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Introduzione alla Psicoterapia Cognitiva Standarddi Gian Luigi Dell’Erba Pubblicato da: Associazione di Psicologia Cognitiva (APC), 1998.
Parte 1
Il Modello Cognitivo ABC E’ difficile definire il modello cognitivo in psicologia clinica in quanto non esiste un unico modello cognitivo sia riguardo alla teoria che alla terapia. Piuttosto, negli ultimi 20 anni c’è stata una proliferazione di prospettive teoriche e di trattamenti, alcuni specifici per alcuni disturbi, altri riguardanti l’intero comportamento umano, le quali hanno assunto la definizione e l’etichetta di "cognitivo".E’ forse più utile indicare l’idea di base che sta dietro ai vari modelli nella psicologia clinica. Può essere usato il noto esempio di un soggetto che è steso nel suo letto, è sera, e sente dei rumori provenienti più o meno dal punto della casa dove c’è la porta d’ingresso. Se egli crede che sta per essere derubato dai ladri i quali stanno per entrare in casa egli sarà spaventato e probabilmente cercherà aiuto per telefono. Se, invece, pensa che è suo figlio che rincasa tardi sarà forse irritato e si preparerà un argomento per il rimprovero. E così via. Il punto centrale di questo esempio e che ogni risposta è mediata da un ragionamento, quindi dal pensiero, da immagini, e da credenze. Questa caratteristica è comune a tutti i modelli cognitivi ed ai relativi trattamenti clinici.Per definire ulteriormente questo punto è utile far riferimento allo schema ABC di Ellis (1962, 1994; De Silvestri, 1981). L’ABC può essere immaginato come uno schema a tre colonne (A, B, e C appunto) dove ciascuna identifica uno specifico contenuto. A indica gli Antecedenti, gli avvenimenti e gli eventi fattuali; si usa dire che l’A riguarda i fatti come li vedrebbe una telecamera (con tutte le debite riserve). In questa colonna vi sono gli antecedenti ed eventi che fungono da stimoli per il soggetto. Il B indica le credenze, il pensiero, i ragionamenti, le attività mentali che riguardano gli antecedenti. Il C sta per Conseguenze di natura emotiva e comportamentale; in questa colonna indichiamo le reazioni emotive, i sentimenti, i comportamenti che seguono ciò che accade in B, dato un certo A.Lo schema ABC è relativamente semplice, e quindi anche la sua applicazione pratica nel trattamento è anch’essa relativamente agevole. Tale schema guida la terapia cognitiva, ed in base a tale schema può essere concretamente attuata una valutazione, una formulazione, una pianificazione e concettualizzazione del problema psicologico, ed un trattamento.Alcuni autori hanno insistito sul fatto che i B causano i C, che le valutazioni soggettive e le credenze del soggetto determinino le emozioni e le conseguenze comportamentali, altri autori, d’altra parte, hanno sottolineato il tipico processo circolare che esiste tra pensiero ed emozione, in quanto l’uno innesca l’altro; altri ancora hanno puntualizzato il carattere unico di questi processi in quanto i soggetti hanno esperienza di essi come un tutt’uno. In sintesi, può essere affermata la intensa forza delle credenze e delle nostre valutazioni nell’innescare le diverse emozioni, ciascuna di esse relativamente alla specifica area o scopo di base rilevante per l’individuo in un dato momento (vedremo più avanti).Il merito del modello ABC è di separare in modo preciso aspetti diversi della nostra esperienza in modo utile e pratico, ma non per questo superficiale.Una necessaria chiarificazione riguarda il contenuto di B. La colonna centrale include le seguenti attività mentali: immagini, inferenze, valutazioni, assunzioni disfunzionali (credenze di base ed errori cognitivi).Le immagini, spesso trascurare da molti trattamenti, meritano di essere prese in considerazione più concretamente. Se un individuo che è molto ansioso di parlare in pubblico e sta contemplativamente pensando ad un evento esagerato o estremo avrà dunque una immagine di sé corrispondente, vedendosi ad esempio, al centro di un palco. Le immagini sono utili spesso quando gli individui fanno fatica ad esprimere verbalmente i contenuti del B, i quali contenuti tuttavia meritano di essere comunque esplorati.Le inferenze sono ipotesi che possono essere vere o false - a lui non piaccio, fallirò, questo tavolo è stato fatto in fretta, la gente mi sta spiando. Le inferenze tendono ad essere improvvise - Beck le definisce "pensiero automatico" - e spesso si manifestano in una forma verbale molto ridotta o "telegrafica" (mi odia, bastardo, ecco ci siamo di nuovo, ora accade tutto). Le inferenze sono predizioni o ipotesi su ciò che sta accadendo, o succederà o è accaduto. Tutte le inferenze vanno oltre l’evidenza dei fatti (Girotto, 1994; Johnson-Laird, 1991). Un modo per fare una inferenza è attraverso il significato di una attribuzione di causa. La gente che sbaglia una prova può attribuire ciò a qualche fatto interno a sé stessi (ad esempio incapacità) o a qualche fatto esterno riguardante qualche persona o caratteristica della situazione (ad esempio, un esame difficile). Questa attribuzione può essere fatta una volta soltanto che un fatto accade (attribuzione temporanea) oppure può essere fatta sempre (attribuzione stabile). Le attribuzioni possono essere riguardo uno specifico deficit in qualcosa, ad esempio, in un esame in matematica (attribuzione specifica) oppure può essere formulata riguardo un fallimento generale (attribuzione globale). Alcuni autori (Seligman, 1990) hanno identificato che la depressione può essere causata da uno stile attribuzionale negativo, che contiene attribuzioni negative interne, stabili, e globali ("ho fallito, è colpa mia, non solo in questo caso ma in tutto, ed è sempre così"). Beck (1976) ha dimostrato come nei problemi clinici le inferenze, sotto la forma di anticipazioni e collegamenti mentali, tendono ad essere distorte, o errate, a causa dell’influenza dell’umore. Egli identifica alcuni principali errori: Pensiero dicotomico:: le cose sono viste in termini di categorie mutualmente escludentisi senza gradi intermedi. Ad esempio, una situazione o è un successo oppure è un fallimento; se una situazione non è proprio perfetta allora è un completo fallimento. ("o tutto o nulla"). Ipergeneralizzazione:: uno specifico evento è visto come essere caratteristica di vita in generale piuttosto che come essere un evento tra tanti. Ad esempio, concludere che se qualcuno ha mostrato un atteggiamento sconsiderato in una occasione, non considera poi le altre situazioni in cui ha avuto atteggiamenti più opportuni. ("di tutta l’erba un fascio"). Astrazione selettiva:: Un aspetto di una situazione complessa è il focus dell’attenzione, a altri aspetti rilevanti della situazione sono ignorati. Ad esempio, focalizzare un commento negativo in un giudizio sul proprio lavoro trascurando altri commenti positivi. ("bicchiere mezzo vuoto"). Squalificare il lato positivo:: le esperienze positive che sono in contrasto con la visione negativa sono trascurate sostenendo che non contano. Ad esempio, non credere ai commenti positivi degli amici e colleghi dubitando che dicano ciò solo per gentilezza. ("ciò non conta nulla, conta di più ... "). Lettura del pensiero:: le persone sostengono che altri individui stanno reagendo negativamente senza alcuna prova evidente di ciò che affermano. Ad esempio, affermare di sapere che l’altro pensa di sé negativamente anche contro la rassicurazione di quest’ultimo. ("ti ho già capito"). Riferimento al destino:: l’individuo reagisce come se le proprie aspettative negative sugli eventi futuri siano fatti stabiliti. Ad esempio, il pensare che qualcuno lo abbandonerà e che lo sa già, e agire come se ciò fosse vero. ("lo so già"). Catastrofizzare:: gli eventi negativi che possono capitare sono trattati come intollerabili catastrofi piuttosto che essere visti nella giusta prospettiva. Ad esempio, il disperarsi dopo un brutta figura come se fosse una catastrofe terribile e non come una situazione semplicemente imbarazzante e spiacevole. ("è terribile se...). Minimizzazione:: le esperienze e le situazioni positive sono trattate come reali ma insignificanti. Ad esempio, il pensare che in una cosa si è positivi ma che essa non conta in confronto ad un’altra più importante. ("niente conta veramente di quello che faccio"). Ragionamento emotivo:: considerare le reazioni emotive come reazioni strettamente attendibili della situazione reale. Ad esempio, decidere che siccome ci si sente sfiduciati, la situazione è senza speranza. ("se mi sento così allora è vero"). Doverizzazioni::l’uso di "dovrei", "devo", "bisogna", si deve", ecc... per assicurare la necessaria motivazione e controllo al comportamento. Ad esempio, il pensare che un amico deve stimarci, perchè bisogna stimare gli amici. ("devo ...", "si dovrebbe ...", "gli altri devono ..."). Etichettamento:: attaccare una etichetta globale a qualcuno piuttosto che riferirsi a specifici eventi o azioni. Ad esempio, il pensare che si è un fallimento piuttosto che si è inadatti a fare una certa cosa. ("è un ....."). Personalizzazione: assumere che uno è la causa di un particolare evento quando nei fatti, sono responsabili altri fattori. Ad esempio, considerare che una momentanea assenza di amicizie è il riflesso della propria inadeguatezza piuttosto che un caso. ("è colpa mia se..."). Tali errori cognitivi non sono né gli unici né esclusivi del contesto della pratica del trattamento cognitivo, infatti la psicologia generale contemporanea ha evidenziato come la "macchina mentale" è spesso soggetta a distorsioni ed errori sia dovuti ad errori naturali "dello strumento" sia dovuti alla interferenza di scopi sulle conoscenze, dei desideri sulle credenze. Una impressionante mole di ricerche hanno dimostrato che il ragionamento e le inferenze possono essere fallaci soprattutto in condizioni di incertezza, che è la condizione naturale dove si misura la nostra razionalità (Tversky, Kahneman, 1974, Kahneman, Slovic, Tversky, 1982; Mancini, 1996; Boudon, 1994; Piattelli Palmarini, 1994; Girotto, 1994; Miceli, Castelfranchi, 1995).Una valutazione può essere definita come un giudizio (buono-cattivo), o una preferenza (ad esempio, "preferisco Sandra a Maria", "preferisco Van Gogh a Klee", "Luigi ha fatto una cosa cattiva", "non mi piace quello che dici", ...). E’ molto utile separare bene le valutazioni dalle inferenze, i giudizi dalle descrizioni e dalle anticipazioni. Spesso, giudizi estremi, stabili e negativi determinano problemi emotivi e comportamentali. Di una certa importanza può essere la differenza, all’interno delle valutazioni e giudizi, di tre tipi di giudizio, riguardo a "chi giudica chi": Altro giudica Se, quando qualcuno sta facendo una valutazione sul soggetto; Se giudica Se, quando il soggetto stesso si giudica; e Se giudica Altro, quando il soggetto giudica e valuta qualcun altro. Il punto chiave è che il giudizio buono o negativo non riguarda una parte del comportamento (il che potrebbe essere un utile suggerimento) ma l’intera persona.Prestare attenzione alle valutazioni che gli individui effettuano è un compito non solo terapeutico ma anche preventivo. Tali informazioni possono segnalare sia la direzione degli scopi dell’individuo (Altri verso se, Sé verso sé, sé verso altri) sia le aree problematiche del soggetto.: non sentirsi amato, paura del fallimento, sentirsi inferiore, sentirsi negativo e colpevole, sentirsi debole.Le assunzioni disfunzionali (Beck, 1976; Beck et al.,1985, 1990) sono regole e principi fondamentali che guidano il comportamento, e che hanno probabilmente le loro origini nelle esperienze di crescita; questi elementi sono perciò impliciti ma possono essere dedotti dal comportamento interpersonale dell’individuo. Ad esempio, F. di 42 anni, depressa da qualche anno aveva cercato nel corso della propria vita di non dispiacere mai agli altri, di cercare di evitare il disaccordo con le persone, ed in questo processo era fortemente soggiogata dai suoi stessi sentimenti e desideri. In quelle occasioni, quando inferiva che poteva aver dispiaciuto qualcuno si sentiva vuota e disperata, e credeva che sarebbe rimasta sola ed abbandonata, credeva di essere una non-persona. Le sue assunzioni disfunzionali potrebbero essere caratterizzate come segue: per essere una persona completa devo avere gli altri intorno a me. Da questo segue che F. non rischiava mai di contraddire o avere un contrasto con qualcuno, per paura di essere rifiutata. Come parte del lavoro nel trattamento psicologico cognitivo F. fu in grado di collegare tale regola alla sua prima infanzia, ed in particolare quando si sentiva vuota e disperata dopo che i suoi genitori l’avevano punita (il che accadeva spesso) e come lentamente aveva scoperto che prendendosi cura di loro otteneva un contatto affettivo, e ciò le capitava sempre più spesso anche con gli altri; così iniziò a farlo per evitare di riprovare quelle "terribili emozioni".I soggetti sono solitamente consci delle loro inferenze (cioè dei contenuti di esse). Questa consapevolezza può manifestarsi un forma verbale, come delle frasi, o possono aversi anche delle immagini o frammenti di esse, oppure possono come udire delle frasi, ad esempio di tipo imperativo, come regole o comandi. I soggetti sono meno consapevoli delle loro valutazioni, e solo raramente sono consapevoli delle assunzioni disfunzionali. 5 principi fondamentali del modello ABC Il modello ABC, come si è già sostenuto, è di facile comprensione ma vi sono alcune caratteristiche e principi che possono essere specificati. 1) Tutti i problemi sono C La psicoterapia cognitiva si impegna a facilitare e risolvere gravi problemi emotivi e di stress (depressione, ansia, ...) e disturbi del comportamento (evitamento, autolesionismo, ...), ed in questo senso questo tipo di trattamento si è dimostrato efficace per diversi disturbi ai quali è indirizzato. Se dovessimo generalizzare ad una sola categoria potremmo dire che l’obiettivo è quello di disturbi emotivi gravi e del comportamento; naturalmente, questo non implica che vari problemi che le persone incontrano non possano essere caratterizzati da stati emotivi negativi, ma tali stati negativi possono non essere tanto estremi da comportare la richiesta di un trattamento psicologico professionale. Se dopo la perdita di una persona cara siamo tristi questo è nell’ordine naturale del nostro funzionamento mentale, ma se questo evento è accompagnato da una depressione ciò non è più una risposta normale ma patologica, e pertanto dovrebbe richiedere un aiuto professionale adeguato. Lo stesso può valere per una crisi persistente di collera e rabbia, al posto di una più naturale ed adeguata irritazione; o ugualmente lo stesso problema si può porre per uno stato di ansia o panico al posto di una preoccupazione.Collocare i problemi come dei C può facilitare il fatto di prendere in considerazione il problema per intero, ed evidenziare che cosa è realmente il problema. Nel gergo quotidiano può sembrare che un problema sia qualcuno o qualcosa che ci dà fastidio o ci atterrisce, o che il problema sia che qualcuno ci trascura o che non è come vorremmo noi: il problema non è qualcuno o qualcosa, né parte delle caratteristiche di essi. I problemi psicologici non sono cercare un lavoro, non avere la ragazza, non avere soldi, avere un capo maleducato, e così via. Un evento è un problema psicologico solo se è associato ad un rilevante stress; in tal caso vi è un apporto decisivo del contenuto dei B (che vedremo più avanti). Il problema per il soggetto resta il C in quanto è lo stato emotivo che orienta e dimensiona gli scopi da intraprendere. L’obiettivo del trattamento è il lavoro sul B solo in quanto mezzo per modificare un certo C; solo in casi particolari, l’obiettivo ultimo può essere un B. 2) I problemi sono determinati dal B, non da A. Quando un soggetto viene in terapia e inizia a descrivere il suo problema, descrive sempre un A, un evento fattuale come un divorzio o un conflitto interpersonale, oppure descrive un C, uno stato emotivo come ansia o rabbia o depressione. Spesso un soggetto può dire "ho perso il lavoro e ciò mi fa sentire depresso", oppure "lui mi ha trattato malissimo e mi ha fatto vergognare davanti a tutti". Naturalmente, questo non fa molta difficoltà nel linguaggio di tutti i giorni, ma tecnicamente niente ci fa sentire in un certo modo, o nessuno ci fa essere o sentire in qualche modo particolare. E’ il nostro B particolare che definisce come stiamo, dato un certo A. Quasi nessun paziente ha chiaramente colto, prima della esplicitazione del modello cognitivo, che né gli A né i C sono il problema che lo ha portato a chiedere un aiuto professionale, e non solo quello; frequentemente, essi credono che non esista nient’altro oltre i fatti e come ci sentiamo, e che i fatti "ci fanno sentire così". Basta spesso ascoltare la descrizione del fatto acuto, del problema "pratico", per accorgersi molto chiaramente che tale descrizione contiene alcuni B, cioè valutazioni o inferenze o assunzioni disfunzionali. Ad esempio, "non mi ha neanche degnato di attenzione, non ha assolutamente pensato al mio problema" descritto come un fatto o stimolo che ha determinato uno stato di collera è visibilmente un B, anche molto composito. Il soggetto ha mischiato un fatto con una inferenza, una valutazione particolare di un fatto, e una evidente assunzione disfunzionale relativa ai propri diritti di avere attenzione dagli altri. Non è un A che determina uno stato emotivo, ma il significato personale che il soggetto attribuisce al fatto che determina sia la tonalità emotiva (che relativa allo scopo in questione che è minacciato di venire compromesso) sia la intensità dello stato emotivo (che è determinata dal grado di convinzione in cui il soggetto mantiene una credenza o una particolare attribuzione). Le azioni e le emozioni delle persone non sono la diretta conseguenza di eventi o fatti che accadono, ma dipendono dalla interpretazione che i soggetti fanno di quegli eventi. Questo, appunto, è la scoperta chiave della psicologia cognitiva moderna; ciò, tuttavia, era affermato da Epitteto circa 2000 anni fa. 3) Vi sono dei legami preferenziali tra i B e i C E’ centrale, nel modello ABC, che quando un soggetto è emotivamente stressato ci sono sempre inferenze e valutazioni particolari coinvolte. Questa evidenza ha la sua semplice spiegazione nel fatto che se da un lato le valutazioni, specie se estreme, comportano sempre delle inferenze, dall’altro delle inferenze estreme, e dunque ingiustificate e non empiricamente o praticamente fondate, innescano delle emozioni estreme. Una fondamentale caratteristica dei B, ed in particolare dei contenuti che si collegano ad assunzioni disfunzionali, è quella di descrivere il dominio che è in quel momento interessato, o minacciato. Se un B viene riferito come "ho paura di fare brutta figura" o "posso perdere il controllo della situazione" lo stato emotivo sarà inequivocabilmente quello di ansia. La natura dei nostri stati emotivi deriva dalla esistenza di repertori geneticamente determinati (più esattamente filogeneticamente) che hanno la funzione di permettere all’organismo di reagire prontamente e sopravvivere. Esse sono le emozioni, e tra queste quelle di base sono l’aspetto più antico delle nostre competenze comportamentali di una certa complessità.Le teorie che fanno riferimento alle emozioni fondamentali si distinguono dagli altri approcci perché sostengono che le emozioni siano quadri di risposte che hanno una base innata, che vi sia una continuità di queste risposte osservabile fra le diverse specie animali (particolarmente accentuata fra esseri umani e primati) e che tali risposte emozionali abbiano una funzione adattiva (Liotti, 1991, 1994). Naturalmente, anche su questo punto si discute se ciascuna delle emozioni di base gestisca e indichi una funzione specifica dell’adattamento biologico dell’organismo, ad esempio: incorporazione e riproduzione (gioia), reintegrazione e accudimento (tristezza), autoprotezione (paura), distruzione e predazione (rabbia), rifiuto e protezione dei confini del corpo (disgusto), orientamento (sorpresa).Le categorie emotive che più frequentemente incontriamo nei problemi psicologici sono relative alle emozioni di tristezza, di paura, di rabbia. Ciascuna categoria, o emozione di base, raggruppa diversi stati emotivi che si differenziano tra loro per particolari accenti riguardo agli scopi da proteggere o acquisire. Tristezza comprende tra gli altri i seguenti stati emotivi: depressione, colpa, scoraggiamento, delusione, apatia, tristezza, svilimento. Paura comprende ad esempio: ansia, panico, preoccupazione, paura, tensione, agitazione, vergogna, imbarazzo. Rabbia racchiude tra gli altri i seguenti stati: collera, rabbia, furore, irritazione, risentimento, gelosia, invidia (Castelfranchi, 1989; Dell’Erba, 1996; Plutchick, 1994; D’urso, Trentin, 1992).Si può dire, schematicamente, che la tristezza concerne il passato, la paura il presente o il futuro, mentre la rabbia riguarda sia il presente che il passato e il futuro.Le credenze e convinzioni che riguardano la paura e l’ansia sono attinenti ad una minaccia di una danno sia fisico sia psicologico; esse sono collegate con il comportamento di evitamento e di fuga. Le credenze che riguardano emozioni di tristezza attengono alla perdita - di status, di autostima, di libertà o di possibilità, di altri importanti. L’intensità di questi stati è collegata a convinzioni incapacità e mancanza di speranza. Le credenze riguardanti le emozioni di rabbia concernono la invalidazione di diritti o di cognizioni relative a torti subiti (danno, ingiusto); i comportamenti sono orientati alla vendetta, al pareggiamento, all’attacco. 4) B di base derivano dalla storia di vita del soggetto Abbiamo già esaminato come il significato personale che l’individuo attribuisce agli aventi determina il proprio stato emotivo, e più in particolare se egli sarà emotivamente disturbato; inoltre, il proprio funzionamento mentale e le specifiche attività cognitive (inferenze, valutazioni, errori cognitivi, ...) stabiliscono un collegamento privilegiato tra le attività mentali del soggetto e specifici comportamenti o specifiche emozioni, in stretta relazione con gli scopi importanti che il soggetto crede in pericolo o comunque in discussione.Potremmo chiederci, ora, perché determinate persone sono più sensibili a certi determinati problemi o a certe supposte minacce, tematicamente rilevanti? Una risposa chiara non è oggi pienamente disponibile in quanto l’oggetto scientifico è troppo vago e vi sono ancora dati poco chiari. Una risposta parziale è comunque ben formulabile. Determinate persone sono più sensibili alla invalidazione o alla minaccia di certi scopi o certi temi perché hanno sperimentato durante la loro vita episodi significativi attinenti a quegli scopi o a quei temi, e riguardo ad essi hanno costruito delle loro teorie o spiegazioni personali secondo le quali essi credono di essere vulnerabili a certe specifiche cose o credono di essere incapaci a risolvere certi determinati problemi.Molti autori evidenziano come le prime esperienze dell’individuo sono determinanti per lo sviluppo di una vulnerabilità per certi aspetti della vita.Le prime esperienze possono sia facilitare lo sviluppo psicologico in una direzione rispetto ad un’altra, ad esempio nelle esperienze dell’accudimento (attaccamento ansioso evitante, resistente, disorganizzato, normale), ma anche nella costruzione di una identità personale. Il soggetto gradualmente costruisce una teoria su chi è egli stesso, collegando dati ed esperienze seguendo spesso il criterio della coerenza ("questo fatto è coerente con chi so di essere").Alcuni autori hanno identificato dimensioni riguardanti la costruzione dell’idea di sé indicando alcuni fattori; Beck ad esempio definisce due dimensioni motivazionali: Motivazione verso le relazioni, in cui il soggetto costruisce sempre più relazioni mature e soddisfacenti; e Motivazione verso l’auto-definizione, in cui il soggetto sviluppa, consolida, differenzia, ed integra una sempre più positiva ed adattata idea di sé. Altri ricercatori hanno posto l’accento su alcuni scopi fondamentali del soggetto: Scopi relativi all’Immagine (avere una buona immagine), che sono costituiti dagli scopi dell’Autostima (avere una buona rappresentazione di sé per sé stessi) e dagli scopi dell’Immagine Sociale (avere una rappresentazione positiva per gli altri); scopi relativi alle relazioni (avere relazioni positive). Tali scopi costituiscono le motivazioni personali e sociali più fondamentali per il soggetto ed emergono dall’analisi delle assunzioni disfunzionali nel B (Castelfranchi, 1989; Miceli, Castelfranchi, 1995; Dell’Erba, 1993).Le relazioni tra qualità della cura e dell’accudimento e lo sviluppo di stili di personalità del soggetto sono state ampiamente dimostrate, e possono costituire un fattore di vulnerabilità personale alla costruzione di schemi di base tematici, i quali sono sensibili ad eventi simili o a valutazioni coerenti e collegate dal soggetto a quello schema particolare (Reda, 1996; Lorenzini, Sassaroli, 1995; Beck, Freeman, 1990). Gli schemi personali sono la forma più nucleare e di base delle assunzioni disfunzionali. Il soggetto sviluppa e costruisce il proprio stile personale per proteggere la propria vulnerabilità, e anche perché a causa dei propri assunti che mantiene coerenti e saldi trova il proprio modo di fronteggiare le difficoltà e risolvere i problemi quotidiani in un suo proprio modo che nel corso del tempo può diventare sempre più stabile ed automatico (si sviluppano delle routine alle quali il soggetto non presta più attenzione ma le usa in modo automatico e ripetitivo). 5) Indebolire le convinzioni indebolisce lo stress associato e il disturbo emotivo Dalla prospettiva dell’intervento, il modello cognitivo ABC crea un punto importante per il cambiamento personale: il B. Cercare di modificare, indebolire, criticare le credenze e le convinzioni disfunzionali del soggetto è il modo principale per facilitare e rendere adattivo lo stato emotivo, ed i disturbi associati. La modificazione delle convinzioni, delle pretese, delle inferenze, degli errori cognitivi, delle assunzioni disfunzionali è il modo diretto di condurre il trattamento psicologico cognitivo standard, solitamente associato ad una vasta gamma di altre tecniche più specifiche e mirate alla risoluzione di sintomi e problemi particolari. Prerequisiti al trattamento Ci sono almeno 2 importanti prerequisiti nella pratica di una terapia cognitiva efficace. Il primo è l’uso di una buona capacità di base nel couselling, ed in particolare mirate a: - stabilire una buona alleanza terapeutica; - impegnare e motivare il paziente verso un "empirismo collaborativo"; - comprendere il punto di vista unico del paziente ed i suoi sentimenti; - aiutare il paziente nell’esprimere le difficoltà e nell’affrontare il lavoro, spesso doloroso, del cambiamento terapeutico. Il secondo prerequisito è una conoscenza della teoria cognitiva, del modello tecnico della formulazione e dell’intervento secondo lo schema ricordato prima. 8 passi di base dall’Assessment all’Intervento In questa sezione affrontiamo in dettaglio il processo applicativo per ottenere un chiaro assessment ABC, e procedere verso il trattamento.Questo processo inizia con una valutazione psicologica generale di base e la formulazione della storia personale, e dei problemi attuali. Le prime 2 o 3 sedute con il paziente dovrebbero essere condotte in un modo non-direttivo usando le abilità di base del colloquio psicologico per incoraggiare il paziente a riferirci la propria storia, inclusi i problemi attuali, gli eventi precipitanti, e le eventuali prime esperienze di apprendimento o traumatiche che hanno contribuito a sviluppare vulnerabilità caratteristiche.Il terapista può usare il modello ABC come euristica di base per ottenere informazioni organizzate, per successive elaborazioni ed applicazioni.Quando l’obiettivo è raggiunto, ed il terapista ha un quadro generale sufficiente, e si accorge che la relazione con il paziente è ragionevolmente stabilita, allora egli diviene più specifico, e dunque inizia il lavoro specialistico del trattamento cognitivo.Il processo di sviluppo del trattamento, o anche la sua organizzazione più razionale, può essere diviso in 8 fasi; abbiamo, quindi, una sequenza di 8 passi.Questi passi sono tutti definiti nei termini del modello ABC presentato più sopra. Le fasi sono le seguenti: 1) Focalizzare un problema: chiedere al paziente di scegliere un problema da quale iniziare. 2) Valutare il C: valutare sia l’evento attivante (A) sia il problema emotivo (C). 3) Valutare il A: valutare ed inquadrare il restante resoconto. 4) Confermare che A-C è il problema: collegare A con C e controllare che è proprio questo il problema del paziente. 5) Valutare il B: valutare le cognizioni (immagini, inferenze, valutazioni, ...) usando la concatenazione logica (thought chaining, laddering up and down, ...). 6) Formulazione: a) mostrare la connessione B-C, e b) ipotizzare una formulazione della storia personale. 7) Accordarsi sugli obiettivi del paziente, e considerare le sue opzioni e scelte. 8) Modificare le convinzioni. 1) Focus sul problema Il terapista deve cambiare il proprio armamentario, dai primi colloqui esplorativi centrati sul cliente nella fase di counselling, e per esempio comunicare al paziente che ormai ha un quadro sufficientemente chiaro e che si può passare a trattare specificamente e praticamente al principale problema.Si potrebbe quindi chiedere, ad esempio "quale è il problema che vuole affrontare per primo?" oppure "di quale problema vuole parlarmi ora?", o "quale potrebbe essere il primo argomento per iniziare?"; naturalmente, non è sempre facile modificare una impostazione generale del paziente per giungere ad una più mirata, specifica e concreta. Comunque, anche se il paziente può avere parlato in modo estensivo, digressivo, oppure in modo vago, o ancora può essere stato troppo taciturno, un punto fermo è quello di utilizzare appieno le abilità di colloquio e counselling in modo da aiutare il paziente ad essere più utile al trattamento; alcune domande tipiche possono essere: "che cosa le stà succedendo ora" o "in questo ultimo periodo in che stato emotivo si trova", o "può farmi qualche esempio" o "se può darmi qualche dettaglio della situazione di cui mi ha parlato...".Il problema descritto dovrebbe contenere almeno un A, cioè una situazione, un evento o una esperienza soggettiva, e quindi anche un C, come il soggetto si è sentito in quel momento, come ha reagito a livello comportamentale. Alcune volte abbiamo anche un B, cioè una interpretazione ad un qualche livello; il compito del terapista è ci cercare di strutturare il problema nelle componenti A, B e C secondo i passi che abbiamo schematizzato più sopra. Una volta collegate questo tipo di informazioni è utile scriverle in uno schema o un foglio diviso in 3 colonne, con le seguenti intestazioni: A, evento attivante (sia reale che anticipato); B, convinzioni (pensieri, immagini, inferenze, ...); C, conseguenze (disturbi emotivi e comportamentali). Non appena il paziente ed il terapista analizzano in questo modo un certo numero di problemi, il terapista può subuto vedere alcuni temi che emergono da problemi apparentemente disparati, e iniziare a formulare idee ed ipotesi su quali possono essere le convinzioni disfunzionali di fondo. 2) Valutare il C Come abbiamo detto precedentemente, il punto di base del problema è il C, cioè il problema emotivo del paziente, il suo stress, il suo comportamento disfunzionale o autolesionistico. Mentre naturalmente, è vero che le convinzioni nel B e gli eventi attivanti nel A sono strumentali nel creare il problema che viene identificato nel C, non sarebbe utile intreprendere un trattamento cognitivo a qualcuno che non ha veramente un intenso problema o disturbo emotivo, né esprime lamentele nonostante le proprie convinzioni possano essere più o meno fondate. E’ essenziale, perciò, stabilire quando il paziente ha un problema intenso in C, per questo dobbiamo effettuare una valutazione accurata del C. A questo proposito possiamo distinguere reazioni emotive e reazioni comportamentali. Entrambe possono essere utilizzate l’una per identificare l’altra, e distinguerle ha più un valore pratico ai fini della valutazione. Reazioni emotive E’ utile e pratico dividere i C emotivi in 2 elementi: l’intensità dell’emozione (quantità), ed il tipo di emozione (qualità). I soggetti rispondono emotivamente a eventi di vita negativi ma spesso non hanno bisogno di un aiuto professionale psicologico o psichiatrico per le proprie reazioni emotive, in quanto essi possono cercare una ampia gamma di modalità di fronteggiare e risolvere i problemi quotidiani e gli eventi negativi. I soggetti, invece, cercano un aiuto professionale psicoterapico quando le proprie reazioni emotive costituiscono uno stress di proporzioni elevate. Questa è la prima dimensione nella valutazione dei C emotivi, che il terapista deve stabilire.In sostanza, il terapista deve stabilire dove si colloca l’esperienza emotiva del paziente su una scala (ad esempio, soggettiva) di intensità; ad esempio, distinguere se il soggetto invece che depresso è triste, se è preoccupato invece che allarmato o spaventato, se sia seccato piuttosto che arrabbiato.Alcune volte è utile costruire una scala a 10 punti, in cui lo 0 è il punto neutrale, privo di valore emotivo, mentre il 10 è il punto più intenso che il paziente può immaginare. Quindi, il terapista ha bisogno di avere tali informazioni prima di decidere se il paziente ha bisogno, in realtà. Di un trattamento psicologico o psichiatrico, o più semplicemente di un supporto, o di un consiglio; e l’andamento dello stato del paziente e le convinzioni correlate. Questo punto è essenziale per una psicoterapia efficace, e per considerarla con successo, perché il terapista deve poter identificare una intensa emozione per poter collegare tale stato ad un B importante; il paziente che è soltanto preoccupato nel C difficilmente avrà un B con una inferenza catastrofica ma probabilmente starà pensando in un qualche modo realistico ad un certo A.Naturalmente, questo non significa accettare semplicemente le parole del paziente che può riferire che si sente soltanto preoccupato o solo triste.Infatti, molti pazienti possono essere particolarmente inibiti rispetto al comunicare emozioni intense, oppure sono semplicemente non coscienti essendo stati molti anni abituati ad evitare l’espressione di tali stati, oppure possono essere carenti di una certa abilità introspettiva ed auto-osservativa, quindi il terapista deve osservare e verificare attentamente la presenza di tali emozioni intense. Ciò richiede una buona abilità di colloquio psicologico e counseling, ed in tali situazioni, il terapista può tranquillizzare e rassicurare il soggetto in modo tale che egli possa sentirsi più sicuro di poter esplorare i propri sentimenti negativi. Se questo non è possibile, si può utilizzare l’osservazione dei segnali fisiologici, non verbali; a volte, il soggetto non descrive una intensa emozione ma descrive la fisiologia, ad esempio: "non mi sento ansioso, è soltanto il mio cuore che batte improvvisamente forte". Altre volte l’emozione viene espressa all’esterno anche se il paziente non descrive nulla che possa riferirsi a questi tipi di segni ma in qualche modo tali segni fisiologici sono osservati. Questo può aiutare il terapista ad intraprendere una ipotesi relativa ad una certa emozione. Se, ad esempio, un paziente è attualmente non in grado di percepire una attivazione emotiva allora può essere utile un esercizio di base, derivato dalla Terapia Gestalt, per allenarsi alla auto-osservazione che può gradualmente aumentare il livello di consapevolezza (Norcross, Goldfried, 1992). Altri soggetti hanno il problema contrario; piuttosto che reprimere le proprie emozioni sono invece ipersensibili alla attivazione emotiva. I soggetti possono variare nella soglia di tolleranza, nella attivazione delle reazioni emotive, al punto che alcuni pazienti possono avere una soglia molto bassa e reagire rapidamente ed improvvisamente a piccoli stimoli "avversivi", ad esempio un soggetto può reagire in modo arrabbiato ad un lieve inconveniente, o avere una reazione di panico ad una piccola sensazione somatica; nella RET (ora REBT) si usa il concetto di "bassa tolleranza alla frustrazione".Il secondo obiettivo del terapista, nella valutazione dei C emotivi, è quello di stabilire il tipo di emozione che il paziente sta’ sperimentando, che è attivato. Spesso il soggetto non può esprimere il tipo di emozione, non ha un lessico adeguato, può fare confusione rispetto alla tipologia emotiva; ad esempio, un paziente può dire che è "un po giù" piuttosto che dire che è depresso, oppure si sente colpevole invece di dire che ha vergogna, ecc...Una buona regola è quella di aiutare il soggetto ad acquisire un minimo di lessico, suggerendo almeno 3 emozioni di base come ansia, rabbia e depressione, e spiegare che ci sono delle differenziazioni più sottili, degli aspetti particolari, ad esempio la colpa, la depressione, l’imbarazzo, la vergogna, l’invidia, la gelosia, e così via. Il terapista, solitamente, spinge il soggetto ad inquadrare le emozioni come emozioni primarie, perché è più semplice, ma può naturalmente utilizzare una ampia gamma del lessico emotivo per differenziare i diversi scopi implicati nelle diverse etichette emotive, se questo è possibile. Negli ABC è più semplice identificare i C emotivi in quanto le altre informazioni rendono più comprensibili gli scopi del soggetto e le intenzioni implicate. Reazioni comportamentali Ci sono poi i C comportamentali che possono essere sia una azione sia un impulso ad agire che non si è realizzato. Il tipo di comportamento solitamente viene riferito al tipo di emozione, e questo è perché le persone non solo rispondono emotivamente alle proprie interpretazioni e cognizioni, ma effettivamente fanno qualcosa riguardo agli A in questione.Le emozioni di Ansia sono solitamente accompagnate da evitamento o comportamento difensivo, che possono variare da un evitamento estremo o ad una situazione di fuga o almeno a forme più indirette come comportamenti di blocco e "congelamento" o altre risposte non verbali. La Depressione, come emozione, è accompagnata da inattività, rallentamento, mancanza di energia. La Rabbia è accompagnata da un comportamento aggressivo, violento, che può essere indiretto o specificamente diretto.Sebbene questi modi di fronteggiare gli eventi possono comportare un guadagno a breve termine, ad esempio la riduzione dello stress con l’evitamento, nel lungo termine tali comportamenti mantengono o possono peggiorare il problema. E’ abbastanza raro che il paziente riferisce dei C emotivi in modo ordinato e chiaro; infatti, la separazione A, B e C è all’inizio solo presente nel punto di viata del terapista; dal punto di vista del paziente le 3 componenti sono esperite come se fossero una sola, ed il compito del terapista è proprio quello di distinguere le varie parti fra loro.Naturalmente, è necessario fare attenzione alla codifica nell’indagine sui C. Per prima cosa, deve essere accertato che il C sia intenso ed importante; in secondo luogo, in certe situazioni il paziente può oscillare tra due diverse reazioni emotive, ad esempio depressione e rabbia. Quando ciò viene compreso bisogna condurre l’assessment dell’ABC in modo tale da inquadrare questa oscillazione e naturalmente comunicare al paziente questo quadro, e accordarsi con lui nel trattare separatamente questi due ABC. Una terza direttiva importante è quella di mettere in evidenza l’eventuale e piuttosto frequente presenza di problemi sovraordinati a quello che denuncia il paziente in prima istanza. Gli esseri umani possono infatti non solo procurarsi un problema (che chiameremo "primario" o 1stABC), ma quando se ne accorgono possono altresì crearsi un altro problema (che chiameremo "secondario" o 2ndABC) per il fatto di avere il primo. Tale stato di cose complica notevolmente il quadro clinico e rende più difficile l’intervento sul problema primario (De Silvestri, 1989; Mancini, Semerari, 1990). 3) Valutare gli A Il compito di chiarire gli A è, ad esempio, di dare al paziente un evento esemplificativo oggettivo, fattuale, specifico e ben definito, che stimola ed innesca un C, ed in particolare che sia recente in modo che ci si possa ben ricordare.In generale, il più comune errore è di iniziare un assessment ABC partendo con un A molto generale, ad esempio "stare male al lavoro". Il terapista, con la dovuta accortezza, dirige l’attenzione del paziente all’evento che innescato direttamente la particolare reazione descritta. Non vi è virtualmente limite a ciò che potrebbe essere un A; è qualsiasi cosa che potrebbe accadere ad un soggetto, ed è conseguentemente valutata da un B, e reagisce con un C. I più ovvi eventi A sono situazioni attuali o incidenti che si verificano nella vita quotidiana, oppure possono essere ricordi di tali eventi recenti o passati, o anche anticipazioni di eventi che il paziente crede che possano verificarsi, oppure possono essere immaginazioni. Comunque, gli A possono essere egualmente sentimenti o comportamenti del soggetto (dei C possono essere degli A), oppure i pensieri di un soggetto e le sue credenze e convinzioni (dei B possono essere degli A). E’ importante che il terapista aiuti il paziente a costruire dettagliatamente ed in modo corretto una descrizione di tutti gli aspetti della situazione così da poter essere più tardi in una posizione di "critica" efficace della rappresentazione distorta del paziente.I pazienti non riferiscono solitamente degli A chiari ed ordinati, invece, correntemente, essi danno delle descrizioni in cui combinano degli eventi concreti, in cui vi sono degli A con degli elementi di B. Ad esempio, un paziente riferiva una descrizione fattuale concreta di un evento come quella che segue: il suo capo gli passa davanti per strada (A) lo vede (inferenza B) e lo ignora (inferenza 2 nel B); avendo fatto questa distinzione, il terapista ha bisogno di comunicare questa situazione al paziente ed aiutarlo a distinguere con maggiore precisione tra fatti oggettivi e giudizi soggettivi. 4) Confermare che A-C è il problema Il terapista comunica al paziente la propria ricostruzione della connessione A-C in una parafrasi o usando le parole del paziente stesso, ad esempio "Lei ha detto che si sente depresso ( C), e che è molto giù ( C), perché ha litigato con il suo partner (A)"; il terapista controlla e verifica che questo A-C è ciò di cui il paziente è veramente preoccupato o che lo disturba, ad esempio, con "è questo il problema che La riguarda maggiormente in questo momento?". Il terapista deve essere molto attento a non sottostimare la forza della connessione A-C; i pazienti realmente si sentono "in preda" agli A in una forte attivazione emotiva, e si sentono sopraffatti dagli eventi. Essi si sentono sopraffatti dagli episodi e dalle esperienze, e credono di non avere più il controllo di tali elementi. Vari ricercatori hanno trovato, in un vasto numero di situazioni, che i pazienti rispondono a ciò che viene definito "stimolo biologicamente predisposto", cioè a pericoli, minacce, di tipo sociale o fisico, che innescano meccanismi predisposti evolutivamente e che hanno una forte scopo per la sopravvivenza, come lotta, fuga, blocco, congelamento, subordinazione. 5) Valutare il B Il compito del terapista è ora di valutare le correlate immagini, inferenze, valutazioni, assunzioni disfunzionali, che abbiamo visto precedentemente. Prima di fare questo, il terapista si pone come obiettivo che il paziente comprenda che il significato che gli eventi hanno per lui, cioè il B, quindi il significato che egli dà agli eventi, è centrale per capire il suo problema. Raggiungere una prospettiva comune su questo punto è essenziale per il processo di cambiamento. Per prima cosa, il terapista deve chiarire con il paziente che l’analisi A-C è carente su questo punto, cioè che il solo evento non può giustificare e determinare le reazioni del paziente ( C); questo è anche perché egli stesso potrebbe rispondere o aver risposto differentemente, anche solo in via di principio. Il terapista cerca comunicare che la parte carente è proprio quella del significato personale che ha, o ha avuto, per il paziente. Quindi, il terapista riferisce che il paziente ha una "teoria A-C" sul proprio problema; quindi si cerca di comunicare e trasmettere al paziente un "teoria ABC". In sostanza, che le persone non sono disturbate o preoccupate dalle cose in sé stesse, ma dalle loro interpretazioni su esse.Ci sono un certo numero di modi pratici di aiutare il paziente a raggiungere questi insights. Uno di quelli più pratici è il dare un semplice A, ad esempio, se essi sentono un rumore fuori dalla finestra della propria casa nella notte: essi possono variare la risposta emotiva nel C, e quindi suggerirli di immaginare che possono sentirsi ansiosi o arrabbiati o sereni, e riportare i loro pensieri nel B, in ciascuno dei casi che porta a cambiare da un C ad un altro C.Il terapista, quindi, modifica il problema A-C del paziente, e riferisce che il prossimo compito sarà quello di esplorare le convinzioni proprie del paziente nel B. Il modo migliore per scoprire specifici B del paziente è quello di usare una conoscenza teorica sulla principale connessione B-C, come abbiamo visto precedentemente, al fine di guidare un processo di associazione cognitiva e sequenza logica (thought chaining, laddering up e down, up e down arrow, ...). La sequenza spesso inizia con una inferenza, e solitamente si inizia quando il terapista propone al paziente uno specifico episodio A-C, egli chiede qualcosa del tipo: "Cosa succede nella Sua mente quando Lei si sente ...". Molte inferenze possono essere collegate in una sequenza. Immaginiamo, ad esempio, un paziente che si sente depresso ( C), perché la propria partner non gli ha telefonato come aveva promesso (A), egli inferisce che ciò significa che Lei è andata con un altro uomo (prima inferenza B), e questo significa per lui che a lei non piace più lui (seconda inferenza B), e che questo significa che nessuna donna lo avvicinerà e che non piacerà mai a nessun’altra (terza inferenza B). E’ raro, per il paziente, essere consapevole che il proprio pensiero prende la forma di una inferenza, e ancora meno di una inferenza sequenziale e concatenata; nondimeno, l’inferenza è evidente e attiva, ed il terapista può identificarla e farla emergere nel modo descritto.Si può sostenere che il modo in cui le persone rispondono emotivamente nel C, riflette una combinazione di inferenze e valutazioni, ed al termine di una catena di inferenze vi è una o più valutazioni. Solitamente, è possibile definire le valutazioni che sono implicite in una proposizione inferenziale. Le valutazioni sono attribuite dai soggetti su altri soggetti o su eventi e circostanze varie. Un soggetto può valutare una parte o un insieme globale - ad esempio, un singolo comportamento ("questa è stata una brutta azione"), un tratto personale o un ruolo ("Lui è un pessimo dottore") oppure valutare una persona globalmente, come un tutto ("Lui è totalmente negativo").Generalmente, certi tipi di valutazione sono associati con uno stress intenso. Tra le valutazioni più rilevanti vi sono le valutazioni personali negative - giudizi interpersonali globali e stabili sul valore totale di un soggetto. Dato che le valutazioni negative personali sono una componente veramente chiave del processo di assessment sono stati sviluppati, da parte di numerosi autori, vari strumenti che valutano questo tipo di cognizione; ad esempio il Evaluative Beliefs Scale, o il Disfunctional Attitude Scale (Freeman et al., 1990).In un paziente, gravemente disturbato a livello emotivo nel C, è probabilmente radicata una valutazione globale negativa, sia nei riguardi di Sé, o di altri o di specifici episodi. Quando una emozione è rabbia il terapista cerca solitamente una valuazione negativa di tipo "Sé-Altri". Quindi, nel nostro precedente esempio con il soggetto che teme di essere rifiutato, egli sentirà forte rabbia verso il partner, e così starà formulando un qualche tipo di giudizio negativo su Lei come "persona". Quando l’emozione è ansia o depressione spesso abbiamo delle sequenze cognitive che spesso svelano prima una inferenza su una valutazione negativa del tipo "Altri-Sé", ed in ultimo terminano con una valutazione "Sé-Sé". Per ritornare al nostro esempio, se il soggetto si sente depresso, egli potrebbe credere che la sua partner, che ora starebbe con qualcun’altro, lo vede come globalmente inadeguato, e lui potrebbe anche essere d’accordo con tale giudizio, e quindi formulare, alla fine, una valutazione di tipo "Sé-Sé". Praticamente, valutazioni di tipo "Altri-Sé" possono essere dedotte e quindi inferite (per esempio, tu mi ignori, e per questo io inferisco come se io non valessi nulla).Virtualmente, tutte le valutazioni personali negative si innescano perché il soggetto crede e giudica qualcuno (sé compreso) o qualcosa come deficitario ad un qualche livello, e tali valutazioni si accompagnano ad assunzioni disfunzionali riguardanti il proprio senso di sé o valore personale. Ad esempio, un paziente può comportarsi secondo una regola implicita, "sarebbe terribile se ora facessi un errore - e ciò mi renderebbe totalmente privo di valore, e questo non deve mai accadere". Tale regola o bisogno sono spesso espressi spontaneamente in pensieri automatici ("non devo sbagliare...") o emergono durante o al termine dell’assessment di una sequenza inferenziale. 6) Formulazione: a) collegare i B con i C, b) collegare il ABC alla Storia di Vita Una buona formulazione dei problemi del paziente può essere pensata come una analisi ABC di episodi ed eventi, ed un assessment ragionato della Storia di Vita.Nel processo di valutazione degli A, dei B, e dei C, il terapista produce una formulazione cognitiva del problema specifico. Tale formulazione illustra in modo pratico che le cognizioni nel B stanno generando problemi emotivi e comportamentali nel C, dato un certo A. In sostanza, si collegano i sentimenti del soggetto e i comportamenti in una situazione al significato personale che l’evento ha per lui. Il terapista facilita l’acquisizione di questo insight mostrando come un evento soltanto non necessariamente conduce ad una specifica emozione o uno specifico comportamento che il paziente ha, o sta’, sperimentando; egli stesso, in un’altra occasione nella propria vita, oppure un’altra persona, potrebbero rispondere in modo differente. Comunque, autovalutazioni globali stabili negative implicano sempre sentimenti di depressione.Il terapista ed il paziente, insieme, si pongono lo scopo di riflettere e giungere ad una formulazione sulla storia di vita del soggetto, per cercare di spiegare come mai il soggetto abbia acquisito quella certa vulnerabilità. La vulnerabilità è definita come una valutazione personale negativa, con uno stress associato. Questa formulazione riguarda le origini della vulnerabilità psicologica del paziente (solitamente acquisita nello sviluppo), come il paziente si sviluppa in un dato stile interpersonale che lo protegge contro le occasioni in cui potrebbero riconfrontarsi con autovalutazioni negative e stress intenso, e anche quando gli episodi di stress si sono manifestati (spesso innescati da vari eventi cruciali della vita, "life events"). In particolare, deve essere ben considerato in quale direzione evolve il proprio stile interpersonale, se nella direzione di un deficit di attaccamento, di relazioni personali, o verso un deficit di autonomia, di efficienza personale (Lorenzini, Sassaroli, 1995). Il terapista aggiorna costantemente le informazioni sulla storia di vita del soggetto (anamnesi e formulazione) man mano che tali informazioni emergono. 7) Stabilite l’obiettivo e le opzioni alternative Il terapista chiede al soggetto di riesaminare e riformulare il problema in termini di schema ABC, e di confrontarlo con la propria esposizione originale A-C del problema. Quindi, il terapista chiede al paziente di determinare e scegliere il suo obiettivo per la terapia (ad esempio, "che cosa le piacerebbe cambiare?", oppure "in che cosa le piacerebbe essere differente?"). Nonostante il lavoro sui B, il paziente può vedere ancora che il proprio obiettivo è cambiare il A, cioè la situazione o l’evento. A questo punto, bisogna utilizzare un comune metodo di discussione tipico della REBT, secondo cui si pongono al paziente alcune classiche opzioni. Si dice al soggetto che vi sono solo 4 modi con cui lui potrebbe fronteggiare e rispondere a situazioni problematiche: a) egli può evitare o fuggire da queste situazioni; b) egli può cercare di non fare nulla e far finta di niente; c) si può cercare di modificarle in qualche modo (ad esempio, convincendo il capo a non licenziarlo); Il fatto che il paziente sia in terapia ci suggerisce che tutte questi precedenti modi di risposta hanno fallito. Il terapista è, dunque, in una posizione di forza persuasiva per poter formulare la quarta opzione: d) si può ridurre il problema emotivo e comportamentale lavorando per modificare le proprie convinzioni e credenze di base. Si può sottolineare che lavorare efficacemente nel modificare i B può positivamente influire sul cambiamento degli A, se in una situazione è in qualche modo modificabile sicuramente il soggetto sarà più efficace nel compiere tutti i passi concreti necessari per risolvere il proprio problema. 8) Modificare le convinzioni e le credenze Se il paziente è d’accordo con tale obiettivo, allora paziente e terapista possono iniziare il processo di intervento cognitivo, modificando le convinzioni attraverso un mix di discussione e verifica empirica. Ciò richiede alcune particolari abilità nel condurre il colloquio e porre le domande di indagine, tramite le quali bisogna cercare di dare solo piccoli consigli diretti, ma invece cercare di elicitare suggerimenti e soluzioni del paziente, ed in questo modo costruire la capacità del paziente a risolvere i propri problemi. Questo procedimento, conosciuto come "dialogo socratico", è basato sull’uso di domande chiuse e aperte, ed è una valida aggiunta alle abilità di counseling. Un utile esempio lo fornisce Beck (1979):<<Attraverso la formulazione della storia di vita del paziente, il terapista ed il paziente scoprono una alternativa alle convinzioni di base del soggetto - ad esempio, sostituire "sono totalmente non amato" con "non mi sono mai sentito amato da persone significative". Queste due possibilità sono quindi confrontate attraverso la discussione delle evidenze e la verifica diretta. E’ importante usare questi metodi con un certo accento sulle emozioni del paziente>>. Discutere e testare le inferenze Il metodo di discutere le inferenze è basato sul metodo "scientifico", in cui le ipotesi sono formulate e quindi sviluppate o disconfermate assicurando le evidenze. In Particolare, il terapista aiuta il paziente a diventare sempre più consapevole delle proprie specifiche distorsioni cognitive (come abbiamo già esposto più sopra) che "colorano" il proprio pensiero automatico inferenziale, e sistematicamente lo aiuta a ridurre tale influenza. La classica "critica" ad una inferenza è: "dov’è la prova concreta di ciò?". Il testare le inferenze comporta che ciò che la REBT chiama "risk-taking" (correre il rischio) - cioè il paziente lavora gradualmente verso un diretto confronto con il compito temuto così da testare le proprie influenze che in tal modo possono fallire, manifestarsi come errate, essere rigettate, ...(De Silvestri, 1981a). Naturalmente, questo può succedere; Le inferenze, possono o possono no essere vere, e questo si riflette nella scelta di quale "test", vale a dire di quale prova e tentativo, usare e quando. Un esempio molto forte di tale procedura è nel metodo di Clark nel trattamento degli attacchi di panico (Clark 1986; Clark et al., 1985, 1991, 1996; Dell’Erba, 1997b): l’inferenza del paziente è che sensazioni come la pulsazione cardiaca o il dolore intercostale sono sicuri indicatori di un infarto imminente; la convinzione alternativa è che i sintomi siano effetti collaterali della iperventilazione; dopo avere valutato il grado di convinzione, il paziente affronta una prova empirica; in tale prova è facile dimostrare al soggetto che i sintomi si verificano solo quando il paziente iperventila, e si bloccano quando egli corregge la respirazione; il paziente allora rivaluta il grado della propria convinzione, e si impegna ad abbandonare le proprie convinzioni infondate.Questo metodo di discutere e testare può essere usato con un vasto insieme di differenti tipi di inferenze; di una certa importanza sono le valutazioni "Altri-Sé" inferite dal paziente. Alcune volte, il soggetto inferisce valutazioni negative globali da parte degli altri (ad esempio, "la gente mi vede come un completo idiota"), ed egli può usare queste asserzioni come se fosse veramente negativo, senza valore, incapace, inutile, ecc.. La critica focalizza il cuore di una seconda inferenza importante, cioè che il soggetto crede che qualcosa del contenuto della prima inferenza sia vero: "se gli altri credono in un certo modo, allora deve essere vero". Ad esempio, in risposta alla domanda "se la gente crede che lei non è OK, allora Lei veramente non è OK?", il soggetto può rispondere che dato che qualcuno lo crede così allora deve essere vero. Il terapista può rapidamente attaccare criticamente questa inferenza sottostante. Un modo è affermare un assurdo, una inferenza estrema "Altri-Sé", ad esempio, : "supponiamo che le dico che lei è l’Arcangelo Gabriele, questo vuol dire che lo è veramente?" oppure rivolgendosi a sé stessi "se qualcuno entra e mi dice che sono il diavolo con le corna e le ali, io mi sento davvero il diavolo?". In questa fase, il soggetto può prendere la questione da un punto di vista intellettuale, e il terapista può procedere dicendo, ad esempio, "supponiamo che io le dica che lei è un completo incapace, come si sentirebbe?". Questo solitamente innesca una prospettiva emotiva.Soltanto quando gli altri ci danno stimoli fortemente negativi, ad esempio che qualcuno ci rifiuta, noi possiamo avere paura che tale giudizio negativa sia fondato, in qualche modo. In altre parole, possiamo essere d’accordo con gli altri in quanto noi già pensiamo che tale valutazione sia vera. Il terapista mostra molto accuratamente che dato che noi crediamo di essere "non OK", attribuiamo questa stessa convinzione anche alle altre persone, alle quali però potrebbe non appartenere. Discutere e testare le valutazioni Nella REBT sono descritte varie tipologie di valutazioni (De Silvestri, 1981a), solo alcune delle quali producano forti stress emotivi e richiedono quindi una potente critica. A scopo esemplificativo consideriamo il processo in relazione alle valutazioni personali negative, la tipologia forse più frequente, sebbene il metodo sia identico per gli altri tipi di valutazione.Ci sono tre stadi principali nella critica delle valutazioni personali, ed ognuno di essi richiede una certa quantità sia di discussione sia di verifica empirica che di lavoro esperenziale. Primo, il terapista chiarisce che la valutazione della persona è infatti globale e stabile, e lavora su tale questione e cerca di confutarla. Lo scopo è di incoraggiare il soggetto a valutare solo il comportamento, ed evitare i giudizi globali sulla persona, "come se le persone fossero tutte in un modo o tutte in un altro". Il principio di questo tipo di critica è: "valuta il comportamento, non la persona"; ad esempio, comportandosi in modo sbagliato (quando eventualmente lo ha fatto) questo non significa "essere sbagliato". Parte di questo processo comporta il cercare le evidenze, e parte cercare metodi di insight ed auto-osservazione, e si pone come obiettivo di evidenziare l’impossibilità di chiunque di essere totalmente e per sempre qualcosa, e secondariamente, di focalizzare dove è l’origine di valutazioni negative personali così stressanti. Un aspetto importante nella ricerca di evidenze di una valutazione "Sé-Sé" è che spesso il paziente crede che anche le altre persone lo valutino allo stesso modo come lui fa (abbiamo già affrontato il modo di criticare praticamente tale assunto). Un altro esempio di interessante deficit di evidenza il paziente lo può manifestare riguardo le cognizioni concernenti il proprio umore. Ad esempio, se egli dice che è depresso, e per questa ragione non vale niente, perché secondo il soggetto, se fosse stato OK non si sarebbe sentito depresso (questo è ciò che D.Burns (1980) chiama "ragionamento emotivo"). Le emozioni non possono essere usate come evidenza di nulla, salvo che, per una verità autoevidente, per riferire che il soggetto ha una tale emozione. Il paziente può anche ricordare che l’emozione è una conseguenza delle proprie credenze, non la causa.Il secondo aspetto della critica delle valutazioni è quello in cui il terapista espone una regola implicita, una assunzione disfunzionale, che guida un processo autovalutativo (come abbiamo visto precedentemente); ad esempio, la assunzione del tipo "valgo se ho successo, rispetto, o sono amato". Il paziente ed il terapista lavorano insieme per formulare, chiarire, ed esplorare i suoi aspetti sulle relazioni interpersonali, per tracciare le sue origini, e per valutare se essa sia coerente con altre informazioni e conoscenze che il paziente ha appreso su sé e sugli altri.Infine il paziente ed il terapista possono pianificare uno specifico tipo di test, sviluppato da Ellis e comune nella REBT, chiamato "shame-attacking" (esercizio anti-vergogna). La vergogna è una delle principali conseguenze di una autovalutazione globale di stupidità, inadeguatezza, inutilità, mancanza di valore, e così via. Questo esercizio è differente dal "risk-taking" in quanto non si chiede al soggetto di fare qualcosa per dimostrare che è capace a farlo, ad esempio, che è capace di fronteggiare qualche situazione difficile o acquisire qualcos’altro, per avere l’approvazione o il rispetto di qualcuno. L’idea è, invece, che il paziente intenzionalmente pianifica un fallimento un errore, e non certamente per avere approvazione o rispetto, ma per ricercare una brutta figura, in modo tale che possa riconoscere, emotivamente e intellettualmente, che egli può comunque sopravvivere a tali stimoli temuti e minacciosi indirizzati alla propria immagine (sia immagine sociale che autoimmagine, (De Silvestri, 1981a, 1981b; Castelfranchi, 1989; Miceli, Castelfranchi, 1992)), e che non ha alcun bisogno di vivere nella continua paura di essi. Il punto dell’esercizio è proprio la critica della assunzione disfunzionale generale che sottostà ad una valutazione globale personale - che le persone hanno valore solo se hanno successo, se sono amate, ecc.. Invece, il soggetto conferma e si confronta con la opposta convinzione, cioè che una persona ha valore anche se si comporta in modo sbagliato, non OK; e ciò semplicemente perché gli esseri umani sono fallibili. L’esercizio di "shame-attacking" ha bisogno di essere programmato con cura sia nei modi sia nei tempi, ma offre al soggetto una assicurazione emotiva potenziale più grande rispetto al "risk-taking" in quanto il paziente si confronta con le paure più direttamente.Pianificare gli homeworks, i compiti a casa, può essere una utile aggiunta alla seduta di terapia. Tutti i processi descritti possono essere organizzati in modo collaborativo con il paziente in forma di esercizi.Nella prescrizione dei compiti, deve essere per prima cosa tenuta presente la peculiare convinzione del paziente (disfunzionale), e la convinzione alternativa; inoltre, bisogna decidere se un compito è davvero un test per una certa credenza, e se è maneggevole e sicuro per il paziente; infine, organizzare la esecuzione dei compiti in una data precisa, e che sian5o possibilmente discussi nella seduta successiva.Solitamente, si usano gli homeworks con la maggior parte dei pazienti, ma alcune volte ciò non è possibile. Comunque, bisogna puntualizzare che raramente delle convinzioni vengono modificate con il lavoro intellettuale usato da solo, e che è utile il lavoro prativo dei compiti per avere informazioni e prove per testare le inferenze e le convinzioni disfunzionali, in quanto in tal modo si coinvolgono sia l’attivazione delle emozioni sia il comportamento reale del soggetto.L’ideale è che il paziente sia sinceramente motivato sia nel lavoro intellettuale che negli esercizi e nelle prove pratiche. Conclusioni parziali Un principio deve restare saldo: le persone si comportano in un certo modo in quanto agiscono sulla base di credenze e ragioni (Boudon, 1994; Miceli, Castelfranchi, 1995); tali ragioni appaiono ad essi perfettamente giustificate e fondate; tali informazioni, credenze e ragioni, devono essere l’obiettivo del trattamento cognitivo. La critica deve modificare il fondamento di ragioni disadattive e disfunzionali, e spingere il soggetto a formulare nuove evidenze e nuove ragioni per un comportamento alternativo.La base del cambiamento è la modificazione delle credenze, quindi ogni intervento ha come base razionale tale principio. Anche interventi tesi alla acquisizione di abitudini, svolte in base alla ripetizione, hanno lo scopo di sviluppare la formulazione, da parte del soggetto, di una buona ragione per acquisire quel comportamento, e per svolgere l’esercizio di ripetizione. In caso contrario, nulla viene mantenuto.Le persone dipendono dalle informazioni, sia dell’ambiente sia possedute da essi stessi; è di tali informazioni che il trattamento cognitivo deve occuparsi.
Parte 2
Micro-Tecniche cognitive Le micro-tecniche non sono le "tecniche" nella psicoterapia, ma sono appunto pensate come interventi mirati alla risoluzione di problemi specifici. Sono appunto "micro" in quanto ognuno di tali interventi può essere più volte reiterato nel corso della seduta o essere usate in sequenza più micro-tecniche.Il quadro generale è il modello cognitivo ABC, dove il lavoro principale del terapista è quello di rendere le informazioni del paziente adeguate ad un trattamento. L’uso delle tecniche è visto come un aspetto particolare del più generale processo psicoterapeutico, e non facilmente pensabile al di fuori di un modello ABC (che ciò sia esplicito oppure no non ha tanta importanza).Una seduta può contenere un intervento o molti interventi diversi; questo dipende dagli scopi strategici del terapista e dagli specifici problemi trattati in seduta. Alcuni problemi sono particolarmente sensibili ad alcune tecniche o micro-tecniche specifiche, altri problemi rispondono a una varietà di interventi diversi; nella maggior parte dei casi specifici problemi sono trattati da specifici interventi.Le micro-tecniche non esauriscono gli interventi della psicoterapia, né sono di per sé l’intera psicoterapia; questi interventi sono gli strumenti operativi che il terapista usa in un contesto di psicoterapia, dove, naturalmente, vi sono altri accorgimenti necessari.Altrove (Dell’Erba, 1997a; Bergin, Garfield, 1994) sono stati discussi i cosiddetti "fattori comuni" delle psicoterapie che possiamo sintetizzare come segue: 1) Addestramento, allenamento, insegnamento, apprendimento, educazione, ....; 2) Concettualizzazione, esplorazione, chiarificazione, interpretazione, consiglio, ....; 3) Ascolto, incoraggiamento, supporto, sostegno, fiducia, dimostrazioni di affetto, ... Le micro-tecniche non attengono ad uno specifico fattore generale (ad esempio, concettualizzazione, ecc.) ma sono distribuite variamente in tutti gli aspetti tecnici ed operativi della psicoterapia.Molti autori (Beck e collaboratori,1976, 1979, 1985, 1990;Emmelkamp, 1994; Freeman et al., 1990; Schuyler, 1991; Leahy, 1996; Norcross, Goldfried, 1992; Mahoney, 1995) dividono gli interventi, all’interno della psicoterapia cognitiva, in interventi cognitivi e interventi comportamentali; qui, non si farà questa distinzione. Ogni intervento, ogni micro-tecnica, è sia cognitiva che comportamentale, alcune volte un po’ più l’una dell’altra, e ogni intervento attiva sia processi cognitivi (inferenze, valutazioni, assunzioni disfunzionali, schemi) sia procedure comportamentali (verifica empirica, ripetizione, controllo, azioni specifiche). Ogni intervento è mirato ad un dato problema che può essere definito sia come processo mentale che come attivazione comportamentale. Ad esempio, tenere una scheda di automonitoraggio di un sintomo può essere sia descritto come comportamentale (una azione che è finalizzata) sia come cognitivo (un processo mentale che è orientato da uno scopo verso quella meta utilizzando le varie risorse attentive, mnestiche, percettive, discriminative, inferenziali, deduttive).Le micro-tecniche descritte non sono le uniche tecniche, interventi, o micro-tecniche esistenti e possibili; questo per almeno due ragioni: i modi per cambiare sono numerosi, e non tutti questi modi possono essere conosciuti alla stessa maniere da tutti i terapisti, sia cognitivi che di altri orientamenti. Le seguenti tecniche pratiche sono quelle che più sono usate da chi scrive.In generale, infine, può essere ricordato che vi sono molti modi per aiutare il paziente a modificare il proprio modo di funzionare, ad esempio nel B, e questo può essere riassunto con alcune considerazioni di Bandura (1994). Relativamente ai processi cognitivi coinvolti nel cambiamento utile al benessere, Bandura sostiene che le convinzioni di autoefficacia sono un prodotto complesso composta da autopersuasione, basato sull’elaborazione cognitiva di varie fonti di informazione acquisite attraverso l’azione, vicariamente, attraverso l’influenza degli altri, e interpretando i propri processi fisiologici. Ognuna di queste informazioni può essere oggetto di un intervento, o in altri termini, ognuna di queste variabili può essere modificata per costruire un intervento cognitivo in una psicoterapia (non solo cognitiva).
Capire i significati personali tipici Solitamente, i termini usati dal paziente sono particolari, idiosincrasici, personali, e il terapista non può dare per scontato che un tale concetto sia padroneggiato e posseduto, o un certo termine sia usato nello stesso campo di applicazione. Spesso anche tra professionisti l’accordo sui riferimenti semantici di un termine, pur centrale o frequente o "alla moda", non è scontato. Inoltre, con pazienti aventi disturbi del pensiero, con particolari elaborazioni deliranti o subdeliranti, l’accordo sulla terminologia "tecnica" è pressoché nullo.In tale questione il terapista chiede chiarimenti su particolari termini usati dal paziente. Ad esempio un paziente può usare il termine ansioso per descrivere il proprio stato di ostilità, un altro può definire sè stesso come disgustato piuttosto che descriversi come deluso o come arrabbiato (ciò è tipico quando si ha a che fare con i termini riguardanti le emozioni).In sostanza, questo intervento ha lo scopo di aiutare il paziente ad esplicitare la propria specifica definizione del termine che usa, in modo da rendere comprensibile il modello implicito che ha per comprendere il fatto o l’evento a cui è o è stato esposto.Spesso, può essere utile soffermarsi sulla distinzione tra termini, in quanto ciò agevola sia la discriminazione successiva sia l’acquisizione di vocabolario condiviso che è un aspetto importante per il proseguimento degli interventi.Ovviamente, la richiesta di chiarificazione del terapista non deve risultare un atto di accuso o una indicazione di ignoranza, il che porterebbe il paziente a diffidare del terapista o a chiudersi "in difesa" da possibili svalutazioni.In alcuni casi, tuttavia, deve essere corso il rischio di richieste di chiarificazioni che appaiono scontate o banali ma che possono rivelarsi, ove si trascuri il chiarimento, fonte di equivoci.E’ sempre utile schematizzare o ricollegarsi al modello generale (ad esempio, il modello cognitivo ABC) in quanto il soggetto può non sapere ancora orientarsi o utilizzare concetti impiegati nel trattamento. Analisi delle evidenze e dei dati La richiesta di fornire la dimostrazione o l’evidenza sulla quale il paziente poggia le proprie credenze o il pensiero automatico disfunzionale è utile al terapista per verificare la consistenza dei dati e delle esperienze per poterle testare con il paziente.Tutte le persone usano certe proprie personali evidenze per mantenere o rafforzare una idea o una credenza. E’ utile insegnare al paziente ad identificare e mettere in discussione l’evidenza e i dati usati per mantenere le proprie idee inefficaci e disfunzionali. Per fare ciò deve essere identificata con chiarezza le fonte dei dati stessi e il ragionamento eventuale che il paziente effettua per dare rilevanza a essi.Porre l’accento sui dati dell’esperienza non è sempre un lavoro facile in quanto l’iniziale messa in discussione di una evidenza "sensoriale" o "percettiva" è un fatto indubitabilmente contro-intuitivo, tuttavia tramite questa tecnica il paziente può accedere alla migliore valutazione degli eventi; inoltre, il terapista può evidenziare come il soggetto abbia utilizzato determinati processi cognitivi o abbia commesso determinati errori cognitivi, e ciò è determinante per l’analisi del personale stile disfunzionale di ragionamento e quindi per l’eventuale addestramento e modificazione.Il terapista, in questa maniera, può disporre una modificazione dello stile attribuzionale del paziente e un allenamento mirante al miglioramento degli errori cognitivi. Riattribuzione Alcuni pazienti si prendono su di sè tutta la responsabilità degli eventi accaduti e di specifici errori o disgrazie che si sono verificate nella loro vita, altri invece non si curano affatto di analizzare la minima possibilità che in qualche circostanza possano aver giocato fortemente in senso causale sulle sorti di un qualche accadimento. Questa differenza tra le varie persone è dovuto alla differenza dello stile di attribuzione delle cause degli eventi, processo molto noto e molto importante nell’esame dei processi di ragionamento e di assunzione di responsabilità.Alcuni pazienti si lamentano profondamente sentendosi colpevoli di eventi apparentemente lontani e distanti da essi (senza un apparente legame causale ad occhio esterno), altri si lamentano per aver subito danni per colpa di altri, o per "colpa" del caso, senza alcuna attribuzione di propria responsabilità.In questi casi il terapista può aiutare il paziente a distribuire la responsabilità in modo ragionevole tra le relative parti in gioco. C’è da rilevare che, se il terapista prende una parte di troppo supporto il paziente può classificarlo come un amico o familiare che comunque, come tutti gli altri non può essergli di aiuto perché "non può capirlo in ciò che prova", se invece il terapista tende a caricare troppo i paziente di responsabilità egli si potrà sentire attaccato o criticato troppo duramente e con ciò abbandonare il rapporto terapeutico, agire contro il terapista, commettere un atto di protesta, o agire contro sè stesso sentendosi senza speranza.Il terapista può agire invece prendendo un posizione mediana aiutando il paziente a riattribuirsi le proprie responsabilità ragionevolmente senza prendersi tutte le critiche o le lamentele da parte di altri o da sè stesso.Il concetto chiave che può essere spesso riaffermato è che il soggetto è responsabile sia delle proprie attività mentali (desideri, credenze, scelte, errori, ...) sia delle proprie emozioni, come anche della propria condotta.
Esaminare le opzioni e le alternative Questa strategia cognitiva riguarda il lavoro con il paziente teso a generare opzioni aggiuntive. Se il paziente ad esempio crede di avere una sola scelta, quella di uccidersi, e di avere esaurito le altre a disposizione, allora è molto probabile che egli potrà portare a termine l’intenzione suicida; se il terapista adotta una posizione secondo la quale il suicidio è "sbagliato", "inutile", "illogico", o altro, egli correrà il rischio di essere in diretta opposizione col paziente; il conflitto di posizione potrà portare il paziente ad un atteggiamento di sfida, oltre che alla possibile rottura del rapporto, e ovviamente al rischio di comportamenti dannosi per sè. Il compito primario del terapista è sempre quello di generare scelte possibili e credibili, non di screditare quelle possedute dal paziente, almeno in un determinato tipo di situazioni (come nel rischio di suicidio).Quando il paziente ha scelte ed alternative per pensare e nelle quali credere, egli ha una scelta più grande ed è quindi più libero. Molto spesso i pazienti ansiosi (anche quelli con attacchi di panico) o quelli depressi considerano le cose per un solo verso ed hanno presente l’aspetto più negativo delle situazioni, come pure credono di non "avere scampo", o essere "intrappolati" in varie situazioni ed in varie modalità; in queste situazioni quando il paziente inizia a considerare credibilmente altre opzioni e altri modi di vedere o considerare le cose iniziano ad assumere più controllo sul proprio pensiero e sul proprio comportamento. Decatastrofizzare Se il paziente vede un esperienza come potenzialmente catastrofica, il terapista può aiutare il paziente a considerare se egli non stia sovrastimando la natura catastrofica della situazione. Ad esempio il terapista può proporre "cosa può farti di male ciò?", oppure "che danno particolare ti comporta ciò?", o anche "se ciò accade come pensi che ti sentirai fra un mese (o una settimana, o altro)?" Il terapista propone degli stimoli tendenti a "forzare" una visione diversa della situazione, una prospettiva meno a senso unico, meno catastrofica. Se il paziente considera lo stimolo minacciante o il pensiero negativo o la situazione da evitare come l’aspetto centrale della propria vita allora l’ansia o la depressione o l’emozione specifica associata alla situazione sarà intensa e drammaticamente resistente, ma se il terapista riesce a decentrare o articolare l’interesse del paziente su più aspetti o parti dello stesso aspetto generale allora l’aspettativa di "rimanere senza niente" o "essere scoperto (nel senso di esposto)" o anche "perdere l’unica cosa che ..." perderà importanza. E’ importante che il terapista riesca a promuovere nel paziente una prospettiva realistica delle conseguenze associate ad una certa situazione temuta o evitata. Un aspetto non secondario è la sensibilità del terapista nell’evitare di esporre il paziente ad autovalutazioni negative, o che si senta ridicolizzato o sminuito, mentre affronta il compito di prospettarsi il danno realistico piuttosto che il danno irrazionale e catastrofico, e lo stesso vale per le conseguenze associate.Alcune volte è utile fare l’esperienza dalla situazione per ricavarne il dato realistico altre volte è utile il ricordo soltanto, ma il paziente deve essere stimolato al confronto tra le proprie aspettative riguardo allo stimolo (un pensiero, un segnale dal proprio corpo, una certa situazione sociale) e delle valutazioni più moderate e realistiche. Fantasticare le conseguenze In questa tecnica si chiede al paziente di esporre le fantasie e le immagini riguardo ad una certa situazione problematica. Spesso il paziente mentre descrive i dettagli a riguardo evidenzia delle credenze del tutto irrazionali ed irrealistiche. Se il paziente esprime delle fantasie realistiche il terapista ha la possibilità di addestrare il paziente a migliori strategie nel padroneggiare il pericolo temuto o la situazione problematica; se il paziente invece produce delle fantasie irrealistiche sulle conseguenze allora il terapista può confrontarlo con i suoi dati disponibili o con altre situazioni simili.L’utilità del produrre fantasie è che, insieme al materiale immaginifico, il paziente produce credenze e teorie sulle cose e sugli avvenimenti, nella forma esemplificativa di singole situazioni, e dunque il terapista può disporre di materiale potenzialmente disponibile all’analisi di distorsioni logiche o alla evidenziazione delle valutazioni personali del paziente in relazione a specifiche situazioni critiche.Infine, il tentativo di previsione effettuato dal paziente attraverso l’immaginazione è esso stesso un veicolo di costruzione o ristrutturazione dei dati in possesso, nel quale viene modificato l’assetto di dati di conoscenza implicita o tacita in dati espliciti disponibili all’analisi e alla modificazione. Analizzare vantaggi e svantaggi Avere una lista dei vantaggi e degli svantaggi riguardo al mantenere o cambiare alcune proprie credenze o comportamenti può aiutare il paziente a raggiungere maggiore equilibrio e prospettiva. Una tecnica di graduazione può aiutare il soggetto ad abbandonare un atteggiamento cognitivo "tutto o niente" per acquisire uno che prenda in considerazione le possibilità eventuali dell’esperienza, e quindi considerare i sentimenti, i comportamenti, o le credenze come aventi sia qualità negative che positive.Se un paziente che ha una visione assolutistica di un aspetto della propria vita acquisisce la possibilità di considerare sia l’aspetto negativo che quello positivo dell’evento (o degli eventi) allora egli può raggiungere una più ampia prospettiva nel considerare gli stessi fatti, e ovviamente concettualizzarli in modo più completo e ricco.Questa tecnica può essere usata nell’aiutare il paziente a scegliere un modo di azione piuttosto che un altro, a vedere un fatto in un modo o in modo diverso, a considerare certi sentimenti piuttosto che altri. L’aiuto fornito dal terapista consiste soprattutto nel fornire adeguati casi o stimoli concernenti le parti opposte a quelle possedute e cristallizzate dal paziente. Certo è che l’analisi di punti nuovi di osservazione, di elementi non congrui con schemi posseduti, e comunque ogni stimolo che spinga il paziente a delle accomodazioni non è una via semplice ed agevole; il terapista deve considerare continuamente lo sforzo fatto dal paziente nella modificazione delle credenze possedute per non esporre il soggetto a sentimenti di incomprensione e svalutazione.Il paziente può utilizzare una modalità molto pratica di valutare i vari punti connessi ad una questione, ponendo i vantaggi da un lato e gli svantaggi dall’altro (in colonne) e pesando ogni item, per poi valutare nell’insieme la situazione. Questa tecnica può aiutare il soggetto anche a "vedere" una situazione nell’insieme, nelle sue diverse ed opposte articolazioni, e ciò aiuta a prendere decisioni ragionevoli.
Modificare gli svantaggi in vantaggi Ci sono delle volte in cui un fatto negativo può giocare un ruolo positivo per il paziente, e quindi una prima valutazione negativa può essere sostituita da una successiva valutazione positiva. Ci sono dei pazienti che secondo il loro umore e il loro stato possono non vedere assolutamente l’aspetto positivo della situazione, tanto da considerare il terapista un ingenuo o un inguaribile "ottimista", ma il lavoro per la ristrutturazione di una nuova prospettiva deve essere pazientemente tentato sempre poggiandosi su una base realistica. Ogni situazione è costituita da un lato positivo e da uno negativo, a secondo delle premesse e dell’umore del soggetto, ma è anche vero che ogni punto di vista può essere cambiato se il cambiamento si accorda con una buona relazione tra paziente e terapista, in modo che i dati proposti dal terapista siano considerati dal soggetto nella giusta luce e secondo la gradualità proposta dal terapista stesso. Spesso le proposte del terapista sono giudicate irrealistiche dal paziente il quale considera la propria posizione quella vera, allora può essere utile per il terapista trasformare entrambi i punti come estremi ed irrealistici e puntare in collaborazione con il paziente verso una posizione intermedia, che a volte è necessario costruire o formulare partendo da zero.
Etichettare le distorsioni La paura dell’ignoto è frequentemente uno degli aspetti salienti nei resoconti dei pazienti ansiosi. Il terapista allora può aiutare il soggetto ad identificare ed etichettare i meccanismi del fenomeno come le proprie distorsioni cognitive, e facendo ciò molto spesso l’ansia associata diminuisce.Uno dei primi passi verso l’auto conoscenza è una identificazione degli errori del proprio pensiero. In terapia, i pazienti possono trovare utile etichettare le particolari distorsioni cognitive che essi notano ed identificano nel proprio pensiero automatico e nell’analisi delle proprie valutazioni. Può essere spesso utile fornire al paziente una lista di riferimento delle comuni distorsioni cognitive, oppure discuterla in seduta anticipatamente. Una volta apprese le comuni distorsioni, il paziente è in grado di autocorreggersi o quanto meno di auto segnalarsele, per poi eventualmente lavorare su di esse in seduta.Un’altra utilità associata a questa tecnica è quella di acquisire lo stesso linguaggio, e così procedere più speditamente e senza fraintendimenti. In questo modo il paziente, pian piano inizia a "vedere" gli eventi dal punto di vista cognitivista, essendo le etichette non meramente parti del vocabolario del terapista ma strumenti di lettura dei meccanismi cognitivi impiegati dalle persone.Un accenno deve essere fatto alla questione delle etichette delle emozioni, dove è sempre necessario chiarire non soltanto i termini associati ai singoli stati emotivi espressi (in vario modo) dal paziente ma anche dare un accenno sulla natura delle emozioni di base, del loro radicamento evolutivo, del significato che ciascuna ha per l’uomo in genere, e a quali scopi ciascuna risponde. Tali chiarimenti non devono ovviamente assumere l’aspetto di una "lezione" ciò nondimeno è utile discutere con il paziente di tali concetti. Associazioni guidate e scoperta Spesso con semplici domande è possibile indagare i significati personali connessi a determinate esperienze di vita del paziente. Domande come ad esempio " E allora?", "Che cosa potrebbe significare ciò?", "Che cosa potrebbe succedere se...?", "Cosa ti succederebbe nel caso che ...?", "Quale è il tuo personale danno... ?", possono evidenziare lo schema posseduto dal soggetto nella elaborazione dell’evento, e contribuire a "smontare" quello schema preconfezionato al quale il paziente fa’ continuo e generale riferimento. La esplorazione che il paziente intraprende è la concatenazione di idee secondo una logica e un percorso che guida il paziente verso un potenziamento di conoscenza e di prospettiva sia personale che ambientale.Può essere molto utile per il paziente esprimere liberamente delle associazioni riguardo un certo stimolo o situazione-stimolo proposta dal terapista in modo tale che siano accessibili nel contesto della seduta idee, credenze, immagini che contribuiscono a determinare nelle rappresentazioni del paziente stimoli di innesco di schemi emotivi e cognitivi posseduti dal paziente, che sono più vicini al contesto naturale di vita. Paradossi ed esagerazioni Portando un’idea al suo estremo, il terapista può aiutare il paziente ad affrontare una credenza più direttamente. Certamente, il terapista deve essere molto cauto nel non ridicolizzare, insultare, o imbarazzare il paziente. Quando il terapista accentua un atteggiamento estremo, focalizzando termini assoluti come "mai", sempre", "nessuno", "tutti", ... il paziente spesso sarà spinto a modificare il suo atteggiamento da una visione estrema ad una posizione più mediana. C’è comunque un rischio che il paziente, ad esempio depresso, possa prendere sul serio tale intervento del terapista e vedere confermato il proprio sentimento di mancanza di speranza, oppure ad esempio nel paziente fobico, vedere confermato il rischio del pericolo personale.Il terapista che usa tale intervento deve tenere sotto controllo i seguenti criteri: a) un forte relazione con il paziente, b) tempo a disposizione, c) un buon livello di sensibilità per sapere quando uscire dal paradosso, d) un buon senso dell’umorismo. Graduazione Spesso, per quei pazienti che vedono le cose in un modo "tutto o niente" la tecnica di graduazione, cioè il porre le cose su un continuum, può essere molto utile.La graduazione di un livello di una convinzione o di una emozione può aiutare il paziente ad utilizzare la strategia di prendere distanza e acquisire prospettiva. Siccome il paziente è ad un punto estremo nel suo pensiero e nella propria convinzione, ogni movimento verso un punto medio sarà utile.Molti terapisti hanno adottato questa tecnica semplice, ed infatti la sua utilità è proporzionale alla sua semplicità.Il paziente è spinto a valutare il proprio stato emotivo, o la gravità del proprio problema o della situazione temuta e simili; una volta assegnato un valore al dato in questione, il terapista può chiedere al paziente di assegnare un valore alla situazione più piacevole, ad esempio, che ha mai provato in assoluto, che egli ovviamente ricordi, al quale si assegnerà il valore minimo di 0 oppure di 1; una volta fissato il "fondo-scala" il terapista chiederà al paziente di assegnare un valore alla situazione o problema che più di ogni altro lo ha esposto allo stato in questione (depressione, ansia, panico, rabbia, vergogna, ....), stato al quale si assegnerà il valore di 100; fissati i due estremi della scala di riferimento personale si chiederà al paziente di valutare nuovamente la situazione o problema attuale; si osserverà, nella maggior parte dei casi che il valore iniziale è diminuito per effetto dei riferimenti personali fissati dal paziente stesso. Questo cambiamento di valutazione non solo avviene sul piano quantitativo, ma anche indica un cambiamento di prospettiva, una visione del problema sulla base di informazioni personali più immediatamente disponibili.
Sostituzione di immagini Non tutto il pensiero automatico ha una natura verbale. Le immagini e le fantasie del paziente costituiscono anch’esse materiale proficuo ad essere trattato in terapia. Se il paziente ha immagini disfunzionali, lo si può aiutare a generare nuove immagini dove egli rappresenta capacità di affrontare più efficacemente e funzionalmente le situazioni, e a sostituirle a quelle depressogene ed ansiogene (o stimolanti altri stati emozionali).Molto spesso la generazione di immagini funzionali positive è parte degli allenamenti degli atleti, i quali in tal modo si rappresentano le capacità di riuscita nel compito, aiutandosi ad attivare lo slancio e la necessaria energia per riuscire.La sostituzioni delle immagini può avvenire sia in stato di quiete e rilassamento, sia in relazione a pensieri o a situazioni stimolo in un contesto naturale, ma anche durante la eventuale compilazione di schede di raccolta di pensieri disfunzionali dove la sostituzione delle immagini potenzia l’effetto della critica dei pensieri disfunzionali.Inoltre, l’analisi delle caratteristiche delle stesse immagini disfunzionali permette la creazione dello specifico scenario coerente con le situazioni naturali che innescano gli stati emotivi negativi, così da calibrare le nuove immagini da sostituire in maniera armonica e congruente con il resto della situazione stimolo.
Esternalizzazione di voci e pensieri Un metodo per trattare direttamente con i pensieri disfunzionali è quello di intrattenere il paziente in una sequenza di interazione verbale, dove il terapista eventualmente recita la parte delle ideazioni disfunzionali mentre il paziente è impegnato a criticarle e rispondervi adattivamente. All’inizio, il terapista può egli stesso rispondere produttivamente mentre il paziente gli comunica "on line" le proprie ideazioni disfunzionali, come in un processo di graduale allenamento (modellamento). Successivamente, il paziente potrà egli stesso dirigere le proprie critiche alle ideazioni "ad alta voce" portate dal terapista, il quale incrementerà sempre più, ma in modo graduale, il livello delle difficoltà. Questo metodo permette di studiare sia lo stile di adattamento del paziente sia il livello di acquisizione nella modificazione delle distorsioni ideative. Quando si esternalizzano le "voci" disfunzionali, sia il paziente sia il terapista sono in una posizione migliore per modificare le "voci" o "messaggi" in una varietà di modi più utili e funzionali. Il paziente può in questo modo riconoscere le caratteristiche irrazionali e disfunzionali in modo più chiaro e pieno. Anche il terapista è facilitato focalizzando più chiaramente il dialogo interno sia nello studiare le caratteristiche dell’eloquio del paziente cioè il tono, il contenuto, il contesto, le ambiguità pragmatiche, ma anche può egli stesso fungere da modello in alcune interazioni più critiche. Ripetizione cognitiva Questo metodo è una applicazione consequenziale di alcune altre tecniche precedenti. Generando, ad esempio, nuove più funzionali immagini il paziente può ripeterle varie volte in mente in modo tale che esse diventino patrimonio della conoscenza del paziente stesso; inoltre, mediante la ripetizione egli può sviluppare anche delle alternative, e ciò aumenta le coping skills in situazioni critiche. La ripetizione cognitiva favorisce lo sviluppo di routine che gradualmente vengono poi usate e padroneggiate dal paziente. Alcune applicazioni della ripetizione sono usate per scopi opposti: la ripetizione di una azione o di un pensiero lo rende quasi-automatico, ma prima di diventarlo il contenuto in questione è sotto una osservazione piuttosto intensa; tale attenzione rende il contenuto della ripetizione snaturato, irreale, scollegato dalla naturale rete di associazioni di significato. Ad esempio, un nome ripetuto molte volte appare strano e "anormale". Tale aspetto della ripetizione è utile in almeno due situazioni: quando un soggetto è allarmato a causa di un pensiero intrusivo, verso il quale attribuisce valenze intense e catastrofiche; e quando un soggetto attribuisce una valenza di estraneità ad un pensiero di cui si scandalizza. Autoistruzioni Solitamente, ciascuno di noi parla con sè stesso. Questo vuol dire che abbiamo la naturale dote di dare a noi stessi ordini, direttive, istruzioni, o altre informazioni necessarie a risolvere i vari problemi che si presentano. Vari autori hanno sviluppato modelli per comprendere le auto-istruzioni; ad esempio, il soggetto inizia il processo di istruzione partendo da verbalizzazioni ad alta voce di istruzioni efficaci, per poi passare a verbalizzazioni subvocali, per poi giungere a auto-istruzioni verbalizzate in mente (e infine "istruzioni" routinarie senza il proprio carattere verbale). Questo processo è utile sia nell’adulto che con soggetti in età evolutiva. Una applicazione tipica è nelle istruzioni mirate all’auto-controllo in problemi di comportamento impulsivo. I soggetti praticano le istruzioni nei vari passi graduali, fino allo stadio delle autoistruzioni "cognitive".Possono applicarsi anche istruzioni contrarie o "contro-istruzioni"; in questo caso le istruzioni non hanno il valore di istruzioni di comportamenti di efficacia ma svolgono più il ruolo di pensieri distraenti, di strategie di "decompressione", di modalità di ristrutturazione dello stimolo o dell’evento scatenante.
Stop del pensiero I pensieri disadattivi e disfunzionali hanno spesso un effetto a cascata per il soggetto. Un pensiero o una riflessione su un dato evento può partire come un qualcosa di inizialmente insignificante ma può se "lasciato libero" acquistare peso e forza. Questo vuol dire che spesso gli individui valutano i propri pensieri e le proprie considerazioni attribuendo valutazioni a catena, e generando circoli e problemi secondari. Una volta creati, questi processi disfunzionali hanno un tale impatto sull’individuo che può essere difficile bloccarli. Ad esempio, un paziente depresso può generare una catena di considerazioni sulla minaccia da parte degli altri e della durezza della vita che può condurlo velocemente al suicidio.Una tecnica utile in queste situazioni, nello stadio precoce ed iniziale del processo, è lo "stop del pensiero". Per fare questo il terapista può addestrare il soggetto a raffigurarsi in mente la parola "Stop", oppure può scriverla su un foglio e indicarla ed utilizzarla all’occorrenza nella seduta, oppure può attribuire il significato di "stop" ad un gesto che all’occorrenza può fungere da segnale per il paziente e un ausilio per lo stesso paziente a rafforzare il comando di "stop". Possono essere utili vari modi per indicare il comando di "stop", da segnali visivi, a stimoli acustici come campanelli o altri rumori, o segnali cenestesici e tattili. Ognuna di queste procedure è usata nella fase di partenza del processo, ed è molto utile nel bloccare lo sviluppo e la progressione dei pensieri.I vari segnali usati per indicare il comando di "stop" sono utili anche per il valore mnemonico che possono avere; infatti essi possono costituire un aiuto e un sussidio per il paziente, il quale avendo applicato in seduta tale comando si ricorda di esso con più efficacia. Questa tecnica ha un valore duplice: è sia distraente, in quanto si propone un segnale all’attenzione distogliendola da un certo stimolo attivo fino a quel momento, ed è anche avversiva in quanto si contrappone una intenzione ad una intenzione contraria. Lo scopo principale è quello di permettere al paziente di riacquistare il senso del controllo del proprio pensiero attraverso un modo tangibile e perciò rassicurante.Questo tipo di procedura è utile per contrastare la modalità frequente che i soggetti utilizzano nel fronteggiare un pensiero (intrusivo) non voluto, sia scandalizzante che rifiutato o ancora giudicato estraneo. Se il soggetto intenzionalmente si sforza di non pensarlo incorre nel famoso "paradosso della intenzionalità" pensandolo in realtà molto più di prima in quanto controllerà se lo sta pensando momento per momento. Una modalità adattiva consiste nell’impegnarsi in un compito selezionato che ha un valore di interesse e di utilità reale per il soggetto (non è scelto a caso.Una variante è quella di indirizzare lo "stop" non al pensiero intrusivo ma alla valutazione negativa del soggetto; lo stop ha la funzione di blocco delle valutazioni disfunzionali ma anche quello di costruire tendenzialmente una rappresentazione sempre meno convincente delle originarie valutazioni. Questa variante punta allo sviluppo di un atteggiamento di accettazione dei propri contenuti mentali.
Focalizzazione Tutte le persone hanno un limite nella quantità di cose che possono pensare o tenere a mente contemporaneamente. Occupando la propria mente con pensieri neutri o positivi, il soggetto può bloccare il pensiero disfunzionale per un periodo di tempo. Questo processo può essere fatto attraverso il contare, il visualizzare immagini di calma o piacevoli, o porre attenzione su stimoli esterni (oggetti, luci, sensazioni tattili, ...). Sebbene esse sia una tecnica a breve termine può essere utile per permettere al paziente di avere il tempo per fare una valutazione, o un dato comportamento, o mettere in pratica qualche sequenza di una strategia terapeutica più complessa. Spesso, il paziente ansioso pone eccessiva attenzione sulle proprie sensazioni corporee e così facendo le interpreta catastroficamente; se il soggetto orienta all’esterno il proprio focus attentivo può contare maggiormente sulle proprie facoltà di ragionamento. Alcuni stimoli esterni possono servire d’aiuto: un accessorio nell’abbigliamento di chi ci sta di fronte, il muro di fondo di un ambiente, il colore di un oggetto, le sensazioni tattili delle nostre dita, ecc...La focalizzazione può essere di aiuto anche per lo scopo opposto, cioè aiutare il paziente a percepire sensazioni e segnali utili del proprio stato. Molti soggetti possono aumentare la propria consapevolezza del proprio stato emotivo e dei segnali fisiologici per orientarsi e meglio definire e categorizzare le proprie reazioni (ciò contrapposto al caos interno ed alla confusione rispetto alle proprie reazioni).
Discussione diretta Molte volte può essere di aiuto discutere direttamente con il paziente di questioni che sono al centro della sua attenzione, in special modo quando la situazione richiede un intervento forte per evitare un comportamento impulsivo o autolesivo del paziente. Il terapista in questi casi può rapidamente e direttamente affrontare e discutere le cognizioni centrali attive del paziente, ad esempio la mancanza di opzioni e di speranza nel soggetto depresso con rischio di suicidio, anche se esso deve essere usato con molta cautela per non stimolare reazioni passivo-aggressive o oppositive del paziente. La base di interventi di discussione diretta è più efficace ed utile quando c’è una rapporto consolidato con il soggetto.Gran parte della seduta può essere impegnata nell’affrontare questioni e punti poco chiari o problematici in uno stile di diretta confrontazione, e spesso le informazioni che se ne ricavano sono utili per un riesame della base dati raccolta con schede o altri strumenti. Infatti, alcuni soggetti possono più facilmente entrare in un atteggiamento naturale e proprio in una discussione che invece in un lavoro di ricostruzione o di dialogo immaginato svolto per proprio conto. Non è raro che soggetti con scarse informazioni contenute negli strumenti come schede o diari manifestino cognizioni disfunzionali se stimolate e raccolte direttamente, "on line".
Dissonanza cognitiva Spesso può essere utile cercare delle aree di conflitto nel soggetto al fine di creare uno stato di "ansia" o di necessità di soluzione. Questa tecnica se da un lato può apparire paradossale dall’altro permette di prendere in considerazione una sfera importante in un modo più centrato in vista della soluzione, in quanto l’attivazione determinata dalla valutazione del conflitto genera delle tendenze all’azione tesa proprio alla riduzione di questa dissonanza. Certamente, la composizione della dissonanza deve essere ben padroneggiabile dal terapista ed essere terreno familiare al soggetto, in quanto un dato materiale nuovo o sorprendente costituirebbe invece una spinta più probabilmente impulsiva e non controllabile. Soggetti che ad esempio, sottovalutano le conseguenze del proprio comportamento possono utilizzare efficacemente la dissonanza agendo in modo più utile per ridurre i conflitto una volta che è stato generato. Compilazione di una scheda o un diario Molto spesso, il terapista chiede al paziente di porre la propria attenzione su specifici comportamenti, sia sintomi clinici sia azioni o pensieri neutrali; questa attività di osservazione è una parte importante della terapia cognitiva in quanto mira sia alla raccolta di dati empirici sia cerca di modificare l’atteggiamento del paziente che frequentemente è rigidamente bloccato in una posizione pregiudiziale (top-down) riguardo ai propri malesseri e problemi. Il compito di raccogliere dei dati è, anche di per sé, benefico in quanto introduce un elemento di operatività che alcune volte è assente nella situazione problematica del paziente; si dice spesso che lo stesso monitorare la depressione la diminuisce: ciò, se pur esagerato, è in parte giusto, in quanto il soggetto inizia a differenziare la propria situazione, anche solo relativa al sintomo-bersaglio, da una valutazione assolutistica, globalizzata, generalizzata, dicotomica, egli tende verso una valutazione più moderata, differenziata, articolata, graduata.Le schede di auto-monitoraggio possono essere autocostruite insieme al paziente, e calibrate sullo specifico compito; alcune schede possono contenere due colonne, una per le date di ciascuna osservazione, l’altra per il tipo di dato. Il dato raccolto può essere un punteggio di intensità di quel sintomo o di quella emozione, oppure può essere un punteggio medio di una giornata, o può essere un punteggio relativo alla frequenza di un comportamento. La scheda può avere più colonne, ciascuna per una informazione diversa che è utile raccogliere: ad esempio, data, situazione, intensità del sintomo, intervento del paziente, nuova intensità del sintomo.La tipologia delle schede è varia, e viene modificata dai diversi autori in riferimento allo specifico obiettivo. E’ importante tenere presente che la scheda è uno strumento operativo indirizzato alla raccolta di informazioni e quindi sono le informazioni che devono essere l’obiettivo non la mera compilazione di una qualsiasi scheda.Anche i diari sono utili se concepiti come resoconti del paziente in risposta a specifici stimoli o situazioni concordate con il terapista. Spesso, inizialmente, il paziente produce resoconti non pertinenti a situazioni concordate o dove non è facile capire il nesso tra un A ed un C, o tra un B ed un C (nel modello ABC). Ciò deve essere un segnale per il terapista il quale deve ridiscutere con il paziente le modalità di raccolta delle informazioni al fine di accordarsi su obiettivi specifici e su situazioni mirate utili per il lavoro psicoterapeutico (non tutta la vita del paziente è utile, né tutte le sue osservazioni casuali, né tantomeno le lunghe descrizioni di qualche situazione, sebbene tutto questo sia sempre e comunque interessante e prezioso ad altri livelli).Le schede, inoltre, sono parte integrante di interventi di modificazione di processi cognitivi e di ristrutturazione.Uno degli aspetti più evidenti del carattere cognitivo del monitoraggio e uso delle schede è quello relativo alla compilazione delle attività piacevoli. Il soggetto descrive l’andamento di attività piacevoli nella giornata, la frequenza di esse, e il grado di piacevolezza. Questo compito non ha soltanto, come è evidente, un valore di raccolta di informazioni ma la stessa raccolta di tali informazioni, l’essere cioè "sotto osservazione", tende a sviluppare tali attività ed a elevare il grado di piacevolezza. Tale effetto si spiega perché il soggetto una volta centrato il focus su tali attività le nota maggiormente, e notandole le discrimina in rapporto ad altre attività della giornata; egli quindi articola e discrimina in modo più adeguato le proprie azioni e le proprie valutazioni sulle attività che intraprende.
Ristrutturazione cognitiva In generale, le caratteristiche della ristrutturazione cognitiva sono quelle del modello ABC generale, cioè della raccolta delle informazioni su A, B e C, e della relativa discussione e modificazione del B.Descritta come uno specifico intervento, la ristrutturazione cognitiva è caratterizzata dalla raccolta delle cognizioni attraverso una scheda a colonne, e dalla modificazione delle valutazioni o delle inferenze del soggetto. Un tipico esempio può essere il seguente: il soggetto fissa un A, un evento o una situazione che lo ha colpito ( C), poi fissa un C valutando la intensità (ad esempio da 1 a 10), poi cerca di descrivere i contenuti mentali che ha attivato, nella colonna accanto descrive il proprio intervento "tecnico", ed infine rivaluta la intensità del proprio C.La tipologia degli interventi di ristrutturazione è classicamente caratterizzata da due diversi modi: una prima variante si occupa della modificazione delle cognizioni attraverso la formulazione di una spiegazione alternativa, o più spiegazioni alternative, e una seconda variante che si pone l’obiettivo di modificare il B attraverso un test empirico. In ognuna delle due varianti il soggetto rivaluta il C dopo aver prodotto l’intervento adattivo (spiegazione alternativa o verifica empirica). Esposizione L’esposizione è parte di una più generale strategia di trattamento, ed è una delle procedure tecniche più usate in assoluto. L’efficacia della esposizione è altamente positiva, tanto che tale tecnica è confrontata con altri pacchetti terapeutici molto complessi, o anche con altre psicoterapie di orientamento diverso.L’esposizione può essere, classicamente, sia graduata sia diretta, oppure può essere sia "in vivo" sia immaginativa; queste varianti hanno una efficacia terapeutica diversa, infatti la procedura più efficace in assoluto è l’esposizione graduata in vivo; tuttavia, i vari modi di attuare una esposizione dipendono strettamente del tipo di problema che il paziente ha esposto e sulla strategia portata avanti dal terapista. Ad esempio, un paziente può lavorare sulla esposizione ad una situazione non reale o assai rara, e quindi non potrà organizzare una esposizione in vivo. L’esposizione è un procedura che si ritrova in numerose tecniche maggiori, come ad esempio la Desensibilizzazione Sistematica di Wolpe, e contribuisce con la propria efficacia al successo di tecniche che altrimenti, forse, non avrebbero tanta popolarità.L’esposizione può essere indirizzata ad una varietà di stimoli o sintomi o situazioni problematiche in quanto il senso di questo intervento è quello di permettere al soggetto di accostarsi ad un dato concreto per verificare se esso è gestibile (se la intensità del C è gestibile, e se le valutazioni sulla propria efficacia a gestire quella situazione, nel B, sono adeguate o meno). Gli effetti della esposizione sono tali da modificare le percezioni del soggetto nei riguardi dello stimolo scelto, modificare le valutazioni disfunzionali, modificare le convinzioni di efficacia personale nel controllo e nella gestione della situazione scelta, ed infine permette al soggetto di riprendere le attività che aveva abbandonato. L’esposizione è il contrario del comportamento di evitamento, e potrebbe sembrare ingenuo che un soggetto che evita poi si esponga; in realtà tutti i soggetti che evitano sono capaci di esporsi gradualmente, se l’esposizione è concordata e definita con il paziente, e nella quale è chiaramente definito l’obiettivo di questa procedura.La natura degli stimoli che sono oggetto della esposizione possono essere tanto interni quanto esterni, possono essere sia sensazioni interne (come nelle procedure per il trattamento degli attacchi di panico, ipocondria, ossessioni) sia situazioni esterne (agorafobia, fobia sociale, depressione); la natura della procedura di esposizione è la medesima sia con stimoli esterni che con stimoli interni: il soggetto si accosta ad uno stimolo verso il quale attiva cognizioni disfunzionali sia verso l’oggetto della esposizione sia verso di sé nei rapporti con lo stimolo stesso.L’esposizione è usata come parte di altre procedura quali la verifica delle evidenze e la verifica empirica, ed usata in combinazione con le attività di raccolta di informazioni come le schede o i diari. L’uso della esposizione può rapidamente far recuperare al soggetto tutta una serie di abilità e di poteri che aveva abbandonato a causa del disturbo. Prevenzione della risposta La prevenzione della risposta ovvero l’astinenza nell’emettere una specifica risposta è spesso utilizzata nel trattamento delle compulsioni e dei disturbi d’impulso. Il paziente può cercare di identificare il momento in cui l’impulso a compiere un certo comportamento diventa molto intenso. La compulsione può essere qualsiasi comportamento che il soggetto si sente spinto a compiere, per una ragione di controllo, di annullamento di pensieri (intrusivi), di cerimoniali, etc. Il soggetto, mentre crede nella assoluta imprescindibilità della compulsione, può gradualmente confrontarsi con l’assenza di tale comportamento. La richiesta di astenersi dal compiere un comportamento deve essere fatto in un contesto di collaborazione e verifica empirica delle inferenze ed assunzioni del soggetto. Spesso la prevenzione totale della risposta può scoraggiare il paziente, perché troppo impegnativa; invece, può essere utilizzata la astinenza graduale, sotto la forma di un "record personale". Il soggetto può poi concedersi di ritornare all’emissione della compulsione. In un piano programmato, il paziente si espone allo stimolo che innesca la compulsione, e prova la propria resistenza, in un aumento graduale di astinenza. L’effetto è duplice: primo, il soggetto può verificare che astenersi non porta a conseguenza catastrofiche, inoltre che le proprie inferenze ed assunzioni possono essere suscettibili di modificazione. La prevenzione della risposta può essere indirizzata ad una varietà di comportamenti, cioè tutti quelli che il soggetto ritiene incontrollabili e costrittivi.
Interventi psico-retorici: le disfunzioni degli atteggiamenti intenzionali
Premessa L’elenco che segue più sotto rappresenta un esempio, abbastanza rappresentativo, di atteggiamenti perseguiti consapevolmente che producono sofferenza in quanto irrazionali, paradossali (in quanto non possibili), implausibili.Tali atteggiamenti sono credenze che guidano scopi nella condotta, e dunque sono l’elemento causativo di sofferenza. In sostanza, la inadeguata composizione di un piano di condotta, cioè credenze e scopi pianificati, porta il soggetto a scontrarsi con delle ripetute invalidazioni del suo obiettivo: tutto ciò non è sufficiente a stimolare il soggetto a modificare i suoi scopi finali.Gli atteggiamenti inadeguati sono sovraordinati rispetto a tentativi e specifiche interazioni del soggetto, ed in conseguenza di tale dato il mantenimento di una determinata intenzione inadeguata comporta l’inefficacia dei tentativi di soluzione che il soggetto impiega; tutto questo anche prescindendo dal fatto che il soggetto si sia reso conto che il problema da risolvere riguarda la intenzione di base e non le conseguenze comportamentali e psicologiche. Un soggetto, ad esempio, può capire che insistere nelle richieste di dipendenza non porta i suoi frutti ma persevera in quanto non ha esaminato seriamente il fatto che è quello stesso scopo ad essere inadeguato, e questo in quanto non può essere padroneggiato da lui ma dipende da altri (c’è una evidente sovrastima delle attribuzioni di controllo interno su qualcosa che è palesemente controllata esternamente al soggetto, cioè i desideri degli altri); oppure il caso di un soggetto che persiste nell’irritarsi se qualcuno è stupido o squalificato, pur riconoscendo che la sua irritazione non farà certo mutare il livello di preparazione o intelligenza in qualcuno.Dunque, gli atteggiamenti intenzionali spiegano bene i paradossi della condotta e le situazioni negative che perdurano.Perché un soggetto pur valutando che una sua azione non risolve un certo problema non modifica la propria condotta? La risposta a tale questione, che in generale riguarda il problema del cambiamento o del mantenimento della sofferenza, è possibile se consideriamo il comportamento come un piano di azione, e quindi osserviamo che a monte di un tentativo di soluzione di un dato problema vi è una certa credenza il cui contenuto riguarda il valore che il soggetto attribuisce a quel tentativo, compresa la plausibilità e i criteri contestuali per metterlo in pratica. Quella stessa credenza è inserita in un piano che comprende una qualche credenza più generale il cui contenuto riguarda l’obiettivo finale, compreso il valore attribuito ad esse e la plausibilità di averlo. Come si può ben vedere, il cambiamento di un "pezzo" periferico del piano non modifica il piano stesso. Naturalmente, dobbiamo considerare che dopo un certo numero di tentativi negativi, esaurite le alternative periferiche, il piano debba essere riveduto nel livello più alto e generale (negli scopi strategici). Ma qui possiamo incontrare un fatto importante. Un soggetto può non avere una alternativa periferica o può non disporre di un contenuto alternativo al livello più alto o, infine, può non essere in grado di considerare che dovrebbe salire di livello. Questa ultima possibilità riguarderebbe, almeno teoricamente, soggetti meno sviluppati nella integrazione del proprio sistema conoscitivo (egocentrismo, infantilismo, concretismo, ...).Non voglio intendere la pianificazione della condotta come un modo iper-razionale di agire semmai la frequente inadeguata pianificazione mediante il mantenimento di atteggiamenti disfunzionali spiega le diffuse sofferenze psicologiche. Intendo per "razionale" la eliminazione dei tentativi di soluzione infruttuosi e la capacità di esaminare un problema al giusto livello di spiegazione e descrizione.Ma dove sono i problemi? Un primo aspetto è quello, come ho già accennato, di non eliminare un tentativo infruttuoso, per determinati motivi: non voler modificare una abitudine (per ragioni ulteriormente esaminabili), non avere disponibile un tentativo alternativo, non accorgersi che quel tentativo è inadeguato. Qui sorge un secondo aspetto. Il soggetto, per poter funzionare ed adattarsi, deve poter confrontare una propria risposta con il successo o meno della stessa: se non posso accorgermi che una mia risposta ha successo o no, non posso adattarmi. Per qualche ragione interessante, un soggetto potrebbe non accorgersi che un tentativo non è utile o non è adatto; ciò potrebbe accadere se le ipotesi che hanno stimolato il tentativo di soluzione, cioè le aspettative (credenze ipotetiche), sono assunte per vere ad ogni costo; o, come possibile alternative teorica, che quelle aspettative sono troppo importanti per il soggetto il quale non è pronto ad accettare un risultato alternativo. In pratica, o il soggetto riconosce una invalidazione e corregge il tiro, oppure persevera in quanto non accetta il costo da pagare di una modificazione di credenze importanti.Questa analisi della condotta spiega sufficientemente il mantenimento di condotte disfunzionali; un problema teorico però sorge se non viene risolto un punto importante: un soggetto non sceglie di credere a ciò che gli conviene (autoinganno ben chiarito da vari autori (Elster, 1989; Davidson, 1990; Castelfranchi, Miceli, 1995), e conosciuto tra gli addetti ai lavori come "legge di Pascal"). Nessun soggetto può esaminare prima i dati e dopo scegliere di credere a quel dato che più gli conviene; semmai, i soggetti credono ai dati che sono, per loro, più plausibili (cioè in sintonia con le credenze possedute che valutano come base o assunte come vere, o anche che derivano da una fonte valutata come autorevole e affidabile) oppure più verosimili (cioè derivanti dalla diretta raccolta delle informazioni, dai sensi, e coerenti con le credenze possedute). Per risolvere questo problema deve essere definito in quale modo un soggetto pur reputando di dover far qualcosa per uscire dal problema non modifica una credenza inadeguata.Una prima risposta è che un soggetto difficilmente rivede una credenza di base. Un dato può essere sovraordinato a molte altre credenze che da quello dipendono o può essere un aspetto abitudinario, una routine, e quindi potrebbe non essere affatto preso in considerazione per l’esame, come anche la eventuale modificazione; ciò nondimeno, una abitudine ha un effetto stabile e pervasivo sulla condotta del soggetto (influenza scopi e credenze).Una seconda risposta potrebbe essere quella che considera il soggetto non in possesso della scelta alternativa (che non sceglierebbe per mantenere la propria abitudine, come il caso precedente) ma che sceglie comunque di non cambiare nulla in quanto crede che sia più rischioso cambiare lo status quo che mantenerlo; in tale modo evita di apprendere. In questo ultimo caso il soggetto potrebbe apprendere qualcosa solo attraverso una via "differita", per imitazione, constatando che altri soggetti hanno acquisito qualcosa senza i rischi temuti.Nei due casi precedenti, comunque, c’è l’assunto che un soggetto cambia con difficoltà le proprie credenze importanti; ciò sembra essere in linea sia con le ricerche sul ragionamento in condizioni di incertezza sia con i dati di conoscenza provenienti dalla nostra osservazione quotidiana.
Analisi delle intenzioni disfunzionali Quella che segue è una lista di atteggiamenti strettamente intenzionali il cui perseguimento espone il soggetto ad una empasse. Gli scopi di queste proposizioni, i contenuti, e le intenzioni, non sono realizzabili concretamente in quanto il soggetto non ha il potere per portarle a compimento. Questo deficit di potere nel raggiungere questi specifici scopi è una caratteristica generale degli esseri umani (e di tutti gli altri organismi). Non può essere raggiunto nulla che non sia in nostro potere, ma per questi scopi non è possibile acquisire questo potere. E’ possibile altresì padroneggiare questa difficoltà in due modi: o desiderando liberamente quegli scopi e facendolo sapere ad altri se essi ne sono implicati oppure accettando il fatto che non possiamo raggiungerli e dunque riducendo le implicazioni generali che quei desideri avrebbero comportato (essere assertivi o accettare; insistere o rinunciare).Gli obiettivi necessari per la modificazione di tali scopi sono i cambiamenti di valutazione attraverso una modificazione sia di inferenze sia di valutazioni sia di assunzioni disfunzionali generali (modificazione dei B, a vari livelli). La "cassetta degli attrezzi" non può che consistere che nell’uso appropriato della discussione e della verifica empirica attraverso l’analisi di alcune assunzioni (credenze e desideri) generali; esse sono: - vorrei/ voglio (pretendo) - devo/ è utile - posso/ devo - opinione/ fatto - parte/ tutto - qualche volta/ sempre - responsabilità/ caso. Queste articolazioni sono la base del lavoro di modificazione delle convinzioni, sono i mattoni che permettono di riedificare una rete di credenze e scopi più adeguata; soprattutto, però, possono criticare e sfidare le convinzioni possedute dal paziente e dirigere la modificazione a questo livello.Varie assunzioni, teorie personali e piani di condotta possono essere sintetizzati da queste proposizioni che seguono: 1) voglio X e non riesco ad averlo: in tale proposizione il soggetto si confronta con un obiettivo (X) che non può perseguire; il soggetto può recedere e rinunciare a tale scopo finale, oppure non rinunciando può insistere e restare bloccato, a volte non riuscendo a giustificare la situazione in cui pur volendo qualcosa a volte non la otteniamo. 2) voglio X e voglio Y e non riesco ad averli insieme: il soggetto non riesce o non vuole scegliere; questo vale solo per le mete incompatibili, quindi deve essere visto se due obiettivi sono in realtà incompatibili; il soggetto è bloccato in quanto non assegna una priorità. 3) non voglio sentirmi in modo X: tale proposizione si riferisce alla impossibilità di agire ad un livello diverso di quello intenzionale, in quanto pur non desiderando avere una certa sensazione di fatto l’abbiamo; il soggetto può agire in vari modi per creare le condizioni favorevoli per ridurre o impedire un certo stimolo non intenzionale ( C), ma di fatto non può farlo direttamente; spesso è non perseguendo tale scopo che lo stimolo si riduce o si risolve. 4) voglio X ma dovrei volere Y: il soggetto pur desiderando un certo obiettivo, valuta negativamente questo fatto in quanto ha delle assunzioni generali nelle quali un certo obiettivo (X) è o incompatibile o almeno indesiderabile; il soggetto si trova in conflitto tra un desiderio specifico e una teoria generale, e non riesce ad articolare né i casi particolari o eccezioni, né è in grado o desidera modificare parte della teoria. 5) Voglio X anche se non posso avere X: se il soggetto non crede all’effetto invalidante e negativo delle proprie azioni allora può insistere anche contro l’evidenza plateale che un certo X, di fatto, non lo raggiunge; è possibile che un soggetto ignori il risultato di certe proprie azioni o non desidera verificarne l’effetto, e dunque tende, per principio, a continuare nella direzione stabilita; in alcuni casi il soggetto può insistere perché non altro davanti, non può scegliere nulla ("vorrei vivere anche se so che non posso più continuare a vivere"), ma in questo caso il soggetto può desiderare liberamente X anche se conosce la propria mancanza di potere su X e quindi non punta tutto sull’insistenza. 6) non posso fare a meno di X: il soggetto crede che X sia tutto, o sia un bene indispensabile, o un mezzo insostituibile; è il caso della indispensabilità, nella quale il soggetto non vede l’alternativa; spesso il soggetto ha delle convinzioni generali, altre volte ha delle credenze specifiche che ha costruito in esperienze concrete specifiche e particolari, ed in base a tali valutazioni ed inferenze crede che quelle aspettative che ha siano l’unico volto possibile della realtà. 7) non voglio essere X (o non voglio avere un "tratto" X): il soggetto si pone lo scopo di essere in un certo modo non badando al fatto che ciò che a volte significhiamo con alcuni termini personologici e caratteriologici è in sostanza il resoconto del giudizio di altri (educato, sensibile, onesto, comprensivo, simpatico, spontaneo, ...); da alcuni è definito "effetto Stendhal", il quale, come si sa, voleva diventare completamente spontaneo in società. 8) non voglio credere X: le credenze non sono intenzionali, quindi non possono essere oggetto di scelta; tuttavia, molti pazienti rifiutano molte credenze e constatazioni sulla base delle conseguenze che queste conoscenze comporterebbero secondo proprie assunzioni e schemi; i tentativi di rifiutare conoscenze che gli stessi soggetti hanno avuto modo di percepire è sempre un problema complesso; molti autori tendono a non trattare tali rifiuti come inconsapevolezze complete ma come tentativi continui di bloccare, interferire, e deviare i processi attentivi su altre conoscenze più neutrali. 9) non voglio che S sia X: qualcuno crede che il nostro potere sia anche quello di influire direttamente sugli altri, ma ciò non è di fatto possibile; dunque, i soggetto si pone lo scopo volere che qualcun altro sia fatto in un certo modo, o si comporti in qualche particolare modo, ma resta deluso; pur potendo desiderare che qualcuno o altri siano come ci piace o come vorremmo, le persone sono tali al di là della nostra volontà e del nostro desiderio. 10) non voglio che S creda X (o voglio che S creda Y): è il più comune paradosso che le persone attivano nelle relazioni interpersonali; tale proposizione è la base di tutte le fobie sociali, di tutte le timidezze, di ogni forma di dipendenza dagli altri e di sottomissione, di tutte le subordinazioni comuni che gli individui attivano, e delle quali si lamentano sia direttamente sia riguardo i loro effetti; pur potendo desiderare un giudizio favorevole o positivo dagli altri il soggetto non può pretenderlo, pena l’effetto paradossale della bizzarria della stessa richiesta; il soggetto può attivare tutte le condizioni in suo potere che possono favorire un giudizio positivo (comportarsi simpaticamente o benevolmente, essere generosi, aiutare, sorridere, ...) ma alla fine l’effetto non è mai scontato perché il proprio comportamento non agisce direttamente sulle libere opinioni degli altri.
Conclusioni Le micro-tecniche sono gli interventi che il terapista utilizza nella conduzione della psicoterapia cognitiva, e tali interventi possono essere utilizzati da soli o in combinazione tra loro, a seconda della strategia del terapista e degli obiettivi scelti e concordati tra paziente e terapista. La parte tecnologica della terapia non è un settore a sé stante da altri aspetti del trattamento, infatti molti autori definiscono in modo analogo, cioè come interventi specialistici, sia aspetti "tecnici" (come le micro-tecniche) sia aspetti relazionali di base; ogni aspetto della terapia può essere tecnico in quanto è una procedura per aiutare il paziente a risolvere il proprio problema psicologico (risolvere il C, tramite la modificazione dei B).Nel trattamento psicologico, "la tecnologia" può apparire un aspetto non "umano", distante dal contatto che il terapista ha con la sofferenza del paziente; in realtà, il trattamento psicologico ha un prerequisito, che è quello di essere, come terapista, una fonte credibile ed autorevole per il paziente e solo in quanto tale un trattamento psicologico è possibile. Ciò distanzia la psicoterapia da altri trattamenti di cura, ma proprio tali aspetti prerequisiti fissano il senso della psicoterapia globalmente intesa.Per quanto riguarda la questione riguardante l’opposizione (del tutto fuori posto) tra relazione terapeutica ed aspetti tecnici, la relazione terapeutica sembra veicolare i seguenti elementi terapeutici: esempio positivo e modello autorevole di riferimento; chiarificazione, educazione, apprendimento pratico di soluzioni; presa di coscienza, autoesplorazione, aumento di consapevolezza; esperienza emotiva correttiva, adattamento, figura vicariante; funzione vicariante, aiuto e supporto funzionale, co-costruzione. Tali aspetti sono, propriamente "tecnici" dato il contesto e gli scopi della interazione tra paziente e terapista.In sostanza, per poter lavorare bene paziente e terapista devono intendersi bene e collaborare l’uno con l’altro (piuttosto che effettuare interventi contro le intenzioni del soggetto sia da parte del terapista che da parte del paziente). Questa puntualizzazione definisce la relazione terapeutica più come uno stadio funzionale della psicoterapia (cioè come interventi tecnici) o, ad un livello generale di analisi, come la costruzione di un (prerequisito) clima sano, che dovrebbe essere la base di tutti i rapporti positivi e costruttivi. Bibliografia
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Linee guida per la psicoterapia cognitiva standard
Il DSM IV permette di porre la diagnosi di disturbo da attacchi di panico con o senza agorafobia, e agorafobia senza panico; l’agorafobia, inoltre, può essere da lieve a grave. Queste categorie possono essere caratterizzati da: - palpitazioni, cardiopalmo, o tachicardia; - sudorazione; - tremori fini o grandi scosse; - dispnea o sensazione di soffocamento; - sensazione di asfissia; - dolore o fastidio al petto; - nausea o disturbi addominali; - sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento; - derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da sè stessi); - paura di perdere il controllo o di impazzire; - paura di morire; - paraestesie (sensazioni di torpore o di formicolio) brividi o vampate di calore; - ansia relativa all’essere in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile allontanarsi o ricevere aiuto. Il modello cognitivo del disturbo di panico con agorafobia pone grande enfasi sulla interpretazione errata dell’ansia che il paziente elabora. Secondo questo modello, il primo attacco di panico può essere dovuto a numerosi fattori come una vulnerabilità biologica a certi stressors fisiologici oppure ad una temporanea modificazione fisiologica dovuta a fattori biologici variamente casuali. Questo attacco inaspettato viene interpretato dal paziente in modo catastrofico: "Ho un infarto", "Sto diventando pazzo". Come conseguenza di questo processo mentale, il paziente diventa ipersensibile ed allarmato su numerosi segnali interni di attivazione, arousal e sensazioni "estreme". Non appena egli focalizza questi stimoli propriocettivi (sensazioni psicofisiologiche) egli interpreta in modo errato normali sensazioni interpretando esse come pericolose: "Il mio cuore sta pulsando troppo forte" o "Mi sento debole, forse ho un collasso".Queste interpretazioni errate evolvono in sensazioni sempre crescenti di arousal, collasso, e desiderio impellente di fuga. L’agorafobia si sviluppa come risultato di un evitamento condizionato, di un apprendimento focalizzato, non appena il paziente apprende ad evitare quelle situazioni che crede possano portare a quelle situazioni minacciose e temute.L’elemento chiave, quindi, non è strettamente il sintomo acuto di una qualche causa biologica ma la paura di avere un nuovo attacco. Questa è la caratteristica della sindrome da attacchi di panico, nella quale le aspettative catastrofiche e l’ansia di anticipazione sono l’elemento emergente.Molti pazienti con agorafobia presentano, dopo un certo tempo, una diminuita quantità di attacchi di panico in quanto essi evitano sempre più le situazioni "a rischio". Possono essere indicati i seguenti punti: 1) Nell’assessment il terapista deve informarsi di tutti i possibili modi attivati dal paziente per evitare di avere gli attacchi, e che secondo la sua prospettiva lo proteggono dall’ansia acuta. La valutazione degli evitamenti è fondamentale per la pianificazione del trattamento. 2) Il paziente deve essere informato del modello cognitivo ABC, e devono essere brevemente ma chiaramente affrontati gli eventuali punti oscuri o di dubbio. In questa fase il terapista pone in risalto il meccanismo di evitamento e illustra il suo naturale contrario, l’esposizione, privilegiando una modalità graduale di applicazione. Si illustrano, inoltre, con una certa approssimazione, alcuni tipici sintomi degli stati di stress. Al paziente viene illustrato, in particolare, il meccanismo della iperventilazione, del suo ruolo nella produzione dei principali sintomi di allarme, ed il modo per bloccare o prevenire tale atteggiamento respiratorio, anche mediante la respirazione addominale frazionata o diaframmatica. 3) Il terapista aiuta il paziente a raccogliere informazioni sulle inferenze e le altre cognizioni disfunzionali, con l’uso di diari e schede, ed inizia a guidare il soggetto verso un atteggiamento di verifica empirica e critica delle cognizioni catastrofiche. In questa fase il paziente può iniziare una attività di graduale ristrutturazione, spesso con l’uso delle spiegazioni alternative e la determinazione del grado di convinzione (anche con altre varianti). Viene particolarmente chiarito il tentativo del paziente a fuggire ed evitare come un retaggio naturale di sopravvivenza che spesso può essere errato, e che i tentativi di sfuggire alle stesse sensazioni di attivazione (lieve stress quotidiano) sono uno scopo non adeguato; si illustra la via più diretta che è l’esposizione anche alle sensazioni interne, anche per verificare che non sono catastrofiche o preliminari ad un attacco. 4) Una volta avviato il trattamento, il paziente viene motivato ad esporsi gradualmente mediante un piano gerarchico graduale di luoghi o situazioni temute o "a rischio". In questa fase è spesso opportuno che anche qualche membro della famiglia collabori o sia almeno informato del significato di tali prescrizioni, in quanto spesso le relazioni familiari sono tese o compromesse, anche sulla base della sintomatologia del paziente e delle sue richieste di appoggio e supporto (a volte nella forma di "pretese" e "doverizzazioni"). 5) Il paziente viene incoraggiato a tenere bene in vista il compito graduale della esposizione, e porsi come obiettivo la crescente autonomia rispetto ai luoghi ed attività trascurate a causa del disturbo. Si incoraggia il soggetto ad effettuare letture indicate sul proprio disturbo e sul modello ABC (vi sono numerosi fascicoli scritti per questo scopo). 6) A volte, il paziente desidera porsi obiettivi più a lungo termine e che riguardano il proprio atteggiamento generale, in questo caso l’obiettivo del trattamento deve essere modificato e conseguentemente anche la pianificazione della psicoterapia assume una forma differente; il paziente, in pratica, non fa più un trattamento mirato al disturbo da panico ma intraprende una psicoterapia di modificazione degli schemi (personalità).
Disturbo ossessivo-compulsivo Le caratteristiche del disturbo ossessivo-compulsivo sono illustrate variamente nel DSM-IV come segue: - pensieri, impulsi o immagini vissuti come intrusivi o inappropriati, e che causano ansia; - pensieri, impulsi o immagini che non sono preoccupazioni concrete della vita reale; - tentativi di ignorare o sopprimere tali attività mentali; - riconoscimento della natura "mentale" di tali produzioni del soggetto; - comportamenti ripetitivi che il soggetto sente come impellenti o obbligatori secondo certe regole; - comportamenti o attività mentali che il soggetto effettua allo scopo di prevenire un evento o una situazione temuta e che non hanno alcun legame concreto fattuale con esso; - autocritica per il proprio stato; - disagio marcato ed interferenza con le normali attività quotidiane. Il modello cognitivo del disturbo ossessivo-compulsivo evidenzia come caratteristica centrale la presenza di pensieri intrusivi che causano ansia. Tali cognizioni possono essere sia proposizioni sia immagini sia desideri o impulsi; tali attività mentali sono giudicate dal soggetto in modo negativo ed aventi un carattere di invalidazione riguardo il proprio assetto mentale e le assunzioni riguardo se stesso.I tentativi di opporsi a queste attività mentali intrusive innescano il "paradosso della intenzionalità" in cui il soggetto non solo non può bloccare una attività non intenzionale come la propria immaginazione ma potenzia ed incrementa la propria attenzione sulla specifica cognizione, nel tentativo di controllare se è ancora presente nella propria mente. Una volta impegnato in tale proposito il soggetto è intrappolato nel paradosso.Mentre l’intensità dell’intrusione aumenta, il soggetto intraprende altri tentativi più radicali per auto-impedirsi di avere una certa cognizione, e tali attività, rituali e compulsioni, possono essere comportamenti più svariati e attività di pensiero le più impegnative e massive che il soggetto riesce ad inventare. In questa ricerca di pace il soggetto spesso scopre delle attività distraenti, e le usa intensamente mentre però controlla cognitivamente la loro efficacia; il paziente è così doppiamente impegnato in una lotta per annullare i contenuti negativi del proprio pensiero (o altro).Il modello cognitivo riconosce alla base di questo disturbo una valutazione negativa che regola la condotta del soggetto e secondo la quale lo specifico contenuto può essere, ad esempio, scandalizzante, violento, bizzarro; la conseguente inferenza catastrofica del soggetto può essere rispettivamente che egli diventerà osceno, criminale, o pazzo. A questo set cognitivo si aggiunge che il soggetto può giudicare catastrofico ed estremo l’indulgere in comportamenti scandalizzanti, violenti o bizzarri, come una prova inconfutabile della propria indegnità globale come persona.Molti soggetti iniziano precocemente nello sviluppo ad essere sensibili al giudizio sociale ed in particolare al proprio stesso giudizio, ed iniziano a manifestare una esigenza di controllo sia della condotta esterna sia del proprio pensiero. Molte volte il soggetto dubita della propria memoria o del proprio ragionamento perché stima troppo alta la temuta conseguenza di un proprio deficit; questo nella maggior parte dei casi si estende e si generalizza.La ipersensibilità è una delle caratteristiche che deve essere inserita nella pianificazione del trattamento insieme con la tendenza ad effettuare inferenze arbitrarie, e a formulare valutazioni globali negative personali.Il trattamento può essere schematizzato nei seguenti punti: 1) Il terapista illustra al paziente il modello cognitivo ABC con particolare riguardo alla distinzione tra attività mentale e sviluppo di emozioni negative, e alla distinzione tra fatti e cognizioni (caratteristica spesso variamente definita da vari autori come "pensiero magico", "onnipotenza", "egocentrismo integrale", "concretismo", "mentalità superstiziosa", ecc.). 2) Il paziente deve essere incoraggiato verso una riconcettualizzazione del processo associato alle cognizioni "intrusive" (normalizzazione) attraverso una graduale esposizione a tali contenuti, insieme ad una ristrutturazione delle assunzioni disfunzionali che mantengono l’atteggiamento negativo del paziente, ed in particolare per quel che riguarda la valutazione del contenuto cognitivo come scandalizzante, violento o bizzarro. A queste assunzioni disfunzionali sono associate altre valutazioni più generali che attengono al significato personale che tali temi hanno per il soggetto, e spesso sono un mix di valutazioni ed inferenze arbitrarie. Il paziente gradualmente riduce le generalizzazioni e le valutazioni personali negative accettando di avere sia pensieri "creativi" o "strani" sia di poter eventualmente attivare comportamenti specifici "strani" (decatastrofizzazione). 3) Il terapista spinge il paziente verso una attività di verifica delle inferenze rispetto ai contenuti inferenziali condizionati ("se non faccio X succederà Y") sia attraverso prove empiriche di lieve intensità (per non perdere la collaborazione del paziente il quale può voler evitare di fronteggiare il necessario stress), ma anche attraverso esposizioni immaginative quando, ad esempio, il contenuto "temuto" non è un evento concretamente verificabile. 4) L’obiettivo del trattamento inizia ad essere la ristrutturazione delle proprie preoccupazioni sulla cognizione intrusiva (e non la verifica della propria sicurezza, lealtà, memoria, funzionamento, onestà, ecc...) e sempre meno il tentativo di dimostrare che non c’è un reale rischio; in sostanza, gli interventi si indirizzano sempre più ad un B valutativo che inferenziale. A questo stadio il paziente utilizza schede per la formulazione di convinzioni alternative sia con il grado di convinzione iniziale e finale, sia con la formulazione multipla di spiegazioni alternative. Per i pazienti con rituali intensi può essere utilizzato la prevenzione della risposta attraverso la quale il soggetto ritarda l’impulso "anti-ansia" o di controllo, per stabilire un graduale aumento del tempo tra lo stimolo intrusivo e la risposta compulsiva; ciò deve essere spiegato al paziente come la ricerca graduale di un proprio "record personale" senza impegnarsi in compiti impossibili. Spesso i pazienti rapidamente acquisiscono più libertà dai rituali e compulsioni. 5) Il terapista, sempre più, mette in luce insieme al paziente le convinzioni di fondo attinenti al proprio valore personale, spesso legato alla convinzione di una propria diretta responsabilità in qualche fatto concreto. Il trattamento si focalizza sulla ristrutturazione di assunzioni di disvalore, generali o più specifiche a qualche evento di vita.
Depressione La depressione come sindrome psicologica è presente nel DSM-IV in una varietà di tipologie diagnostiche come: l’episodio depressivo maggiore, il disturbo depressivo maggiore, il disturbo distimico, il disturbo bipolare I° con episodio depressivo recente, disturbo bipolare II° con episodi depressivi ricorrenti, disturbo depressivo dovuta ad una condizione medica generale, disturbo dell’umore indotto da sostanze con manifestazioni depressive. La complessità della classificazione e la non particolare specificità del trattamento psicoterapico mirato alla depressione orienterà questa parte sul disturbo depressivo maggiore e distimia.Il disturbo depressivo è caratterizzato dalla presenza dei seguenti sintomi: - umore depresso nella maggior parte del tempo; - diminuzione marcata degli interessi e delle attività quotidiane abituali; - variazioni marcate nel regime alimentare sia in eccesso che in difetto; - disturbi del sonno persistenti; - agitazione o rallentamento sia oggettivi che soggettivi; - anergia; - sentimenti di svalutazione e di colpa; - deconcentrazione; - idee di morte. La concettualizzazione cognitivista della depressione pone in risalto il ruolo svolto dalle ruminazioni ideative e dalle cognizioni negative arbitrarie, ed infine attribuisce un certo peso alle assunzioni disfunzionali e alle convinzioni relative al proprio valore organizzate in schemi di base.Il ruolo svolto dalle inferenze negative, sotto forma di pensieri istantanei ed automatici, è quello di filtrare le informazioni provenienti dall’esterno secondo i contenuti dei propri schemi tematici, in una direzione strettamente deduttiva (top-down), con frequenti "salti" e conclusioni indebite ed arbitrarie. L’attività cognitiva del paziente depresso non è però tutta diretta dall’alto, dai propri schemi, ma lo stesso meccanismo di ragionamento (induzioni, deduzioni, giudizi) è deficitario in quanto il soggetto riduce progressivamente l’attività creativa, esplorativa e di rischio (quindi non apprende nulla di nuovo), e gradualmente utilizza sempre più deduzioni che induzioni ipotetiche. Il risultato è una paralisi della mente, ed un impoverimento (pseudo-demenza depressiva) della capacità di ragionare e dei contenuti individuali.Il soggetto evita le situazioni stressanti ma, classicamente, non trova tale rimedio utile; mentre aumenta il ritiro sono più intense le cognizioni rigide e pseudo-deliranti, non giovando di alcun feedback da parte degli altri e del mondo esterno.Il paziente depresso svaluta tutti i tentativi di aiuto per due ragioni: è convinto di non poter essere aiutato, è convinto della scarsa qualità dell’aiuto dell’altro.L’esame delle convinzioni del soggetto è indispensabile per il terapista, e l’attenta valutazione delle assunzioni del soggetto può rivelare degli "standards" assoluti, estremi, perfezionistici, ed a volte bizzarri e irrealistici. Il soggetto depresso spesso si lamenta di condizioni negative in quanto distanti dalle proprie aspettative (spesso, irrazionali ed assolute). E’ frequente osservare un certo atteggiamento di "pretesa" che accanto alla grande sofferenza del paziente può passare inosservata.Molti autori riconoscono nella depressione un tentativo di non seguire il flusso della vita ed adattarsi, ed accettare gli eventi, ma di resistere e bloccarsi testardamente su scopi non raggiungibili. La spiegazione di ciò può essere molto complessa, ma uno degli elementi comuni sembra essere l’atteggiamento assolutista, perfezionistico, doveristico.Tra le valutazioni dei soggetti depressi il terapista può ritrovare numerose attribuzioni negative personali del tipo interno - stabile - globale, in quanto il soggetto è convinto di non avere poteri sufficienti (auto-efficacia) per risolvere le proprie questioni, ed inizia ad attribuirsi caratteristiche inverse per i propri successi (esterni - temporanei - specifici).Il soggetto depresso sembra, da alcune ricerche, più realista dei soggetti normali, ma ciò vale solo per la previsione delle difficoltà, e questa caratteristica si spiega con la ridotta efficienza prestazionale.Il trattamento, dunque, è focalizzato sui seguenti punti: 1) Socializzazione del modello cognitivo ABC, puntando sulla possibilità di comprendere meglio cosa succede nel C, ed in particolare di aiutare il paziente ad avere un riscontro ed un più adeguato metro di confronto delle proprie emozioni negative (colpa, depressione, tristezza, disperazione, senso di incapacità, ...). 2) Illustrare al paziente la necessità di organizzarsi gradualmente nelle attività della propria giornata, per avere sia un quadro più chiaro e strutturato del proprio tempo davanti a sé, sia per incrementare l’attività fisica in quanto utile per l’umore e l’anergia.Il paziente demotivato può essere invogliato mediante la contrattazione di obiettivi facili, possibili, ma non sciocchi e privi di significato (il soggetto si giudica negativamente, e potrebbe quindi confermarselo di continuo). Il modo classico è l’uso di diari giornalieri di attività con il grado di piacere e padronanza. Spesso, però, è sufficiente il solo diario delle attività svolte; può essere valutata così anche la organizzazione giornaliera. 3) Il terapista inizia, mediante il collegamento dei C con i B, a valutare le assunzioni disfunzionali e le inferenze arbitrarie del paziente; il paziente può iniziare a discutere le proprie convinzioni relative agli standars ricercati, nelle diverse situazioni di vita, come anche nel corso nel passato recente. Le convinzioni sono trattate con la discussione e l’uso di alternative, ma soprattutto deve essere chiaramente spiegato e chiarito il ruolo degli errori cognitivi e degli atteggiamenti di fondo, ed il loro ruolo nella distorsione delle aspettative su sé stesso, sugli altri, e sulla spiegazione causale degli eventi. 4) Il paziente può iniziare ad impegnarsi con gradualità in attività piacevoli ed interessanti, che ha abbandonato, e può sempre più incrementare il controllo su eventi quotidiani concreti realistici, con una pianificazione guidata in modo decrescente dal terapista. 5) Il trattamento deve dedicarsi alla discussione e modificazione di valutazioni ed assunzioni riguardanti questioni specifiche di base, come particolari relazioni affettive, o rapporti familiari, o obiettivi di autorealizzazione. In tale compito il terapista aiuta il paziente a sviluppare una maggiore elasticità ed autonomia rispetto a "bisogni indispensabili" che il soggetto ha creduto di perseguire come un diritto; inoltre, il terapista inizia a collegare il risultato delle ristrutturazioni con alternative alle vicende quotidiane. 6) Infine, il soggetto è motivato dal terapista a rivedere prospetticamente il corso del proprio passato, in modo sintetico, al fine di riconcettualizzare complessivamente l’idea che aveva di sé come frutto di valutazioni inadeguate ed estreme. Il paziente deve essere informato che il percorso futuro può presentare altri stress ed eventi di vita negativi con i quali potrà confrontarsi; in tali situazioni potrà mettere alla prova l’adeguato uso di standards concreti e realistici, e riconoscere eventualmente cognizioni intrusive relative a scopi assolutisti, perfezionistici ed estremi.
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