento e, per usare un termine "forte", nella meccanica del problema.Alcuni disturbi che seguiranno, come esempi per il nostro discorso, sono disordini comportamentali che si riscontrano in età evolutiva, altri sono più specifici della età adulta. Gli esempi, ovviamente, non sono esaustivi di tutti i possibili casi, ma sono quadri di comoda pianificazione e concettualizzazione utile ai presenti scopi.Si noterà con evidenza che tali quadri problematici impediscono la integrazione sociale e il normale funzionamento interpersonale, tanto da costituire, in taluni casi uno stimolo secondario che determina problemi di franca devianza ed antisocialità.

Il Disturbo Antisociale di Personalità

In gran parte della letteratura vengono usati i termini "sociopatia", "psicopatia", "personalità antisociale" come sinonimi; spesso si confonde l'azione antinormativa con l'assetto di personalità antisociale. Qui useremo il termine originale di ciascun autore anche se il senso che viene attribuito da ciascuno di essi è l'attuale disturbo antisociale di personalità.Per venire nel merito, Cleckley (1976) distingue psicopatici primari da secondari. I soggetti psicopatici primari si distinguono per una assenza di ansia o senso di colpa per il loro comportamento illegale o immorale. Essi portano avanti azioni per il loro esclusivo interesse personale, mentendo deliberatamente, o offendendo fisicamente un'altra persona senza il minimo dubbio o nervosismo o rimorso; egli è privo di coscienza morale. Lo psicopatico secondario invece potrebbe attuare un comportamento utilitaristico eccessivo, ma avverte un sentimento di colpa dopo aver infierito su qualcuno; è da supporre, qui, l'ipotesi di uno scarso controllo degli impulsi e una labilità emotiva (vedremo più avanti).A questo proposito, Kagan (1986) conclude che i sociopatici mostrano un ritardo nello sviluppo della maturità morale e del funzionamento cognitivo. Kagan descrive lo sviluppo sociopatico morale e cognitivo come organizzato al secondo livello epistemologico di Kohlberg (1984) simile a quello di un bambino nell'età della latenza. A questo livello, il funzionamento cognitivo è governato dal concetto piagetiano delle operazioni concrete. Questi individui sono tipicamente incapaci di subordinare il reale al regime del possibile. La loro visione del mondo è personale piuttosto che interpersonale. In termini sociali e cognitivi, non possono tenere in considerazione il punto di vista di un altro allo stesso modo del proprio, pertanto non riescono a mettersi nei panni di un altro. Pensano in modo lineare, anticipando le reazioni altrui dopo aver soddisfatto i loro desideri, le loro azioni non sono basate su scelte in senso sociale, a causa di tali limiti cognitivi.In sintesi, si può desumere che la scarsa considerazione per i vincoli normativi sia da attribuire con buona probabilità alla difficoltà a comprendere le esigenze altrui, anche non giovando del naturale feedback constituito dalle emozioni espresse o immaginabili, nel caso di un ipotetico danno della vittima (o dell'offeso); inoltre, la scarsa capacità nel controllo comportamentale delinea un profilo di impulsività che costituisce il complemento all'egocentrismo emotivo-cognitivo del soggetto antisociale. E' opportuno ricordare che non tutti comportamenti antinormativi sono commessi da personalità antisociali e non tutte le personalità antisociali commettono reati franchi o atti antigiuridici; ciò che è fondamentale ricordare è la presenza di una tendenza e predisposizione personologica verso comportamenti che non tengono in debito conto di norme generali, di standard etici, della considerazione per la sofferenza altrui.

Disturbo borderline di personalità

Il disturbo borderline ha una antica tradizione clinica che risale a quasi un secolo. La prima caratteristica di questo disturbo come era classicamente considerato era una condizione sintomatologica a metà tra la psicosi e la nevrosi. In altre parole, vi era la presenza di un quadro mutevole con disturbi dell'umore, impulsività, disturbi autolesivi, sentimenti di rabbia, ideazione ed immagine di sé instabile, sentimenti intensi di vuoto e solitudine.Il soggetto borderline tende ad avere una personalità poco integrata, ha aspettative estreme riguardo alle relazioni interpersonali, e ha la caratteristica visione dicotomica riguardo a tutto ciò che lo riguarda (tende a considerare le cose in termini di "o tutto o niente").Vari autori hanno fatto l'ipotesi che questi soggetti borderline possano essere predisposti a disturbi dell'umore come depressione, disturbi bipolari, o altri comportamenti indiretamente correlati come ad esempio disturbi da sostanze stupefacenti, alcolismo. Daltra parte esistono ricerche che pongono la questione se i soggetti attualmente manifestanti un profilo di personalità borderline siano stati bambini con iperattività e/o con deficit attentivi. Tutte queste considerazioni parrebbero teoricamente porre l'ipotesi di un continuum tra iperattività infantile e disturbi dell'umore passando da stadi intermedi costituiti dalla personalità borderline: questo quadro è soltanto una ipotesi in via di sperimentazione. Alcune particolari assunzioni dei soggetti borderline possono essere riassunte nelle seguenti caratteristiche indicanti le categorie schematiche centrali nella storia di questi soggetti: abbandono/perdita, non amabilità, dipendenza, sottomissione, sfiducia, insufficiente autodisciplina, paura di perdere il controllo emotivo, colpa/punizione, deprivazione emotiva. Tali schemi sono determinanti nella costruzione della propria teoria personale sul mondo, sugli altri e su sé stessi (Beck, Freeman, 1993).Assunzioni come "io sono inaccettabile" oppure "il mondo è pericoloso e malvagio" possono sin da ragazzini orientare un determinato stile di comportamento interpersonale tale per cui il soggetto costruisce una rete insufficiente di relazioni accettanti e di sostegno così che egli si trovi francamente isolato in una spirale di causa ed effetti. Anche i criteri sulla fiducia e la accettazione degli altri sono disfunzionali in modo tale che per situazioni superficiali e periferiche una determinata persona che prima era considerata importante può vedersi rifiutata ed allontanata in quanto ha gravemente deluso "le sue aspettative", che sono spesso molto alte (anche se mutevoli).In sostanza, le caratteristiche che possono condiderarsi basilari per queste personalità sono il pensiero dicotomico, le assunzioni negative, l’instabilità, e un debole senso di identità.Si é fatta spesso una ipotesi che per ora ha trovato delle conferme, anche se insufficienti: il soggetto borderline ha in certi casi subito maltrattamenti da parte dei genitori o altre persone significative, e quindi avrebbe sviluppato una costruzione del mondo e di sè anche a partire da quelle situazioni, o che in qualche modo tali situazioni siano state interpretate internamente in un modo caratteristico. Il soggetto maltrattato, ad esempio, avrebbe esperito disapprovazione in misura indifferenziata, non ben discriminabile in relazione a specifici eventi; egli diventa probabilmente esperto nell'anticipare emozioni di rabbia e di paura. Il contesto di pericolo svilupperà nel bambino la leggittima presupposizione che o i bambini sono "cattivi" e gli adulti "violenti" oppure che egli è "cattivo" e che gli altri bambini "sembrano felici" e il mondo è "incomprensibile".Questi esempi indicano come il soggetto in questione possa non sviluppare in modo regolare e prevedibile le norme sociali e morali nelle quali è inserita l'approvazione genitoriale (prima), sociale (poi), e individuale (infine).

Disturbo schizoide di personalità

 Vi sono generalmente due caratteristiche fondamentali nel disturbo schizoide: la mancanza di relazioni interpersonalie l'assenza di desiderio ad intraprendere queste relazioni. Vari autori suggeriscono che essi non siano capaci di riconoscere le profonde emozioni in sè stessi e negli altri. Di conseguenza, spesso appaiono e si sentono indifferenti (anaffettivi). Essi, molto spesso intraprendono uno stile di vita che gli consente di stare a sufficente distanza dagli altri così che sono speso isolati e soli senza per questo soffrirne particolarmente. Questi soggetti, quindi, hanno poche relazioni amica ed interpersonali, ed evitano tutte le situazioni di intensa partecipazione alla vita pubblica.Storicamente, si definiva il disturbo di personalità schizoide come una forma non sintomatica della schizofrenia; ciò oggi non è dimostrato e non sembra particolarmente incisivo statisticamente. Nonostante questa non correlazione, vi sono alcuni elementi che però sono indubbiamente comuni come ad esempio l'anedonia, l'anaffettività, la inadeguatezza interpersonale, la scarsa abilità nella comunicazione espressiva e ricettiva.Queste personalità internamente possiedono assunzioni più rivolte su sè stessi che sugli altri: "preferisco farlo da solo", "preferisco stare solo", "non mi sento motivato", "che importa". Importanti ricerche (Millon, 1981; Chick, Waterhouse, Wolff, 1980) indicano alcune cause possibili a livello costituzionale leggibili in deficit presenti fin dall'infanzia di questi soggetti; emozionalità ristretta, scarsa empatia, isolamento, stile deficitario nella comunicazione, sostanziale ignoranza sugli stati emotivi altrui.Per essi tutto è insignificante e privo di interesse, e sebenne non desiderano un contatto con gli altri possono tuttavia sforzarsi di ottenere uno stile di vita più convenzionale, ma delle volte ciò non accade. Solitamente, nelle situazioni sociali possono aversi dei disturbi d'ansia intensa, sentirsi controllati, sentirsi "come robot", "come vivere in un sogno", e avere delle percezioni distorte sugli altri, ad esempio sui feedback comunicativi e sugli scambi con gli altri.Questi sogetti hanno bisogno di apprendere le fondamentali abilità sociali di base (chiedere, comunicare, scusarsi, controllare l'ansia, fare un complimento, essere diplomatici, adattarsi alla situazione, ...), e apprendere gradualmente la varietà d'intensità delle emozioni di base, ed in seguito le implicazioni dei pensieri e delle valutazioni personali nella identificazione delle emozioni complesse.

Disturbo da deficit di attenzione con iperattività (DDAI)

Il DDAI è composto di sintomi in tre aree: distraibilità, impulsività, e iperattività. Ha una incidenza di circa il 3% nei bambini in età prepuberale delle scuole elementari. E' lievemente maggiore nei maschi che nelle femmine; nei maschi ha una caratteristica più comportamentale, nelle femmine più una instabilità dell'umore.Alcuni ricercatori evidenziano delle lievi anomalie nel flusso ematico cerebrale frontale, altri sottolineano un difettoso metabolismo nelle aree premotorie e somatosensorie della corteccia cerebrale, altri ancora indicano qualche elemento a favore di una disfunzione noradrenergica cerebrale; queste iotesi neurochimiche non hanno dato ancora una risposta univoca e definitiva. Tra le caratteristiche di questi bambini vi è la irritabilità spesso esplosiva, la iperattività motoria, tanto che sono conosciuti dagli insegnati per essere bambini che non stanno mai fermi, che si muovono sempre, che sono distratti, "scattano" contro i compagni, e seguono solo per poco le lezioni. Sono caratteristiche la incapacità a dilazionare le gratificazioni, sono facili al riso e al pianto, da piccoli sono spesso inconsolabili, tanto che le loro madri sono rimaste colpite da pianto continuo ed instancabile.Le reazioni sfavorevoli del personale scolastico al comportamento caratteristico del DDAI e l'abbassamento di considerazione per sè stessi, causata dal sentimento di inadeguatezza, possono combinarsi con i commenti sfavorevoli dei coetanei nel rendere la scuole un posto di infelice fallimento. Ciò, ovviamente può innescare comportamenti protestatari, autopunitivi, o francamente antisociali.Questi bambini hanno dimostrato di non possedere che scarse capacità di riconoscere adeguatamente le emozioni altrui, di identificare le sfumature di varie situazioni così da sperimentare reazioni emotive estreme, e soprattutto di non essere affatto coscienti o abili ad identificare i propri pensieri. Tale deficit di introspezione, scarsa capacità a cogliere i pensieri automatici, e i ragionamenti interni determina la caratteristica principale che è il comportamento "in presa diretta" cioè senza quasi passare dalla coscienza e dalla riflessione.E' difficile cogliere le considerazioni e le assunzioni che questi soggetti fanno su sè stessi o sugli altri ma sembra che gran parte degli schemi posseduti da questi bambini si articoli sul bisogno di essere accettati, di stare dietro alle prestazioni degli altri, di evitare gli ostacoli o le frustrazioni rispetto a desideri nelle specifiche situazioni.Tradizionalmente, questi soggeti giovano di un addestramento mirato alle abilità sociali, al problem solving, all'autocontrollo, all'aumento dell'autostima, all'insegnamento dell'emozioni, e all'addestramento all'auto-osservazione del proprio "dialogo interno".Questi sogetti sembrano non essere attenti alle segnalazioni degli altri in momenti importanti della comunicazioni, tipo la espressione delle emozioni o la comunicazione delle proprie considerazioni; il soggetto DDAI spesso è troppo occupato in qualche attività personale o distratto per poter cogliere nel pieno la prospettiva altrui.

Considerazioni

Che ruolo hanno le emozioni nella regolazione del comportamento sociale? Come abbiamo ben compreso le segnalazioni del nostro ambiente, sia nel periodo di sviluppo che nella vita adulta ci informano delle regole sia esplicite sia di quelle tacite ed implicite che costituiscono le norme interpersonali. Tali norme non sono tanto un codice scritto, morale, accessibile dall'interessato, ma consistono nella rete di significati che gli individui si comunicano, cioè degli scopi comuni di cooperazione, adozioni, collaborazione e competizione che regolano il comportamento di un dato gruppo di individui. Le misure che solitamente assicurano il controllo della vita di gruppo in un contesto naturale sono appunto le emozioni e le abilità di regolarci e sintonizzarci sulle aspettative e sugli scopi degli altri, oltre che propri.Immaginando la presenza di un deficit proprio ad un livello di "lettura" di tali segnalazioni viene facile considerare che la mancanza di considerazione per gli altri, la noncuranza del danno altrui, la inattenzione per la possibile sofferenza delle altre persone può essere determinata dalla incapacità a rappresentarsi tale informazione o quantomeno a tenere in debito conto tale dato. Ciò se da un lato ha il vantaggio teorico di concettualizzare un devianza normativa dal gruppo senza intenzione "malvagia" (che non è sempre scontata) dall'altra ha la comodità pratica di individuare problematiche che sono sostanzialmente educabili con training controllabili e disponibili (dato che attribuisce all'intervento un atteggiamento pedagogico e non punitivo-repressivo).

Note applicative

Qualsiasi programma di educazione affettiva parte dal presupposto che è possibile insegnare al soggetto, ad esempio un bambino, come affrontare costruttivamente le difficoltà che può incontrare nella vita di ogni giorno. L'educazione affettiva ha quindi carattere essenzialmente preventivo, dove lo scopo generale è quello di ridurre il più possibile gli stati emotivi eccessivamente intensi e di facilitare le emozioni piacevoli, e inoltre ha un carattere "terapeutico" (anche se il termine terapia è inadeguato in questo ambito), dove lo scopo è quello di riabilitare il soggetto nella attivazione di emozioni adattate alle situazioni e di ridurre gli stati emotivi disfunzionali derivanti da valutazioni irrealistiche della realtà.Si tratta sostanzialmente di un processo di apprendimento che porta all'autoregolazione delle proprie emozioni. Il soggetto imparerà a non essere dominato dalla propria emotività ma anzi a guidarla, così da poter massimizzare il proprio benessere psichico anche nelle circostanze meno favorevoli. Intelletto ed emozioni, dunque, non sono aspetti separati del funzionamento mentale ma sono integrati: il pensiero influenza le emozioni, che a loro volta possono essere valutate in vari modi.L'assunto di base è che le nostre emozioni derivano non tanto da ciò che ci accade, ma dal modo in cui interpretiamo e valutiamo ciò che ci accade. Schematizzando, si può dire che possiamo considerare un qualsiasi evento e considerarlo a parte rispetto ai pensieri che su questo evento ci formuliamo, con una emozione derivante; questi tre gruppi di aspetti, evento, pensiero, emozione, sono ciò che gli psicologi solitamente chiamano lo schema A/B/C (Antecedent/ Belief/ Consequent). Se il soggetto ha distorsioni della realtà , valutazioni esagerate, idee assolutistiche, ne deriverà una reazione emotiva disturbata.E' proprio su questi aspetti che viene solitamente impostato un atteggiamento rieducativo nei soggetti con problemi emotivi e comportamentali (come abbiamo descritto più sopra). Nel caso di un intervento sulle valutazioni irrazionali vengono solitamente tenuti presenti tre passi principali: a) consapevolezza delle proprie reazioni emotive e relative espressioni verbali; b) consapevolezza della relazione esistente tra pensieri e stati d'animo e superamento dei modi di pensare irrazionali; c) apprendimento di un repertorio di convinzioni razionali adeguate alle varie situazioni. Per sintetizzare possiamo elencare i seguenti elementi indicativi di un disturbo nelle funzioni emotive: incapacità di capire gli stati degli altri, difficoltà a regolare i propri stati emotivi, interferenza e sregolazione rispetto alle richieste socio-ambientali.Di conseguenza, le contromisure della rieducazione e della psicoterapia possono essere indicate come segue: imparare a riconoscere i segnali di ciascuna emozione; imparare a tenere conto delle proprie abitudini di pensiero (atteggiamenti) e renderle conscie; modificare le credenze, lo stile di ragionamento, e correggere gli errori e le distorsioni; correggere gli errori nel controllo emotivo (i paradossi intenzionali).

Conclusioni

Ad un livello principalmente preventivo, è utile concludere che la capacità di tenere conto di come gli individui percepiscono gli altri è la più basilare tra tutte le abilità di comprensione interpersonale. Può darsi che alcuni bambini o adolescenti presentino problemi di insensibilità o ignoranza rispetto alle esperienze percettive altrui, e anche a esperienze correlate a stati emozionali particolari; può esserci chi parla a voce troppo alta, essere troppo rumoroso, ed essere non curante delle risposte emozionali che provoca. Può aversi anche che il soggetto sia fisicamente rude, non rendendosi conto che il grado di tolleranza per il contatto fisico di altri può essere diverso dal proprio; ciò può determinare reazioni di rifiuto a catena, e successive emozioni di tristezza e rabbia. Tutte queste situazioni costituiscono insieme ad infinite altre analoghe, il terreno su cui costruire un "programma" di educazione cognitivo-emotiva che possa prevenire, facilitare, o riabilitare difficoltà nell'adottare una prospettiva sociale e relazionale a partire dai semplici sistemi di segnalazione interpersonale che sono le emozioni complesse.

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Aggiornato il: 01 maggio 2001