LA
COMUNITA' PSICOTERAPEUTICA RESIDENZIALE E IL SUO CAMPO MENTALE
CONTRIBUTO PUBBLICATO, IN VERSIONE
MENO ESTESA, IN “INTERAZIONI” 2-1998/12, F. Angeli Editore.
Le esperienze delle Comunità
Terapeutiche per il disagio psichico nascono e si sviluppano nell’alveo della
complessa trasformazione scientifica e storico-culturale che dal dopoguerra ad
oggi ha caratterizzato l’intervento sulla gravità e le emergenze
psichiatriche in genere.
Fu l’ultima guerra, negli anni
‘40, con i suoi disastri e i suoi contraccolpi psicologici, a far comprendere
a pionieri quali Bion, Foulkes e Main in Inghilterra, Sivadon, Tosquelles e Oury
in Francia, non solo dell’opportunità economico-strategica, ma soprattutto
dell’opportunità clinica dell’intervento gruppale e della trasformazione di
reparti ospedalieri in comunità terapeutiche.
Non sembra affatto una casualità
l’associazione storica guerra-gruppo-comunità terapeutica: il conflitto, la
crisi collettiva delle coscienze, la possibilità di un olocausto totale, le
ideologie che come fantasmi primordiali prendono vita e trascinano le folle, la
minaccia alla democrazia; tutto ciò pare abbia attivato esattamente le tendenze
opposte della cooperazione, della circolazione fruttuosa delle idee e degli
affetti, di leadership non oppressive, che facilitano la crescita e
l’individuazione delle risorse individuali al servizio del gruppo e viceversa
(quasi come se fosse stata necessaria una guerra per ricordarci il potenziale
distruttivo delle folle e le effettive potenzialità dei gruppi umani). Un mito
di fondazione, quello dei gruppi terapeutici e delle CT, che trae dal caos -
dall’equazione folla=follia - la sua forza ordinatrice, in un ideale passaggio
dal gruppo acefalo e distruttivo al gruppo terapeutico.
In ambito filosofico-scientifico, la storia di questa trasformazione di
orientamenti, di metodologie, ma anche di setting e di tecniche, è anche la
storia, se vogliamo, di un ideale percorso della psicoterapia da un’humus
epistemologico “tradizionale” cusalistico-lineare e deterministico, ad
un’epistemologia della complessità per la quale sono valide nozioni come
pluralismo evolutivo, circolarità, molteplicità, campo probabilistico (Aparo-Casonato-Vigorelli;
Lo Verso); ma è anche la storia, nella clinica, della progressiva inclusione di
elementi del contesto di appartenenza del paziente come ulteriori e successivi
arricchimenti ai setting tradizionali.
Con la psicosi e con la gravità in
genere, è diventato oggi imprescindibile l’allargamento dell’orizzonte
d’azione della psicoterapia e dei setting che essa allestisce. Occorre cioé
andare sempre più incontro alla realtà psicopatologica della persona intesa
non più solo come una faccenda individuale e strutturale, ma anche come un
problema relativo alle reti relazionali più prossime all’individuo (famiglia,
gruppi di riferimento) e, ancora, al contesto più allargato della socio-cultura
di appartenenza della persona. Ed infatti, sembra sempre meno giustificabile
l’approccio alla psicosi e ai disturbi gravi attraverso una “monocultura”
dell’intervento, o attraverso l’utilizzo di strumenti terapeutici univoci e
modellisticamente uniformi. Non solo dunque tendono ad integrarsi i differenti
approcci e i vertici di osservazione anche inizialmente più lontani, ma si
tende sempre più a superare le oramai obsolete dicotomie:
riabilitativo/terapeutico,contenitivo/interpretativo, supportivo/espressivo,
intrapsichico/interpersonale, individuale/gruppale, nella direzione di
un’ottica integrata e globale.
L’idea di setting contenuta in
questo articolo (setting inteso come campo mentale) vuole essere un’idea
essenzialmente antropologica. Il campo mentale è dunque qui inteso come una
faccenda socio-culturale, cioè come un ambiente fisico-umano che con le sue
caratteristiche e la sua storia è in grado o meno di contenere il disagio
psichico e di “scioglierlo”. Esiste una sensibile differenza relativa al
decorso delle patologie mentali nelle diverse culture a fronte di una
sostanziale parità di prevalenza, a parità cioè di persone che mediamente si
ammalano di psicosi in tutto il mondo. Ciò che cambia, a seconda della
collocazione etno-geofrafica, è dunque la capacità di certe culture (parliamo
di paesi del terzo mondo) di “sciogliere” la malattia mentale e di
assorbirne i contraccolpi al suo interno; all’interno cioè di una trama di
significati, codici e rappresentazioni socio-culturali che ne diluiscono gli
effetti devastanti.
Qui
da noi, in occidente, credo che la situazione sia alquanto diversa: siamo
costretti a tamponare il problema della malattia mentale utilizzando metodi,
rappresentazioni e strategie frammentari che segnalano e attestano la fatica
della nostra cultura ad inquadrare e tollerare la follia. E i risultati si
vedono (nonostante i farmaci).
La CT residenziale assume forse
allora un’ulteriorità di senso alla luce di queste considerazioni che
c’incoraggia a proseguire la ricerca provando però a guardare in altre
direzioni. L’ambiente di CT diventa allora un laboratorio a tutto campo di
ricerca sulla condizione umana e sul dolore e non più o non solo una
“psicoterapia” alternativa.
Fatte queste doverose premesse,
voglio introdurre il tema dello specifico di CT, partendo da un tentativo di
definizione di contesto.
Ma alle domande: che cosa è una
Comunità Terapeutica, come e perchè “funziona”, non è certo facile
rispondere: mancano infatti i criteri e i dati relativi ai processi di
valutazione e validazione dei metodi, strategie, principi efficienti, che in
modi talora diversissimi hanno caratterizzato questo tipo d’intervento.
Possiamo però cominciare col dire
che l’intervento comunitario è innanzitutto un intervento che utilizza la
residenzialità prolungata (temporanea e di medio termine) dell’ospite a fini
terapeutici; esso quindi si caratterizza in primo luogo per:
1- La continuità del rapporto
paziente-CT: la presa in carico della persona e dei suoi bisogni fondato sulla
relazione prolungata nel tempo e intensiva nel quotidiano, all’interno di una
situazione gruppale permanente.
2- La discontinuità del rapporto
paziente-famiglia: il temporaneo allontanamento (ma non assoluto) dalla
famiglia, nei casi in cui questo sia reso necessario per il trattamento.
(Torricelli F.D., 1997)
Occorre
subito precisare che tali modalità vanno a definire un campo d’azione
delimitato, nonchè un’utenza ristretta: la CT non è certo la panacea o la
risposta definitiva al problema della sofferenza mentale (Main), ma è una delle
tante risposte possibili all’interno di una (immaginabile) rete articolata e
differenziata di servizi alla persona, con obiettivi e metodi peculiari che ne
delineano la specificità. Ed ancora, restringendo l’indagine all’interno
delle possibili risposte di tipo “comunitario-residenziale”, possono
coesistere diverse tipologie di strutture per differenti tipologie di utenza con
differenti bisogni
In
realtà la gran parte delle CT lavorano su un’utenza di pazienti “cronici”
o su un’utenza mista, e sembrerebbe che siano davvero rare le esperienze
comunitarie che definiscano una precisa scelta di campo rispetto alla selezione
degli ospiti. Questa insufficiente definizione non aiuta certo, a mio parere, né
le CT a focalizzare il proprio specifico, né i pazienti ad orientarsi verso una
CT anziché un’altra, per cui accade ancora troppo spesso che le domande
terapeutiche si schiaccino drammaticamente sulle poche offerte a disposizione,
spesso ricercate disperatamente, e a volte inadeguate.
La nostra esperienza ci suggerisce
criteri selettivi per i quali l’uso dell’intervento residenziale, temporaneo
ed intensivo, sia soprattutto finalizzato in senso preventivo (di tipo
secondario o terziario), ma anche terapeutico, per un’utenza in grado di
usufruire realmente di un’offerta terapeutico-riabilitativa attivante e
trasformativa.
Della CT pare giovarsi, con ottimi
risultati, soprattutto quella parte di pazienti psicotici giovani “con
potenzialità evolutive” (Gazale-Stuflesser-Vigorelli), con i quali sia
possibile costruire un’alleanza di lavoro e una continuità terapeutica
sufficiente che sia propedeutica per un lavoro sempre più mirato di
ricostruzione, ristorificazione e abilitazione-riabilitazione di capacità
personali e sociali, e per i quali è consigliabile un distacco temporaneo dal
contesto familiare, pur coinvolgendo la stessa famiglia nel progetto terapeutico
con modalità differenti. Quest’ordine di precisazioni non va a definire con
esattezza categorie nosologiche, quanto piuttosto una variegata fascia di utenza
per la quale gli aspetti di cronicità, gravità, fattori familiari, fattori
longitudinali, aspetti dell’esordio e del decorso, e aspetti della
sintomatologia (Pao), consentano di svolgere un lavoro basato sulla relazione e
sulla partecipazione quotidiana ad un contesto gruppale.
Va fatta perciò un’analisi della
compatibilità dell’intervento comunitario che varierà a seconda degli
obiettivi e dei modelli terapeutici tipici di ogni tipologia comunitaria, ma
soprattutto occorre valutare, attraverso meticolosi processi diagnostici, a
quali bisogni evolutivi s’intende tentare di rispondere, quali progetti è
possibile attivare e a quali rischi di neo-istituzionalizzazione si può andare
incontro.
Una terza definizione di contesto
riguarda la “qualità terapeutica” della Comunità per la quale essa è
“Terapeutica” per:
3- L’orientamento
psicoterapeutico: ovverossia, l’équipe appartenente alla CT è portatrice di
modelli terapeutici, impliciti ed espliciti, è in formazione permanente,
concepisce se stessa ed opera come “parte terapeutica” del contesto, è in
grado di allestire ambienti (fisici e psichici) idonei dei quali conosce e
stabilisce le coordinate organizzative e affettive (setting) all’interno di
una (relativa) cornice previsionale di percorso.
L’orientamento psicoterapeutico
di una CT, aggiungiamo, è dato anche dalla sua particolare “natura
istituzionale”, dalla capacità cioé dei suoi artefici di revisionare i
propri presupposti storico-fondativi e modellistici all’interno di una
continua dialettica conservazione/cambiamento: tale caratteristica ne fa
un’istituzione “fluida” e flessibile, capace cioé di allestire situazioni
curative “istituenti” piuttosto che “istituite”.
I
principi sui quali si può fondare l’orientamento psicoterapeutico della CT
possono essere i più disparati, e corrispondono in genere a quelli prevalenti
nella cultura psicoterapeutica in ciascun momento storico. Occorre segnalare però,
a questo punto, il rischio di giustapposizione di modelli teorico-pratici nati e
sviluppati in contesti del tutto differenti, e mutuati ed applicati nella
“clinica comunitaria”, in un contesto cioè che, per la sua complessa
specificità, non può essere assimilato ad alcun altro. Questa operazione può
talora condurre a vere e proprie “derive metodologiche” se non a drammatiche
distorsioni mistificanti per le quali la CT diventa un contenitore vuoto dentro
cui si agiscono rigidamente e si sommano gli interventi “terapeutici” senza
alcuna nozione di campo. Si rende necessaria perciò una maggiore riflessione
sulle caratteristiche del lavoro di CT, su cosa in particolare lo differenzia
dagli altri setting terapeutici, su quali sono i dati salienti e i fattori di
efficacia.
La CT dunque è una realtà del
tutto a sé stante che richiede una profonda revisione teorico-tecnica e un
radicale cambio di rotta rispetto ad altri contesti terapeutici, se non altro
perché in CT la multidisciplinarietà e l’integrazione degli interventi
s’impone come metodo.
Forse allora occorrerebbe porre
l’attenzione maggiormente sul “campo mentale” di una CT, sulla sua
costituzione e fondazione. Questo cambiamento di focus c’indurrebbe a
considerare la “terapeuticità” di una CT in massima parte nella sua storia,
nell’aspecificità degli elementi fondativi, nel suo particolare “clima
terapeutico” piuttosto che nella sua organizzazione o nel suo modello teorico
di riferimento. Tale cambiamento di ottica corrisponde ad affermare, in un certo
senso ed in maniera anche piuttosto esplicita, coordinate nuove o, se vogliamo,
un differente “sistema di valori” rispetto a ciò che comunemente viene
definito come “fattore terapeutico”. Siamo infatti convinti che in una CT ciò
che in psicoterapia generalmente viene considerato “aspecifico” assuma quasi
paradossalmente una sua cogente e spiccata “specificità” diventando
assolutamente determinante nel destino di quella CT (e dei suoi ospiti); ci
riferiamo ad esempio a fattori di complessa analizzabilità quali:
·
la cultura istituzionale: miti fondativi, storie, antropologie,
declinazioni organizzative;
·
la formazione dell’équipe: non intesa qui soltanto come apparato di
conoscenze tecniche o di titoli accademici (pur necessari), quanto piuttosto
come capacità dell’équipe di essere coesa e di costituire un campo mentale
autenticamente “terapeutico”, di avere un pensiero clinico abbastanza
condiviso, di realizzare processi d’integrazione, di assumersi la
responsabilità della presa in carico, di essere capace di processi osmotici
(relazionali, affettivi e produttivi) con la comunità allargata e con la
comunità scientifica;
·
i processi relativi all’appartenenza: che riguardano sia gli ospiti
che gli operatori e che definiscono i percorsi dell’identità: ci riferiamo
alla multiappartenenza di ciascuno di noi attraverso la famiglia, le
istituzioni, i ruoli lavorativi, i gruppi sociali ristretti e allargati.
L’attraversamento dell’ospite nella CT e nel suo sistema spazio-temporale,
simbolopoietico e valoriale diventa in questa ottica non un fattore incidentale
e contingente, ma il punto centrale della terapia;
·
la quotidianità interstiziale e il clima terapeutico della CT:
l’universo inesplorato di fatti, interazioni, relazioni dei momenti non
strutturati, che come afferma Roussillon, godono dello statuto di
“extraterritorialità” rispetto ai momenti organizzativi codificati, e che
noi ben sappiamo quanto incida sul percorso terapeutico di ogni ospite. Questo
fattore è a corollario del precedente poiché se assumiamo l’appartenenza al
campo mentale della CT come elemento trasformativo, l’osservazione e
l’attenzione sul clima quotidiano della CT e i movimenti dell’ospite al suo
interno nelle situazioni più informali, diventano i principali indicatori di
efficienza del lavoro terapeutico della CT.
L’analisi
del campo mentale di una CT richiederebbe dunque l’analisi approfondita di
ciascuno di questi punti (e probabilmente di altri ancora) che qui vengono
soltanto accennati, secondo metodi anche molto lontani dalla ricerca in
psicoterapia e in psicologia, e forse più vicini alla ricerca antropologica.
La principale e più evidente
differenza tra la situazione di CT ed ogni altra risiede nell’inclusione,
all’interno del setting di CT, della vita quotidiana del paziente e della
partecipazione ad essa da parte di un’équipe polivalente, tanto da fare
affermare a qualcuno che il setting di CT non è altro che la sua quotidianità.
La quotidianità in CT non può
ridursi né nello spontaneismo, né nella “tecnica” o nella bontà
organizzativa, bensì essa si fonda sul continuo ripensamento dei significati
che attraversano i mille fatti e le mille interazioni in CT in ogni sua
giornata, sulle infinite riflessioni che gli operatori e gli ospiti condividono,
su ogni segmento della vita di CT, sulla capacità che l’intero gruppo di CT
dimostra nell’essere flessibile, dinamico, evolutivo (in grado cioè di
migliorare i propri standard di vita), ma anche nell’essere tollerante,
contenitivo, riparativo, fiducioso. È possibile definire tutto questo come la
matrice terapeutica della convivenza che è legata ai fattori aspecifici
precedentemente citati.
La CT, inoltre deve poter essere un
ambiente domestico, vivibile, non medicalizzato, ma anche contenitivo e
protettivo, con determinate regole di vita che vengono settimanalmente discusse
da tutti nello spazio dell’assemblea.
Il quotidiano di CT sfugge
facilmente sia all’osservazione che all’attenzione “scientifica”: ciò
che accade nei momenti non strutturati, nelle a volte lunghissime giornate, nei
momenti di noia o viceversa di tensione, nei vasti meandri interstiziali che
riserva un qualsiasi giorno in CT, con i suoi mille scambi e mille situazioni,
è il pane quotidiano del lavoro di CT: solo l’attitudine transizionale
dell’équipe, l’esercizio condiviso, allo scambio, all’alternanza continua
tra illusione(speranza)-delusione-disillusione, nonchè la capacità di lettura
e attribuzione di senso di ogni scambio, costituirà quell’humus naturale che
ontogeneticamente precede la capacità simbolica. Esiste una psicopatologia
dell’esperienza transizionale che è quella che essenzialmente ci presentano i
nostri pazienti di CT e per la quale l’individuo mostra un radicale
disinteresse per lo scambio, un’incapacità di preoccupazione, una mancanza o
carenza di capacità ludica, un’incapacità di lavoro e di continuità nelle
attività, a talora anche una piattezza e banalità di pensiero e
argomentazione.
Solo nel contatto quotidiano con la
psicosi è possibile osservarla, pensarla e ripensarla, diversamente
dall’ineluttabilità dell’impotenza verso cui continuamente ci sospinge. Ma
perchè ciò sia possibile occorrono dei “sistemi di sicurezza”, degli
accorgimenti tecnico-organizzativi che consentano agli operatori di entrare ed
uscire continuamente dalle relazioni, dal clima psicotizzante della CT, per
potersi conquistare quella “giusta distanza” che faccia salva la “funzione
pensante” e rappresentativa presente nel campo mentale: dei “doppi
livelli” o livelli multipli di riflessione, come le supervisioni, le riunioni
di équipe, i confronti con altre esperienze ed altre realtà, etc.
L’organizzazione del quotidiano
di una CT allora non può che essere la rappresentazione sulla scena quotidiana
di una mente sana, viva e creativa, una mente-ambiente che costituisca una
gestalt sovraordinata, una rappresentazione “trascendente” capace di operare
i processi trasformativi e di neo-significazione procedendo dalla “cronaca”
dei fatti, delle azioni di tutti i giorni, fino alla “nuova storia” degli
individui e del gruppo nel suo insieme. Se in una CT si attiva un pensiero
condiviso ed un comune linguaggio nell’équipe, se cioè si promuove una
“cultura di gruppo” che sia orientata da questa trans-scena che a sua volta
rappresenta una mente sana, viva e creativa, il quotidiano confronto di ogni
operatore con la sconfinata apatia o con la noia degli ospiti, o con il loro
fatalismo o impotenza, o ancora, con la loro oppositività, il loro negativismo,
la loro paura e violenza, la loro fragilità, ebbene, tale quotidiano confronto
potrà essere alla pari e talvolta vincente, e l’operatore non si sentirà
perciò mai solo: ogni sua attività, seppure la più umile e semplice, diventa
un tassello di un mosaico, di paziente co-costruzione di un quadro più
integrato e organico; e ciò che avviene al di fuori dell’ospite di CT,
nell’ambiente umano e non umano che in quel momento lo contiene e lo nutre, ma
anche nell’ambiente “microculturale” costituito dalla CT, potrà diventare
il suo nuovo “cibo per la mente” di cui lui potrà appropriarsi (Searles,
1965).
La
“teoria della mente” d’ispirazione comunitaria si costruisce come
tentativo di risposta al problema della psicosi osservata però
dall’osservatorio privilegiato rappresentato dal quotidiano e dalla sua
matrice terapeutica: l’ampliamento dello spettro osservativo ci pone, come
osservatori, in condizioni analoghe a quelle dei contemporanei di Galileo
allorché, ponendo l’occhio sul telescopio, continuavano ad osservare ciò che
già supponevano di conoscere. È senz’altro possibile affermare che la
principale e più evidente differenza tra la situazione della CT e ogni altra
risieda proprio nello strumento osservativo che la residenzialità costituisce
per i curanti: la quotidiana e compartecipata frequentazione della psicosi ci
costringe a rapide ed impensate integrazioni, a brusche revisioni, proprio perché
ciò che è sotto i nostri occhi è l’ “agito della mente”, presente
nell’hic et nunc in tutte le sue possibili topografie e dimensioni. È per
questo che, nella quotidiana prassi di una CT, l’équipe è costantemente
sottoposta a sollecitazioni “psicotizzanti” che ripropongono al suo interno
gli insanabili conflitti di cui sono portatori gli ospiti residenti: partendo da
questo isomorfismo, ha inizio la terapia.
Nella nostra esplorazione del
setting di CT, abbiamo riportato l’esigenza, per questo tipo d’intervento,
di fare riferimento alla globalità e alla gruppalità della situazione
comunitaria come requisito essenziale del funzionamento della CT.
Questo non significa immaginare la
CT come un blocco monolitico che, come una struttura rigida, si muove tutta
insieme e senza mediazioni: la globalità e la gruppalità che attengono al
setting sono ascrivibili alla rappresentazione mentale dell’équipe e dei
pazienti di una delle dimensione sistemiche della CT, quella che riguarda la CT
come macro-sistema, che ha a che fare con il concetto di totalità come
espressione del Sé.
Possiamo immaginare questa totalità
macro-sistemica come una delle possibili metafore della mente umana.
Non si presume qui certo di
esaurire il concetto di mente umana iscrivendolo forzosamente all’interno di
un contesto ristretto come quello di Comunità Terapeutica, ma s’intende
invece descrivere la Comunità Terapeutica come una mente umana. Questo ci
consente di visualizzare il passaggio che avviene in CT tra ogni “area
mentale” e la sua “declinazione funzionale” all’interno della sua
organizzazione.
Una CT che funziona come una mente
sana, viva e creativa, è una CT che è innanzitutto in contatto con il senso
del limite: il limite del sistema che non è in grado compiutamente d’indagare
se stesso; il limite di una “storia”, unica e irripetibile (quella di ogni
CT e del suo gruppo fondatore), che tende “fisiologicamente” a conservare la
propria identità personale. Accanto a questi limiti “a monte”, ve ne sono
innumerevoli altri relativi ai concetti stessi di “cura” e di
“guarigione”, ma anche, più banalmente, i limiti personali degli individui
e delle loro possibilità, i limiti economici che talvolta sono decisivi nelle
(non) scelte terapeutiche delle CT, i limiti della socio-cultura di appartenenza
in cui si muove ogni CT.
Posti
i vincoli, è possibile esplorare le possibilità.
Se consideriamo la mente come la
coesistenza di aspetti antinomici, dovremo sforzarci di pensarla
contemporaneamente come unitaria e molteplice (ma anche conscia e inconscia,
femminile e maschile, digitale e analogica).
L’assetto comunitario si pone
isomorficamente in corrispondenza dialogica con la co-presenza degli aspetti
antinomici e pluralistici della mente, consentendo una dialettica trasformativa
e feconda tra di essi e, nello specifico, tra gli aspetti della patologia e gli
aspetti della salute mentale. Il dialogo tra le parti può rappresentarsi di
volta in volta su scenari sempre diversi, e allo stesso tempo su tutti gli
scenari.
L’organizzazione di una CT deve
poter consentire flessibilmente la rappresentazione sui molteplici scenari (in
tal senso, l’approccio comunitario alla gravità è un approccio eminentemente
di contesto, sul contesto, attraverso il contesto).
Esistono dunque differenti aree
della mente rappresentabili secondo una disposizione circolare e sincronica, ma
anche allo stesso tempo lineare e diacronica:
·
un’area duale (l’area della relazione primaria);
· un’area
di piccolo gruppo (l’area delle relazioni più prossime: famiglia reale o
fantasmatica);
·
un’area di gruppo allargato o mediano (l’area dell’appartenenza
“microculturale”);
·
un’area sociale (l’area dell’appartenenza “macroculturale”-metacontestuale-antropologica).
Con questo schema non s’intende
presentare un modello d’intervento, quanto piuttosto, e più semplicemente,
una delle tante possibili griglie osservative.
Se consideriamo l’assetto
patologico come una condizione pervasiva che investe, in modo e misura
differenti, tutti i livelli di funzionalità, da quello duale fino a quello
sociale, l’ambiente di CT si costituirà come “contesto riabilitativo” ad
ampio raggio contemplando interventi mirati sulle singole aree mentali e un
intervento integrato sull’insieme delle aree mentali, a seconda dei bisogni e
dei profili di ciascun paziente. Ogni area mentale deve poter trovare,
all’interno dell’organizzazione di CT, un suo campo di significazione ben
preciso, una sua “zona franca” ove sia possibile declinare la specifica
dinamica relativa al funzionamento di ogni specifica area: ogni area avrà
dunque un luogo, previsto organizzativamente, dove poter registrare, leggere,
pensare e restituire.
Secondo la loro rappresantibilità
circolare, ogni area è transizionale rispetto a tutte le altre; secondo la loro
rappresentabilità lineare, vi è un vettore evolutivo che procede dal livello
duale a quello sociale. La CT “funziona” soprattutto nel primo modo: opera
cioé sulla transizionalità circolare delle aree mentali; ma la CT opera anche,
linearmente, come istanza di differenziazione.
Non è pensabile, sulla base di
quanto andiamo affermando, un lavoro di CT che non prenda in considerazione la
globalità della situazione comunitaria come principio cardine del setting di
CT:
·
la globalità spazio-temporale di assetto
della CT;
·
la globalità del campo relazionale;
·
la globalità del percorso terapeutico.
L’area duale è il luogo della
sintonia con gli elementi di regressione del paziente grave ed il luogo della
dinamica transferale (in senso lato). Il suo bisogno di referenzialità
“forte” e individualizzata non può essere inteso soltanto come bisogno
difensivo pre-edipico, ma anche come necessità imprescindibile di sostegno e
contenimento personalizzato. Rispettare la bi-dimensionalità
simbiotico-fusionale del paziente grave (con tutti i suoi correlati evacuativi,
proiettivi, divoranti, totalizzanti) considerandola come una risorsa, anzichè
come un limite o un ostacolo da superare, consente di partire da un terreno di
potenzialità.
Sul campo delle relazioni duali si
giocano spesso le partite più importanti, si possono evidenziare i bisogni più
antichi, le disfunzionalità più profonde, i segreti meno condivisibili.
L’ascolto accogliente e attento di un operatore (uno in particolare e stabile)
verso l’ospite di CT, la sua capacità di tenerlo a mente, di rappresentarlo
quotidianamente nelle istanze più arcaiche, di proteggere le sue fragilità
narcisistiche dalle aggressioni della realtà, fino a sostituirsi a lui nei
momenti di difficoltà, laddove non ci possono essere né parole né pensieri
che lo rappresentano; la possibilità ancora di questo operatore di
sintonizzarsi con l’ospite sul registro del fare quotidiano, di costruire con
lui “pezzi” sempre più articolati di azioni finalizzate perchè pensate
all’interno di una relazione; la possibilità di un confronto intimo e
speculare, che apra la strada a nuovi processi d’identificazione, seppure
attraverso l’idealizzazione o le dinamiche schizoparanoidee
dell’identificazione proiettiva, ebbene, tutto questo deve poter essere
previsto e deve potersi dispiegare nella CT nel faticoso contatto quotidiano con
il paziente grave.
L’area duale è allora anche il
luogo della instancabile ricerca dell’alleanza con l’ospite di CT,
un’alleanza che non sia fine a se stessa, che non si risolva cioè in una
“faccenda a due”, ma che sia propedeutica all’ampliamento dell’orizzonte
relazionale, alla comprensione e significazione dei fatti che avvengono nei
diversi contesti quotidiani all’interno e all’esterno della CT. L’area
duale è un ponte che consente all’ospite innanzitutto di ambientarsi nella
nuova realtà e successivamente di proseguire un suo percorso in CT protetto e
rappresentato da qualcuno che si occupa e si preoccupa di lui, un operatore
capace di mediare laddove il paziente non sia in grado di farlo, vicariandolo
come “filtro” nelle svariate interazioni istituzionali (con i servizi
invianti, con la famiglia, con le istanze interne alla CT, con il sociale).
Questo livello funzionale della
mente è il luogo della fantasmatica familiare, il campo cioé di
rappresentazione del teatro familiare interno, delle sue trame e dei suoi
copioni (che nelle gravità diventano “sintomi”, rappresentazioni
autoreferenziali che tendono cancerosamente a riprodursi sempre identiche a se
stesse), il campo dell’affettività e dei sentimenti “familiari” e delle
sue modalità dinamiche.
F.Fornari, parla di fondazione
immaginaria del collettivo, con un proprio vocabolario minimo ed una propria
codificazione costituita da pochi essenziali simbolizzati (i coinemi) i cui
scopi sono sia quello di fornire un modello mentale di significazione
interrelazionale, sia di “programmazione istituzionale”. Quest’ottica si
avvicina molto all’idea del gruppo interno come fondazione multipersonale
della mente. La matrice familiare è rappresentabile sia attraverso i
simbolizzati dei codici affettivi parentali della famiglia (padre, madre,
figlio, fratello), sia attraverso le modalità rappresentative relazionali
peculiari di ogni famiglia.
Un ospite di CT attiva
automaticamente all’interno del campo gruppale allargato il suo personalissimo
piccolo gruppo familiare e la sua specifica fantasmatica, dislocandola
nell’ambiente e spazializzandola proiettivamente sulle figure reali e
fantasmatiche dell’équipe e del gruppo di compagni. Così come abbiamo già
detto a proposito dei movimenti regressivo-fusionali dell’area duale, la
riproposizione nell’attualità del “sintomo” familiare fantasmatico
interiorizzato, non è un ostacolo, bensì un altro punto di partenza della
terapia comunitaria. Farsi carico di questo per una CT vuol dire essenzialmente
allestire uno spazio di pensiero sulla peculiarità delle dinamiche relazionali
di piccolo gruppo. In questo caso, il contenuto delle relazioni non è più il
transfert all’interno di uno scambio binario, bensì la matrice di gruppo
all’interno di uno scambio multipersonale traspositivo. Tale campo mentale
rappresentato dalla matrice di piccolo gruppo assumerà però, all’interno di
una comunità, significati coerenti con la situazione particolarissima che
contestualizza l’intervento di CT, che, come già detto, si caratterizza per i
fattori della residenzialità e della quotidianità, nonchè per la gravità dei
pazienti presenti in CT. Il lavoro di “dinamizzazione” delle matrici
patologiche personali e familiari degli ospiti passa perciò, nell’intervento
di CT, attraverso un preliminare e faticoso lavoro sull’analisi puntuale della
convivenza, dell’appartenenza e della “ritualità”, e attraverso un
paziente lavoro di “analisi della realtà quotidiana” nella instancabile e
costante co-costruzione dei progetti, terapeutici e di vita, condivisi tra l’équipe
e il singolo paziente. La cultura della condivisione si attiva in prima istanza
nel piccolo gruppo e in seconda istanza in quello allargato: questo apre la
strada ai fenomeni del rispecchiamento e all’apprendimento interpersonale su
di sé e sui propri sentimenti.
Occorre però tenere presenti le
esigenze di contenimento e regolazione di alcuni pazienti gravi: il piccolo
gruppo deve poter assolvere anche a queste funzioni basiche considerandole come
fondanti della coesione di gruppo e quindi come fondanti la coesione del Sé. In
questo senso, il riferimento personalizzato di ciascun ospite con un operatore
deve potersi integrare con il riferimento di quello stesso ospite ad una piccola
équipe che si prende cura di lui e, più in generale, ad un campo di piccolo
gruppo (costituito da operatori e ospiti) di appartenenza privilegiata dove
possano dispiegarsi le differenti rappresentazioni e le differenti funzioni.
L’ospite di CT troverà un posto sia nella mente di un operatore (ma anche, se
opportuno, di un terapeuta individuale) sia nella mente di un gruppo.
E’ impensabile che un solo
operatore possa farsi esclusivamente carico della psicosi di un paziente e che
da solo rappresenti per lui le istanze combinate di accoglienza-sostegno,
normatività, alleanza e principio di realtà.
Il piccolo gruppo è allora quello spazio elettivo e protetto dove poter
introdurre, con modalità non persecutorie, il principio di realtà.
La
collocazione del piccolo gruppo va però vista all’interno di un assetto
globale dove coesistono tutti gli altri livelli funzionali ai quali il livello
di piccolo gruppo va integrato. Il lavoro d’integrazione deve avvenire a
livello di elaborazione dell’équipe complessiva della CT nei termini di
comunicazione efficiente tra le parti e di riflessione permanente sul modello.
Il gruppo allargato di una CT
corrisponde, in termini strutturali (non in termini di modello terapeutico),
alla definizione di De Maré relativa al gruppo mediano costituito da un numero
di componenti compreso circa tra 20-40, considerando la co-presenza nel campo
mentale di ospiti e operatori; una struttura antropologica di base intermedia
tra la famiglia e la società. Lo studio delle dinamiche del gruppo intermedio
è appena agli inizi.
Il gruppo allargato utilizza,
secondo De Maré, lo strumento della “cultura” intesa “come risultato
della contrapposizione tra l’individuo e la struttura sociale”, il suo
“testo” è il dialogo con una realtà che è pero “aperta alla
negoziazione”, il suo campo di azione e di esplorazione è il conscio. Nel
gruppo allargato della CT ci si trova però di fronte massimamente alla qualità
propria dell’organizzazione con il funzionamento tipico del gruppo di lavoro
con i suoi obiettivi, i suoi tempi scanditi, le sue attribuzione di significato,
le sue gerarchie (ed in questo in particolare differisce dal gruppo mediano
terapeutico: ci riferiamo alla copresenza in CT di 2 gruppi, quello degli ospiti
e quello degli operatori). Il gruppo allargato della CT diventa ben presto un
universo microculturale con le proprie leggi e categorizzazioni interne,
talvolta alternative o in contrasto con la macrocultura sociale (se non altro
per il clima di tolleranza e democrazia che vi è spesso in una CT e che
“fuori” è ben più difficile trovare), talora invece contigue e osmotiche.
Tale microcultura “terapeutica”, sviluppa l’appartenenza dei propri membri
all’interno di un sistema di significazioni e di rappresentazioni mediando
attraverso il dialogo e lo spirito di ricerca che le sono propri, e consentendo
all’ospite di CT di modificare i propri codici sub-culturali familiari e
sociali.
La terapia comunitaria nel gruppo
allargato corrisponde inoltre al continuo sforzo dell’équipe di preservare il
funzionamento tipico del “gruppo di lavoro” che incide sul livello conscio e
sulle potenzialità di apprendimento (come ad es. apprendere ad avere un proprio
posto, un proprio spazio di parola, propri diritti e doveri) degli individui. La
CT deve saper promuovere quella che De Maré chiama “dimensione laterale” od
orizzontale, tipica del linguaggio del gruppo allargato, quella “cultura del
dialogo” che non appartiene agli stadi narcisistici dei pazienti gravi: la
dimensione laterale, by-passando quella verticale e gerarchica, accede al
confronto “realistico” multipersonale che De Maré definisce come “setting
pre-politico”, un setting cioè che è transizionale tra quello
familiocentrico e quello sociale a metà strada tra parentela e amicizia, tra
consanguineità e società.
Il lavoro terapeutico delle CT a
livello del gruppo mediano è quello senz’altro meno esplorato, ma allo stesso
tempo è probabilmente il lavoro più specifico poiché è su questo livello che
si dispiegano i percorsi dell’appartenenza qui intesi come percorsi che
attivano nuovi temi culturali che sono in grado di trasformarsi in eventi
simbolici per l’ospite di CT. Normalmente questo “fattore terapeutico”
agisce (quando agisce) in maniera implicita e latente, all’insaputa dei
curanti. Il passaggio di un ospite all’interno del campo mentale della CT non
si risolve certo in un’operazione meccanicistica di “riparazione” di
aspetti disfunzionali, ma si tratta di un’esperienza che incide profondamente
sulla sua identità e sulla sua personalità. Tale incidenza trasformativa
utilizza precipuamente strumenti culturali: modalità relazionali, prassi e
consuetudini gruppali e istituzionali, nuovi stili narrativi, nuove declinazioni
simboliche della realtà, nuove gerarchie valoriali, nuove scansioni
spazio-temporali, nuovi interessi. Tutto ciò, secondo la nostra esperienza,
risulta essere più “terapeutico” di molti altri interventi ritenuti
comunemente efficaci e richiede una permanenenza temporalmente di media durata
(2-4 anni).
L’area sociale è l’interfaccia
mentale di tipo metacontestuale: essa precede e contiene individui, famiglie e
gruppi così come contiene le aree duali e gruppali della mente.
Nella patologia grave molto spesso
anche questa dimensione mentale è disinvestita e successivamente vissuta come
pericolosa e intollerabile: in questo caso, la dimensione sociale
“transpersonale” emerge nell’individuo e nella sua corporeità nella sua
forma panica e demoniaca, senza cioé alcuna mediazione simbolica e culturale.
Non a caso, le forme deliranti assumono sempre degli “organizzatori sociali
automatici” sottoforma di stereotipie, personaggi, situazioni e schemi
ricorrenti e socio-culturalmente definiti: Dio, il Diavolo, il Potente,
l’Aristocratico, Il Persecutore, il Perdente, il Deviante, il Bello o il
Perfetto (il Magro), il Brutto, etc.
Diciamo subito che a livello
dell’area sociale e delle sue rappresentazioni il lavoro della CT diventa più
complesso, ed il rischio di brutali semplificazioni è sempre dietro l’angolo.
Ci riferiamo in particolare alla frequentissima burocratizzazione
dell’intervento sociale e all’interpretazione di esso nei termini di
intrattenimento ergotaerapico, o di sterile attività di “socializzazione”:
in questo caso è la psicosi (ma non la psicosi della persona sofferente, bensì
quella sociale) che vince nella misura in cui include tutta la società e i suoi
rappresentanti istituzionali nel suo delirio.
Il lavoro sociale della CT è
quello di costruire le condizioni di un apprendimento/riapprendimento sociale, e
questo può avvenire soltanto all’interno della circolarità transizionale
della mente di cui la CT si prende cura globalmente, se cioé l’esperienza di
CT, nel suo insieme, per un paziente risulterà realmente “correttiva” e
riparativa, se riuscirà a fare proprie modalità relazionali, strutture mentali
sane, se riuscirà a trovare, attraverso la CT, un luogo (interno ed esterno) di
appartenenza, d’identità, di apprendimento di valori quali la partecipazione,
la solidarietà, il dialogo, l’amicizia, l’amore. In questo senso, la CT
diventa quel mediatore simbolopoietico e culturale che è mancato nella storia
psico-socio-patologica del paziente, un possibile ponte che congiunga sponde in
precedenza lontane.
Il
lavoro delle CT sull’area sociale della mente va posto innanzitutto come un
“a priori” che riguarda il modello terapeutico e l’approccio alla gravità.
Non crediamo né alla Comunità-Famiglia alternativa alla famiglia naturale e
alla società (pur essendo questo il mandato sociale prevalente e, a volte,
l’unica strada praticabile) che taglia fuori il mondo esterno perché
persecutorio e inaccogliente, né alla Comunità-Dormitorio dove l’enfasi
dell’adattamento a tutti i costi ai criteri prestazionali taglia fuori i
bisogni di appartenenza e di costruzione d’identità dell’individuo.
La CT deve essere in grado di
pensare al “dopo” dei propri pazienti già dal loro ingresso, in termini
realistici e soprattutto lo dovrà fare con altri soggetti (famiglia, altre
istituzioni), ma lo dovrà fare pensando in primo luogo alla propria
collocazione socio-culturale: se è in grado di dialogare con altre istituzioni
o di attivare un dialogo laddove esso sia carente; se è in grado di stabilire
legami e alleanze territoriali significativi e duraturi; se è in grado di
coinvolgere le famiglie nei progetti terapeutici; se è in grado di immaginare
la vita dei propri ospiti al di fuori del proprio dominio; se è in grado di
concepire se stessa come una realtà osmotica i cui confini sono permeabili (la
CT che occupa l’esterno e l’esterno che occupa la CT); se è in grado di
preparare l’uscita dei pazienti; se è in grado di partecipare al dibattito
scientifico-culturale sulla psicosi; se in grado, infine, di formare i propri
operatori allo specifico lavoro di reinserimento sociale.
Va detto, ad onor del vero, che la
storia “antiistituzionale” italiana che ha prodotto le rare e insufficienti
esperienze comunitarie, ha posto queste ultime in una posizione di marginalità
e di contrapposizione, nonché di minoranza. Questo, fino ad oggi, ha reso la
vita delle CT, pubbliche e private (privato-sociale), davvero molto difficile,
con esiti molto spesso negativi: si ripropongono ciclicamente problemi di
disconoscimento e disconferma del lavoro svolto dalle CT relativi alla stessa
opportunità di questo tipo d’intervento; si riattivano modalità subdole di
boicottaggio “burocratico”; si rende impraticabile il lavoro di rete e di
collaborazione tra i servizi, che sembrano parlare linguaggi del tutto
differenti; si continuano ad ignorare le peculiarità dell’intervento
comunitario attraverso processi perversi di delega per pazienti di cui “non si
sa che farne”.
Un’équipe di CT deve essere
pienamente consapevole di appartenere ad un tale contesto sociale multiforme
dove coesistono drammatiche contraddizioni, ambiguità e processi di
alienazione, ma dove vi possono essere enormi potenzialità da utilizzare: basti
pensare allo sviluppo delle imprese sociali e alle innumerevoli risorse sociali
di umanità e di mezzi a cui la stessa CT può accedere se soltanto accogliesse
tali contraddizioni come uno degli aspetti del lavoro con la “psicosi”. In
questo senso, la cultura istituzionale, incarnata da responsabili e operatori e
dalla loro capacità organizzativa ma anche dalla loro fantasia, diventa quel
fattore discriminante che consente all’ospite di CT di “praticare” il
mondo sociale senza grandi tensioni e senza troppe sollecitazioni alla
competizione.
IL LAVORO CON
LE FAMIGLIE E LA PRESA IN CARICO DELLE MULTIAPPARTENENZE DELL’OSPITE DI CT
Abbiamo detto in precedenza, tra le
definizioni di contesto della CT, della discontinuità del rapporto
paziente/famiglia che in ogni caso si viene a creare con l’ingresso
dell’ospite in CT.
Tale discontinuità non significa
in alcun modo sradicamento, riazzeramento e reinfetazione dell’ospite nella
CT, come in alcune realtà comunitarie avviene nella speranza che alla rigida
separazione fisica dalla famiglia corrisponda anche una separazione psichica ed
un’emancipazione maturativa, ma si tratta di un progetto che avviene col
consenso di tutte le parti in causa: paziente, famiglia, CT, servizio inviante,
che sono qui intesi tutti come clienti del servizio della stessa CT e nodi di
un’unica rete. È dunque una separazione puramente “strategica”, non
assoluta, che non assume certo i caratteri di radicale frattura o peggio di
abbandono da parte della famiglia, ed è una separazione a cui di per sé non
consegue né alcuna certezza terapeutica, né alcun cambiamento interno del
paziente. Ricordiamo infatti con Torricelli (1997, 1998) che:
<<L’allontanamento del paziente dal suo contesto originario, infatti,
per quanto comporti la separazione fisica, non costituisce tuttavia una
soluzione di continuità rispetto al meccanismo familiare di strutturazione
della psicosi, come dimostra tutta la pratica manicomiale: in mancanza di
stimolazioni dall’esterno la famiglia semplicemente “si ristrutturerà
sull’assenza” del paziente designato, ma sempre e comunque all’interno
delle regole e delle modalità relazionali usate in precedenza, lasciando così
di fatto immodificate la condizioni che sostengono la sintomatologia
psichiatrica>>.
Senza
il consenso esplicito e l’alleanza di paziente e famiglia, riguardo la
proposta progettuale della CT, risulta a mio parere vano e velleitario ogni
tentativo terapeutico, così come risultano ingestibili quelle situazioni per le
quali non è consentito al paziente di contattare e rivedere la famiglia,
considerata, a torto o a ragione da parte degli operatori della CT, la fonte
patologica e l’origine di tutti i problemi del paziente. Quando gli operatori
colpevolizzano la famiglia (anche soltanto implicitamente) è già probabilmente
in atto una dinamica collusiva (che però alcune volte appare un passaggio
obbligato) che di fatto ostacola la comprensione del paziente e lo svolgimento
del percorso.
La prospettiva che qui viene
proposta è quella che parte dal considerare la famiglia ed il paziente di cui
fa parte, come il punto di arrivo di una lunghissima storia di cui nessun membro
della famiglia, e il paziente meno che mai, è veramente e consapevolmente
portatore, ma soltanto “esecutore”. Il paziente è dunque l’ultimo
capitolo di una trama transgenerazionale che appare sconosciuta. A fronte di
questa impossibilità di visualizzazione da parte dei membri della famiglia
delle vicende e delle connessioni storiche, gli operatori della CT dovrebbero
fare attenzione ad entrare nel mondo familiare del paziente con la massima
circospezione come converrebbe che facesse chiunque entrasse in un territorio
inesplorato.
Risulta dunque che le storie
familiari di cui sono rappresentanti gli ospiti della CT, sono quasi sempre
storie che ad un certo punto s’interrompono, o meglio ancora, sono storie che
s’impantanano in territori di non-senso, conducendo il paziente a frenare,
anche bruscamente, il suo percorso maturativo e a bloccare ogni compito
evolutivo personale e sociale: la persona si isola, si chiude in casa, disimpara
a lavorare, a studiare, a frequentare gli amici, a contattare i partners, ad
interessarsi di aspetti creativi: entra in una circolarità “viziosa” nella
quale esiste solo il disagio ed i sintomi, ultime vestigia di una comunicatività
divenuta impossibile, residui tossici privi di significato, quasi come se alcune
parti della mente fossero morte o danneggiate. Ciò che sembra avvenire è che
il paziente e, molto spesso, la sua famiglia non sono più in grado di leggere
la realtà ed interagire con essa, come se la storia di cui sono portatori non
consentisse di procedere oltre: qualcuno si ferma ai compiti adolescenziali
fermandosi sul bordo della vita adulta o molto prima (studi, servizio militare,
primi compiti sociali, lavoro, affetti, sessualità); qualcuno sembra andare
oltre: sostiene i primi esami universitari, o si laurea, o si sposa, mette su
famiglia, lavora più o meno stabilmente, ma all’improvviso sembra non
riuscire più a sostenere i propri compiti e i propri ruoli. Queste storie
familiari, inoltre, contengono sempre dei traumi antichi o recenti: lutti,
separazioni, trasferimenti, fallimenti economici, tradimenti, eventi
incomprensibili e improvvisi, tentativi emancipativi andati a vuoto,
frustrazioni-castrazioni-umiliazioni-vergogne non metabolizzate, etc..
L’aspetto che invariabilmente, in
tutte queste storie, è evidente agli occhi dell’osservatore o del terapeuta
è che quello che appare incrinato e compromesso è proprio il passaggio
dell’individuo tra il mondo familiare e quello sociale, un passaggio - un
ponte crollato - che non consente più gli attraversamenti che in precedenza
sembravano più agevoli tra i due mondi. Il paziente “cade” o “recede”
all’interno di una monoappartenenza che coincide con la propria storia
familiare divenuta insufficiente nel raccontare il mondo o parti essenziali di
esso. L’individuo (e la sua famiglia) non maneggiano più (o non hanno mai
maneggiato) i codici socio-culturali e si vedono costretti a raccontare una
storia molto semplificata di se stessi e della realtà circostante; il paziente,
dal canto suo, tenta di raccontare un’altra storia, la sua storia, una storia
che disperatamente salvi le “capre” della sua appartenenza e della sua
pesante storia familiare e i “cavoli” dei suoi desideri emancipativi al di
fuori del modo familiare. Ma questo tentativo segna l’inizio della
“malattia” poiché la capacità simbolopoietica dell’individuo risulta a
questo punto in larga misura carente o impossibilitata a svolgersi, e la storia
che ne vien fuori è spesso una teoria alternativa alle codificazioni sociali
(delirio), o una non-storia fatta di silenzio e di non-senso (depressione), o
una storia estremamente conflittuale nella quale non c’è posto per il
narratore (disturbo di personalità).
Viene a mancare dunque
un’autentica multiappartenenza dell’individuo, viene a mancare cioè una
“sana dieta mentale” che consenta di integrare gli “alimenti” e di
nutrire la mente dell’individuo con cibo opportunamente scelto al di fuori
della cucina di casa.
Il lavoro della CT diventa allora
quello di riattivare e rivitalizzare quei processi interrotti dalla malattia,
che nell’ottica qui utilizzata, corrisponde a lavorare intensamente con le
famiglie degli ospiti di CT affinché si rimettano in circolo ed in collegamento
quelle storie sepolte o se-cluse che sono alla base dei problemi del membro
familiare e che permetta ad esso di muoversi attraverso altre appartenenze con
un maggiore grado di libertà.
È possibile immaginare diverse
situazioni in cui avvenga l’ascolto dei temi e delle storie familiari:
·
incontri periodici con le singole famiglie alla presenza dell’ospite;
la finalità esplicita di questi incontri può essere variamente definita a
seconda della famiglia, ma ribadendo in ogni caso l’interesse e focalizzando
l’attenzione sulla storia, remota e attuale, della famiglia, come aspetto
importantissimo e imprescindibile del lavoro terapeutico;
·
incontri periodici con il solo gruppo dei familiari degli ospiti (senza
la presenza degli ospiti); una sorta di “comunità parallela” di parenti che
si costituisca come gruppo autonomo che nel tempo acquisisca la capacità di
confrontarsi, di raccontarsi e di sostenersi;
·
incontri periodici con tutti i familiari e tutti gli ospiti secondo il
modello di Garcia Badaracco (modello che a mio parere risulta essere
difficilmente esportabile).
Tale
lavoro può essere svolto dunque in molti modi e con molte tecniche (gruppoanalitiche,
psicodrammatiche, psicoanalitiche, sistemico-familiari, etc.), ma ciò che più
conta è mantenere la tecnica e le finalità terapeutiche “dirette” sullo
sfondo: gli incontri dovrebbero avvenire in un clima di accoglienza, cordialità,
collaborazione e informalità, senza cioè che le famiglie sentano in alcun modo
di essere sottoposte ad interventi terapeutici o peggio ancora a processi
sommari (ricordiamo infatti che la “domanda terapeutica” che la famiglia fa
su se stessa è quasi sempre formalmente assente, proprio perché totalmente
focalizzata su un solo membro). È importante quindi che vi sia da parte dei
conduttori una grande capacità di empatia oltre una grande pazienza e rispetto
per le difficoltà dei familiari: una presenza “leggera”, ma comunque
attenta e orientante.
L’ANALISI
DELLE ASPETTATIVE
Vanno chiariti, inoltre, prima
ancora dell’ingresso del paziente in CT, i termini e i motivi della
partecipazione della famiglia alle attività della CT. È fondamentale infatti
con ogni famiglia il lavoro “contrattuale” precedente all’ingresso,
durante cioè la fase di conoscenza (dia-gnosi) e di preparazione del futuro
ospite e della sua famiglia. Tale lavoro può svolgersi con una serie di
incontri preliminari nei quali sia possibile svolgere una serena ma puntuale
analisi delle aspettative riguardante tutti gli attori in gioco. Infatti, già
da tali aspettative si evincono una serie di informazioni utili per lo
svolgimento del progetto stesso. Spesso queste aspettative sono, in un certo
senso, “alterate” dalla condizione patologica di cui è portatore il
paziente, e risultano, da parte dei diversi soggetti, a volte irrealistiche e
sopravvalutanti, a volte insufficienti e svalutative, a volte inesistenti, altre
volte ancora malriposte e inadeguate, il più delle volte tutto ciò insieme e
contemporaneamente. Una delle possibile chiavi di lettura eziologica del
disturbo del paziente è il vertice di osservazione delle aspettative familiari:
il paziente sembra essere stato da sempre al centro di aspettative errate o di
“desideri impossibili” da parte del suo ambiente di crescita; egli diventa
dunque portatore di una domanda esistenziale che non gli appartiene e portavoce
del “desiderio inadeguato” di qualcun altro. Questa “storia” sembra
perciò ripetersi con tutti coloro che di lui si prenderanno cura.
A conferma di ciò è infatti
facile osservare, riguardo le aspettative sui pazienti da parte di famiglie e
curanti, l’oscillazione - alcune volte anche per il medesimo paziente - tra
negazione del disagio, delle difficoltà e senso d’impotenza paralizzante
rispetto alle stesse difficoltà. L’operatore e l’équipe si trovano così
stretti nella “tenaglia” di aspettative di guarigione e risoluzione
definitiva delle problematiche ed aspettative di segno opposto, di inutilità
del proprio intervento. Svincolarsi da questa stretta è operazione ardua e
complessa e richiede una grande dose di pazienza da parte dell’équipe di CT.
A ciò si aggiungono le ansie legate alle urgenze, spesso presenti nelle
famiglie dei pazienti e talora in alcuni colleghi collusivamente coinvolti, che
producono delle vere e proprie “accelerazioni temporali” nei vissuti dei
curanti che di fatto fanno perdere di vista alcuni bisogni fondamentali del
paziente e che peggiorano la lucidità dell’intervento.
Per uscire da questa empasse
occorre in primo luogo e preliminarmente ristabilire i tempi terapeutici idonei
stabilendo una processualità e una sequenza di tappe che allentino la tensione;
successivamente occorre sciogliere la matassa delle aspettative analizzandole
insieme ai protagonisti della cura, a cominciare ovviamente dalle proprie.
Successivamente ancora vanno posti alcuni obiettivi minimi auspicabili e
soprattutto realizzabili. Occorre inoltre, una volta posti tali obiettivi
minimi, ulteriormente temporalizzarli e definire alcune scadenze, prendendosi
però tutto il tempo necessario per svolgimento del lavoro.
Occorre dire che in generale, già
dalle fasi iniziali di un rapporto terapeutico, l’esplicitazione e la
condivisione col paziente e la sua famiglia di alcuni obiettivi, anche minimi o
transitori, rappresenta un punto di appoggio ineludibile per costruire con loro
una primaria ed embrionale forma di alleanza terapeutica. Il paziente e la sua
famiglia però, molto spesso, sembrano non avere alcuna idea, o hanno un’idea
molto confusa, della natura del problema che riguarda loro, questo
essenzialmente perché i problemi di natura “mentale” producono spesso, come
detto in precedenza, come effetto secondario la riduzione dell’esame di realtà,
a volte in forme estreme, per cui appare difficile convergere con paziente e
familiari su un terreno comune riuscendo al contempo ad individuare insieme
quali sono i veri “nemici da combattere”. L’alleanza terapeutica non è
dunque un’operazione immediata e spontanea, ma passa probabilmente attraverso
una fase preliminare di “alleanza diagnostica”, indicando con questo termine
la paziente ricerca comune degli aspetti problematici principali, intesi come
aspetti-chiave della situazione del paziente e che egli stesso tende a
conservare e allo stesso tempo ad ignorare. Col passare del tempo e della
reciproca conoscenza, ci si augura che si sviluppi una sufficiente fiducia da
parte di paziente e famiglia che consenta l’articolazione del progetto stesso
attraverso obiettivi più specifici.
Il lavoro residenziale di una CT,
attraverso la sua quotidianità, è (chiarito il problema dei criteri selettivi)
un potentissimo attivatore di salute mentale, oltre ad essere un potentissimo e
privilegiato setting osservativo e terapeutico. Tale lavoro pone però
preliminarmente, proprio perché fondato sulla compartecipazione degli spazi
psichici e fisici, i problemi cruciali del rapporto tra osservatore e osservato
e della distanza tra parte curante e parte curata, tant’è che in tale
contesto diventa particolamente ardua l’individuazione di “cosa”
osservare, di “come” curare, e di quali sono i fattori di efficacia
terapeutica. Inoltre, la gravità della tipologia di pazienti che accede alla
CT, pone ulteriori problemi di gestione, di setting e di organizzazione, nonché
problemi di integrazione, di comunicazione e formazione dell’équipe curante.
L’idea di considerare
l’articolazione delle aree mentali in relazione isomorfica e dialettica con
l’organizzazione dell’ambiente e degli spazi di pensiero e di significazione
all’interno di una transizionalità circolare delle aree mentale e degli
interventi, fonda l’intervento comunitario sul concetto di globalità (di
setting, di campo relazionale, di percorso terapeutico): in questo senso la CT
è il luogo elettivo dell’integrazione degli interventi terapeutici.
Il lavoro con le famiglie degli
ospiti di CT, lungi dall’essere una variante o un’opzione del lavoro
terapeutico con i pazienti nella CT, è invece totalmente integrato allo
specifico della CT e quindi essenziale per il buon esito della terapia. Esso
viene concepito come presa in carico della multiappartenenza del paziente ai
differenti contesti di vita e ai diversi momenti fondativi della sua personalità
(famiglia, gruppo sociale ristretto e allargato) e come assunzione della
“criticità” della sua storia personale e familiare.
Questo modo di prendersi cura di
pazienti psicotici richiede non indifferenti sforzi organizzativi ed economici,
ma soprattutto una motivazione particolarmente forte da parte degli operatori.
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LA
TERAPIA FAMILIARE NELLE TOSSICODIPENDENZE: QUALE MODELLO UTILIZZARE IN UN
CONTESTO PUBBLICO. SERT A.S.L. 4 CHIAVARESE
La popolazione di soggetti con problemi di abuso di sostanze che si rivolgono ad un servizio pubblico è molto varia per storia, tentativi di risoluzione precedenti, livello motivazionale e risorse del contesto attivabili. Inoltre spesso chi chiede aiuto è diverso da chi lo necessita e i bisogni presentati sono diversi a seconda del livello motivazionale presentato. Un Centro di Consulenza e Terapia Familiare di un SerT. deve quindi impostare un lavoro flessibile, attento alla domanda presentata e alla sua modificazione e integrato con le altre attività del servizio e avendo come riferimento quanto, da un punto di vista teorico, oggi la terapia familiare mette a disposizione. Il lavoro presentato è la modalità operativa del nostro Centro di Consulenza e terapia Familiare inserito presso il nostro SerT. e attivo da circa un anno.
Summary
The population of subjects
substance abusers that address to a public service is very varied for history,
attempts of resolution precedents, motivational level and facilities of the
context. Additionally often who asks help is
different from who necessitates it
and the presented needs are different according to the motivational presented
level. A Center of Consulence and Family Therapy of a SerT. is obligates to plan
a flexible work, attentive to the presented question and to his
modification and integrate with the other activity of the service and having
like reference as, from a point of theorist view, today the family therapy puts
to disposition. The presented work is the operational formality of our Center of
Consulence and Family therapy inserted by our SerT. active now from around a
year.
Résumé
La
population des toxicomanes qui
s’adressent au service public de toxicomanie est beaucoup differénte pour
histoire, tentatives de rèsolution précédents,
niveau de motivation et ressources du contexte. En outre souvent qui appele à l’aide
est differént du patient et les besoins presentés sont differents d’àpres
du niveau de motivation présentè. Un Centre de Consultation et de Thérapie
Familier de un Service public des toxicomanies doit donc organiser un travail
flexible, attentif à la question présentè et a la sa modification et compléte
par les autres activitès du service et avoint comme référence combien, de
un point de vue théorique ,
aujourd’hui la thérapie familier propose. La publication présenté est la
modalité de fonctionnement du notre Centre de Consultation et de Thérapie
familier inseriré chez notre Service des toxicomanies qui est activé à peu près
de une annéè.
INTRODUZIONE
Il movimento di terapia familiare, nel vasto universo
degli orientamenti terapeutici, ha avuto una sua precisazione sempre più
documentata riguardo a quei fenomeni di sofferenza che interessano giovani figli
in quella fase delicata dell’individuazione e autonomizzazione dalla famiglia
di origine che chiamiamo adolescenza ( Gurman e Kniskern, 1978 ).
a.
I cultori della terapia breve del M.R.I. si prefiggono la risoluzione del
sintomo
b.
I terapeuti trigenerazionali o contestuali, pensano di dover approfondire
la storia e i vissuti della famiglia,
c.
Gli operatori orientati in termini strategico-strutturale
ritengono importante mutare le regole che governano la famiglia
d.
I sistemici puri, ragionano in termini “ costruttivi” e pensano
utile e necessario, attraverso un corretto uso del linguaggio, lavorare
sull’area dei significati, oltre che sui pregiudizi del terapeuta, della
famiglia e del contesto allargato ( Cecchin
G, Lane G., Roy A., 1994 ).
Nonostante questa grande messe di contributi ormai
verificati con ricerche sui processi e sui risultati, continua ad essere
predominante una lettura moralistica e individuale del problema
tossicodipendenza ( o alcooldipendenza) con conseguente proposta di intervento
prevalentemente “da
stigmatizzare socialmente o medicalizzare”.
MODELLO
DI INTERVENTO
In merito all’efficacia degli interventi di terapia
familiare si è passati da un
tentativo di confrontare i diversi modelli ,all’interesse di sapere non tanto “
quale terapia è migliore delle altre” in assoluto, ma piuttosto alla
ricerca di modelli terapeutici più adatti e utili per un certo contesto
familiare in rapporto al suo stato
motivazionale.
1.
Accento
posto sul presente e sul futuro oltre che al passato.
In una fase iniziale di ingaggio della famiglia, il
controllo del sintomo assume un significato importante al fine di costruire
un’ alleanza terapeutica che consenta ,in un secondo tempo, di intervenire
sulla storia familiare e arrivare pertanto
alle radici della sofferenza. Gli orientamenti che leggono i giochi
familiari e quelli che ipotizzano
scenari futuri sono più utili per creare una motivazione del contesto.
2.
Scarsa
importanza attribuita all ’ insight ; si ricorre invece a una ristrutturazione
positiva
Anche questo assunto è importante per l’aggancio e
le prime sedute. La ristrutturazione positiva consiste nel dare valore al
sintomo e connotare positivamente il contesto come risorsa.
3.
Il
miglioramento deriva da mutamenti interpersonali
La scomparsa del sintomo è breve e non definitiva se
non si accompagna a mutamenti nel relazionarsi e percepirsi dei componenti del
sistema familiare.
4.
I piccoli
cambiamenti sono positivi
Nel procedere nel trattamento è importante
enfatizzare i segnali di cambiamento anche se piccoli e gli ostacoli che vi si frappongono anche pregiudiziali.
5.
Sfruttare
le risorse familiari
La famiglia è una risorsa, ogni presenza è
importante per la raccolta di informazioni e per l’intervento che è mirato
non solo sul paziente designato.
6.
Sfruttare
ciò che pragmaticamente dimostra di funzionare
E’ importante analizzare precedenti tentativi di
soluzione al fine di non percorrere strade già provate e inconcludenti, ogni
storia ha un suo percorso che va costruito insieme alla famiglia e all’équipe
di supervisione sapendo cogliere i risultati pratici di certi interventi non
sottovalutando la creatività della famiglia.
7.
Diminuire
la complessità; sbrogliare la rete di figure assistenziali
Spesso esiste una confusione tra l’inviante, il
comittente e il cliente. Talvolta al servizio pubblico viene chiesta una
funzione di controllo che rischia, se non riconosciuta e tenuta in
considerazione, di invalidare od ostacolare il trattamento. Diversi servizi
spesso lavorano sullo stesso caso, S.S.M., consultorio, Sert con compiti e
obiettivi diversi. E’ importante quindi ripetutamente ridefinire le
aspettative del cliente e della sua famiglia : compito cui deve assolvere la
terapia familiare al fine di tener chiari e distinti i diversi livelli in cui si
opera.
8.
La
terapia è relativamente a breve termine
La durata di un
intervento è in media di dieci, dodici sedute a cadenza mensile. La risoluzione del sintomo non determina
la cessazione dell’intervento: occorre anzi continuare a seguire nel tempo la
famiglia con sedute bi o trimestrali per mantenere in trattamento il caso e per
stabilizzare i cambiamenti avvenuti.
9.
Il
terapeuta gioca un ruolo attivo
Si intende per ”terapeuta “ tutta l’équipe che
segue il caso e per “attività “ il terapeuta che,con il suo stile
particolare, conduce le sedute avendo in testa un progetto o ipotesi che fa da
traccia o matrice all’intervento. L’attività è più facilmente mantenuta
con l’utilizzo dello specchio unidirezionale e la supervisione diretta da
parte di altri operatori.
10. Ogni
soluzione è specifica per ciascuna famiglia
Intendiamo dire con questo che ogni percorso
terapeutico costruisce una storia singolare e unica che richiede la capacità di
non fossilizzarsi dietro ad un’unica teoria
,ma la flessibilità di usare quanto oggi abbiamo a disposizione che sia utile
in quel momento specifico per quella particolare famiglia.
·
Nuovi
accessi col problema della cessazione del sintomo
·
Storie
cronicizzate in trattamento col metadone
·
Storie
che presentano una ricaduta dopo un periodo discreto di drug- free
·
Storie,
che superato il sintomo ,presentano problematiche relazionali e di reinserimento
sociale
·
Storie
con adolescenti non ancora tossicodipendenti ma con comportamenti a rischio (
abbandono scolastico, fughe da casa, utilizzo occasionale di droghe minori,
storie di abuso sessuale o violenze)
·
Coppie di
genitori tossicodipendenti
E’ nostra convinzione che il lavoro avviato col contesto del paziente, sia utile se non
è avulso da quanto effettuato da altri operatori o servizi, in quanto è una
risorsa in più (diagnostica e di intervento) da offrire a tutti ,sia operatori
che membri significativi della famiglia ,che
circondano il paziente secondo una visione sistemica del problema che crea il
sistema.
STRUMENTI
E RISORSE UTILIZZATE
Il suddetto lavoro di ricerca -intervento si svolge
presso la sede del SerT A.S.L. 4
Chiavarese di Sestri Levante ,dotata di Centro di Consulenza e Terapia Familiare
con specchio unidirezionale e possibilità di videoregistrazione. L’équipe è
formata dallo scrivente in qualità di responsabile e da una équipe di
psicologi e psicoterapeuti tra cui alcuni tirocinanti della Scuola del Centro di
Terapia della Famiglia di Milano di Boscolo L. e Cecchin G. e una volontaria con
formazione presso “ Il Nuovo Centro di Terapia della Famiglia” di Mara
Selvini Palazzoli
CONCLUSIONI
Considerata la variegata
popolazione ( per problematiche, motivazioni e risorse presentate)
che si rivolge ad un servizio pubblico, ci sembra necessario che il primo
compito di una équipe di intervento familiare sia valutare le modalità più
appropriate di attivazione delle risorse familiari e di aggancio
terapeutico del paziente e del suo contesto ( Ray A.W., KeeneY B.,
1993).
E’ anche importante riuscire a costruire un modello
di intervento che permetta di definire quali tecniche di conduzione delle sedute
siano più adeguate alle diverse storie familiari, ai precedenti tentativi di
risoluzione e al ciclo vitale della famiglia : ciò
servirebbe ad evitare la cronicizzazione del problema e a superare il clima
di rassegnazione e di sconfitta che le storie con numerosi precedenti fallimenti
ingenera nei pazienti e nei terapeuti stessi. .
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ANNO
2000: IL 1000 E NON PIU' 1000
CRONACHE
DI MORTI ANNUNCIATE
La cronaca di questi giorni
ha registrato l'ennesimo comportamento suicidario. In 10 mesi abbiamo
contato almeno un suicidio a settimana, a volte per impiccamento, altre per
avvelenamento, per precipitazione, da arma da fuoco, per arrotamento, per
asfissia….quindi nei vari modi immaginabili. Infinite ondate di morte.
Dott.ssa B.
Rossi, psicologa e psicoterapeuta
Dott. E.
Coppola, psichiatra e psicoterapeuta
IL NATALE E IL DESIDERIO DI RINASCERE NEL RAPPORTO CON GLI ALTRI
Dott.ssa B. Rossi,
psicologa e psicoterapeuta
Dott. E. Coppola,
psichiatra e psicoterapeuta
DELL'AMORE
E DI ALTRI DEMONI: LA POSTA IN GIOCO
Si parla tanto ultimamente di gioco
d'azzardo come problematica emergente. Si tratta di un problema al contempo
vecchio e nuovo, in quanto con la stessa etichetta si accomunano fenomeni
diversi.
Dott.ssa B.
Rossi, psicologa e psicoterapeuta
Dott. E.
Coppola, psichiatra e psicoterapeuta
TRA
ELFI, POKEMON E STREGHE.
COME
AIUTARE ALICE AD USCIRE DALLO SPECCHIO
E' parere condiviso tra psicoterapeuti, pedagogisti
ed esperti della comunicazione diretta alle categorie più facilmente plasmabili
e indifese, che i contenuti offerti da TV e mass media vanno protetti e
controllati da adulti.
Dott.ssa B. Rossi,
psicologa e psicoterapeuta
Dott. E. Coppola,
psichiatra e psicoterapeuta
La valutazione dei disturbi psicologici con il Psychopathological State Index: contributo alle caratteristiche cliniche e psicotecniche.
di Gian Luigi Dell’Erba
Riassunto
Le esigenze della ricerca e della pratica in psicologia clinica ha portato l’Autore a rivedere uno tra i più noti strumenti per la valutazione sintomatologia, il SCL90 di Derogatis, apportando delle modifiche e rivedendo criteri, scale di misura, items e punteggi. Il risultato di tale lavoro è lo studio di uno strumento originale, il Psychopathological State Index, che viene valutato nelle varie caratteristiche cliniche e psicotecniche. La efficienza, la validità e la fedeltà dello strumento possono indicare il PSI come un test per lo studio dello stato psicopatologico del soggetto in diverse condizioni rilevanti all’interno della psicologia clinica.
Parole Chiave: PSI, valutazione, psicopatologia
Summary
The requests of research and work in clinical psychology brought the Author to reanalyse one of most known tests in symptomatology evaluation SCL90 of L.R. Derogatis, adding some modifies and readjusting criteria, scale of measure, items and scoring. The result of this work is a original test, Psychopathological State Index, that he valuate in most clinical and psychotecnic aspects. The effectiveness, validity and realability can indicate PSI as a test for studying tha psychopathological state of subjects in many relevant conditions within clinical psychology.
Key Words: PSI, evaluation, psychopathology
Introduzione
Molti dei questionari autodescrittivi sono stati ideati per assistere lo psicologo o lo psichiatra nell’esame degli elementi psicopatologici del paziente. I primi questionari, sebbene autodescrittivi, conservavano la struttura delle Scale di Valutazione (Rating Scales - RS) per pazienti psichiatrici che erano caratterizzate da una prospettiva esterna (dalla valutazione dell’esaminatore).La differenza tra il questionario autovalutativo e la RS è determinato dalla formulazione delle domande, nel primo caso in modo da favorire l’autosomministrazione, nel secondo caso agevolando l’intervista; l’elemento che distingue il questionario dalla RS è la attendibilità dell’atteggiamento autodescrittivo del paziente. Entrambi gli strumenti possono essere organizzati secondo una struttura complessa a fattori di ordine superiore o a categorie (Mohr, 1990; Tingey R., Burlingame G., Lambert M.J., Barlow S.H., 1989).I questionari e le RS che descrivono lo stato attuale del soggetto in un ambito di psicologia clinica, i suoi sintomi e comportamenti aventi una rilevanza in psicopatologia, sono numerosi e diversi tra loro rispetto ad alcune caratteristiche.Oltre alla differenza principale che abbiamo ricordato, la prospettiva esterna oppure l’autodescrizione, questo tipo di strumenti psicologici variano anche per la loro struttura.Solitamente viene indicato come "struttura di un test" la specifica organizzazione dei risultati derivanti dai singoli items (Mohr, 1990). Tra le caratteristiche salienti in questo ambito possono trovare una "struttura semplice", in cui lo strumento è organizzato in modo lineare, ed i cui items appartengono ad un unico fattore. In questo campo, alcuni strumenti particolarmente famosi e diffusi sono lo STAI di Spielberger, il Beck Depression Inventory di Beck, la scala Introversione-Estroversione di Hans Eysenck (Boncori, 1995).Questi strumenti misurano un costrutto, un tratto, una categoria nosologica come se fosse unitaria,; gli items che compongono lo strumento sono caratteristiche specifiche che costituiscono un pool attraverso il quale il costrutto-tratto-sindrome viene descritto.Questi strumenti possono avere una "struttura complessa" secondo cui il questionario è organizzato in gruppi di items. Gli items di ogni gruppo o fattore possono essere tra loro correlati, ed essere indipendenti statisticamente dagli items di altri fattori. Questo tipo di strumento viene indicato come "struttura fattoriale indipendente" (o emergente). Se alcuni items di un fattore sono in comune con altri fattori allora si farà riferimento ad una "struttura fattoriale principale". La differenza tra questi strumenti psicologici è che mentre i primi hanno fattori determinati dall’analisi di clusters in un pool di items primari, i secondi invece sono determinati dalla rilevanza clinica. Un buon esempio, nell’esame della personalità, del primo tipo di strumento è il 16PF di Cattel, mentre un esempio del secondo tipo di organizzazione fattoriale è il MMPI.Nel 16PF, ogni item appartiene a quel fattore ed a nessun altro; nel MMPI, un item può essere incluso sia in una scala (o fattore) che in un’altra.Un’altra distinzione può essere tracciata fra le tipologie di organizzazione fattoriale. Mentre l’analisi statistica fattoriale delinea un fattore che diventa perciò tendenzialmente indipendente e ipoteticamente identificabile, in una organizzazione a base clinica-osservativa un fattore esprime una entità nosografica o una sua componente.In uso, attualmente, vi sono strumenti valutativi per quasi ogni forma di psicopatologia o comportamento divergente. Molti classici questionari per la valutazione di elementi clinici e psicopatologici sono stati modificati per indicare, suggerire ed assistere alla valutazione criteriale della diagnosi dei disturbi mentali come da DSM IV o ICD-10.Per questi scopi vi sono sia interviste costruite su misura dei criteri diagnostici sia questionari che tengono conto di queste caratteristiche ed elementi decisionali (SCID di Spitzer e coll.; MMCI di Millon; per fare alcuni esempi).
Brevi cenni di psicometria
.Uno degli aspetti più importanti di un test è la sua funzione predittiva, cioè la capacità di predire in che modo i soggetti si comporteranno in situazioni diverse da quella d'esame. Partendo dal risultato ottenuto in un test, quindi una situazione artificiale, si può prevedere come un individuo si comporterà in situazioni concrete nella vita quotidiana.Indipendentemente da quello che viene predetto, le funzioni predittive in un test sono buone se presentano un'alta correlazione statistica con il comportamento sottoposto a predizione. Per determinare con quanta accuratezza un test assolve al compito di predizione, è necessario avere un comportamento ben specifico con cui paragonare la predizione; questo termine di paragone è detto criterio. E' importante sottolineare che usando test predittivi, l'oggetto della predizione, cioè il criterio, diventa fondamentale. Non basta quindi l'intuizione per dire che il test è valido a predire, bensì è necessaria una correlazione statistica fra test e criterio, che dà origine al coefficiente di validità.Un altro aspetto importante è la funzione valutativa, cioè il procedimento di misurazione diretta del rendimento in un particolare momento. E' essenziale a questo scopo specificare la nozione di campionamento. Una valutazione è fatta sempre attraverso un campionamento di comportamenti da cui si deduce la prestazione buona o cattiva in una determinata situazione. Siccome non è tutto il comportamento ad essere esaminato, ma un aspetto di esso, allora un buon test è quello che copre un campione rappresentativo di comportamenti rilevanti di una particolare situazione data. Naturalmente gli elementi del test, gli items, devono riferirsi agli aspetti rilevanti della situazione da valutare. Questo aspetto non è esente da difficoltà in quanto non è sempre facile discriminare se un aspetto è o non è rilevante per la valutazione, anche perché dove c'è valutazione su ciò che è importante c'è anche differenza di valutazione fra gli stessi valutatori (un dato aspetto può essere o meno rilevante come elemento valutativo della situazione). Da quanto detto può essere dedotto che un test non è valido per tutte le situazioni ma solo per quella per cui è stato costruito, quindi, esso non è sempre valido in quanto il campionamento delimita la sua utilizzazione, e anche perché la differenza di valori rende il criterio di valutazione esso stesso relativo.Un'altra fondamentale caratteristica dei test è la funzione diagnostica, cioè quella funzione che permette di descrivere le caratteristiche psicologiche di un individuo. E' importante sottolineare che la descrizione delle caratteristiche della personalità, del comportamento, delle funzioni mentali, o di un aspetto psichico particolare si riferiscono a parametri di riferimento, detti norme (vedremo più avanti), riguardanti il più generale gruppo di appartenenza del soggetto.Tra le caratteristiche generali di un test che costituiscono un indubbio vantaggio d'uso vi sono la economicità e la praticità. La economicità di un test riguarda la sua esecuzione, la sua valutazione e la sua interpretazione; la praticità si riferisce alla disponibilità del suo impiego.Un aspetto richiesto per un test è la sua obiettività. Un test è obiettivo quando la somministrazione, la determinazione e l'interpretazione dei punteggi sono indipendenti dal giudizio soggettivo dei singoli esaminatori. Inoltre, l'obiettività riguarda anche il grado di difficoltà di una prova, o di un test nel suo complesso, perché caratterizza il livello di difficoltà che esso comporta. Il grado di difficoltà di un test viene determinato mediante l'applicazione della prova su campioni rappresentativi di persone. Se questi campioni danno un cumulo di prove alle estremità della scala, sia nella parte superiore che in quella inferiore, significa che il test non discrimina a dovere e quindi non è obiettivo. Il controllo delle difficoltà di un test si ricava dalla distribuzione dei punteggi del campione; se il campione è rappresentativo, i punteggi dovrebbero dare una curva di distribuzione normale: si dovrebbe riscontrare un raggruppamento di soggetti nei valori medi della distribuzione, mentre a mano a mano che ci si avvicina ai valori estremi, si dovrebbe notare una graduale diminuzione, fino ad arrivare a zero (curva gaussiana, o a campana).Un altro concetto cruciale per un test è la standardizzazione. Questo concetto definisce due condizioni di uniformità: uniformità di procedura di somministrazione del test; uniformità della determinazione del punteggio. In sostanza, se si vuol rendere comparabili tra loro i punteggi ottenuti nello stesso reattivo da persone diverse, anche le condizioni di somministrazione e di valutazione devono essere uguali (ne fanno parte integrante le informazioni sul test, i limiti di tempo, le dimostrazioni preliminari, le condizioni ambientali, le motivazioni, la cooperazione, il rapporto interpersonale tra esaminatore-esaminando).Un punto essenziale della standardizzazione di un test è la determinazione delle norme. Con questo termine si intendono solitamente due concetti diversi: in un contesto metodologico, si intende per norme il punteggio grezzo standardizzato; in un contesto psico-sociologico, si intendono i diversi aspetti della "normalità" sociale.Per quanto riguarda la standardizzazione dei punteggi, le norme indicano il processo che trasforma il punteggio grezzo in punti standard, che possono essere normalizzati, cioè convertiti alla curva normale gaussiana, e in tal caso sono detti anche punti z. Nella seconda accezione del termine norma, si indica una prestazione normale o media della popolazione che è stata presa in esame.Altri due termini sono fondamentali per comprendere la struttura di tutti i test in generale: fedeltà e validità.La fedeltà (reliability) è detta anche costanza o attendibilità. Perchè un test sia attendibile, deve essere indipendente dalle variazioni momentanee dei soggetti, dalle situazioni di applicazione e da tutti i fattori che introducono errori nelle operazioni di misura. Fedeltà significa assenza di errore casuale, dovuto a fattori esterni al test (diverso è l'errore sistematico che lo scarto proporzionale relativo agli effetti della costruzione della scala di misura, è lo scarto sistematico del metro). Fedeltà o attendibilità si riferiscono anche alla ripetitività dei risultati quando è somministrato agli stessi individui in occasioni successive; in altre parole, se un test è fedele deve dare sempre lo stesso punteggio quando è applicato allo stesso individuo. Il confronto tra le diverse somministrazioni si effettua tramite il calcolo del coefficiente di correlazione (il più comune è il coefficiente prodotto-momento di Karl Pearson). La stima della fedeltà del test, e quindi in conseguenza, anche della prestazione, si effettua nei seguenti modi: a) confrontando (correlazione) test parralleli (coefficiente di equivalenza); b) confrontando due prestazioni del soggetto, cioè due somministrazioni successive del test, calcolo detto anche test-retest (coefficiente di stabilità); c) confrontando le due metà del test, calcolo noto come split-half (coefficiente di omogeneità); d) confrontando reciprocamente tutti gli item tra loro, calcolo detto di intercorrelazione (coefficiente di consistenza interna).La validità può essere definita come l'accuratezza con la quale il test misura quello che intendeva misurare. Tra le diverse definizioni si può ritrovare il comune concetto di confronto tra punteggio della prestazione al test con la prestazione tipica in un ambiente naturale per il soggetto. Questo concetto è indiscutibilmente legato alla trasferibilità della prestazione al test nella situazione naturale, e pertanto i punteggi si pongono in relazione alle misure ipotetiche del soggetto. La validità pone il problema della interpretabilità dei punteggi. Questo problema è tipico della psicometria, in quanto è a prestazioni particolari come esempi di comportamenti naturali. Quindi, la validità è determinata sia in riferimento alla utilizzazione specifica in rapporto a cui il test viene considerato, sia in rapporto alla popolazione per cui è validato. Occorrono, quindi, differenti tipi di validità per differenti scopi del test o della sua misura, e differenti validità per differenti gruppi. La stima della validità si ottiene tramite il calcolo del coefficiente di validità, cioé il coefficiente di correlazione tra i dati e il criterio (validità esterna). Il criterio è una serie di misure con cui si confrontano i risultati del test per stabilire se esso misura il tratto o l'attributo per cui è stato costruito. Il criterio è una misura che non può essere messa in discussione per ciò che in effetti misura (questo è solitamente il più grande problema dei test d'intelligenza che non sembra in effetti ancora superato). Altre volte, prescindendo da un criterio esterno di riferimento, si correlano i dati con predizioni effettuate a partire da costrutti teorici (validità di costrutto); altre volte si definisce valido il dato che correla con i punteggi più alti al test (validità di contenuto). Tutte queste stime danno la validità interna del test.La validità può essere predittiva, concorrente, di contenuto, e di costrutto, a seconda se si correla (e dunque si ponga di essere correlata) con un criterio posto nel futuro, o con un criterio equivalente, con un criterio rappresentativo, o con un criterio elaborato in base a concettualizzazioni o teorie.
Origini del PSI
Il SCL 90
Intorno agli anni 60, Leonard R. Derogatis e Ronald S. Lipman costruirono una scala di misura dello stato psicopatologico, la HSCL (Hopkins Symptom Check List) che comprendeva 56 items aventi come contenuto sintomi clinicamente rilevanti (Lipman e coll:, 1969).In seguito al perfezionamento statistico, alla attendibilità ed alla validità dello strumento, fù costruito il SCL 90 (Symptom Check List) con 90 items ed una struttura fattoriale indipendente. Il SCL-90, oggi rivisto ed aggiornato in SCL-90r, è composto da 9 scale cliniche e 3 scale supplementari di validità.Le 9 scale cliniche sono: Somatizzazione, Ossessioni, Sensitività Interpersonale, Depressione, Ansia, Ostilità, Ansia Fobica, Ideazione Paranoidea, Psicoticismo; alle scale principali si aggiungono alcune scale di controllo come GCI (Global Clinical Impression), il punteggio totale, e la variabilità.A tutt’oggi il SCL-90r è un test di uso comune, soprattutto negli USA. E’ uno strumento sia diagnostico sia di screening, in quanto accanto all’affidabilità si caratterizza per la sua economicità (solo 15 minuti al massimo per la somministrazione).
Gli avanzamenti
Gli stessi autori del SCL-90, in particolare lo psicologo Leonard R. Derogatis, ha proposto varie modifiche ed aggiunte al suo strumento, il quale attualmente ha diverse versioni, non tradotte in italiano.Allo strumento originale sono stati fattori supplementari sia clinici sia di controllo dello strumento, e sono stati modificati alcuni items dalla loro formulazione originaria (Derogatis, 1983).Accanto alla forma originaria di questionario autovalutativo, il SCL-90 ha attualmente versioni per l’uso esterno come RS, come struttura per l’intervista, e versioni ridotte per usi specifici e particolari (Derogatis, Melisaratos, 1983).
Le ragioni per il PSI
La necessità di recuperare le virtù di uno strumento diffuso e delle sue qualità economiche, attendibili e valide ha spinto chi scrive a rivedere le diverse versioni italiane presenti a vario titolo nelle pubblicazioni, e recuperarne le qualità, e abbandonarne i difetti originari.Accanto alle formulazioni originarie è stato introdotto un uso più aderente agli attuali metodi di indagine e valutazione in psicologia clinica (Tingley e coll, 1989; Seligman, Rosenam, 1996).Tra i fattori sono presenti, oltre alle 9 scale cliniche, alcuni fattori supplementari sia clinici sia di controllo.Appare modificato sia il calcolo sia l’attribuzione del punteggio a ciascun item e risultano assai differenti la scala di misura, i gradi, i cut-off.Ciò ci spinge a concludere che sebbene il PSI derivi dal SCL-90, è attualmente, per le caratteristiche di misura, uno strumento indipendente.
Le caratteristiche psicometriche del PSI
La organizzazione del PSI
Lo strumento è un questionario autovalutativo composto da 90 items consistenti in domande a contenuto clinico relative a comportamenti e sintomi aventi una evidente e diffusa rilevanza psicopatologica.I 90 items sono raggruppati in 9 scale cliniche costituenti 9 fattori indipendenti metricamente e non simmetrici (aventi diverso numero di items tra loro).Le scale cliniche sono le seguenti:
Attivazione somatica, Ossessività, Ipersensibilità, Sintomi Depressivi, Ansia Generale, Ostilità, Sintomi Fobici, Paranoia, Stati Alterati Psicotici.
Le scale supplementari aggiuntive sono:
Neuroticismo Generale, Disturbi del Sonno, Disagio, Difficoltà nelle Prestazioni Cognitive, Indice Generale, Deviazione Standard.
Contenuto delle Scale Primarie
Attivazione Somatica Nella scala sono presenti sintomi di somatizzazione, vale a dire manifestazioni e reazioni psicofisiologiche dovute ad una attivazione eccessiva dell’organismo. I sintomi da stress sono rappresentati nella loro rilevanza fisiologica, e nelle manifestazioni biologiche correlate all’ansia somaticamente considerata. Gli items relativi alla scala sono 1,4, 12, 27, 40, 42, 48, 49, 52, 53, 56, 58. Sono presenti, in questa scala, sintomi dovuti ad una reazione "psicosomatica" ad eventi che interessano il soggetto. Un livello elevato in questi items indica la presenza di un disturbo da somatizzazione grave, dove il soggetto soffre per una sintomatologia prevalentemente caratterizzata da disfunzioni fisiologiche di intensa entità. Una elevazione media indicherebbe l’attivazione di ansia e stress del soggetto, spesso in compresenza con altre scale. Il soggetto, accanto ad altre modalità, sarebbe attivato in una reazione da stress, e presenterebbe sintomi fisici diffusi. Un livello lieve indicherebbe una reattività del soggetto che tenderebbe ad una compromissione fisica attenuata e non costante. Livelli molto bassi indicherebbero fluttuazioni della normale reattività emotiva e non costituirebbe un vero disturbo ma più propriamente una attivazione normale dell’organismo.
Ossessività In questa scala vi sono pensieri intrusivi, ruminazioni, ossessioni, compulsioni, rituali. Tali items sarebbero presenti nel disturbo ossessivo-compulsivo ad una entità elevata. Tali sintomi sono altresì presenti anche in altri disturbi (data l’elevata comorbilità di questo disturbo). Gli items della scala sono 3, 9, 10, 28, 38, 45, 46, 51, 55, 65. Gli items presenti in questa scala indicherebbero una tendenza all’eccessivo controllo del proprio comportamento e del proprio ambiente circostanze. Il soggetto che manifesta un punteggio elevato, presentando un disturbo ossessivo-compulsivo, soffre di ossessioni, rituali e compulsioni, e riconosce il carattere egodistonico di tale sintomatologia. Punteggi medi indicherebbero, anche, atteggiamenti di perfezionismo e meticolosità. Bassi punteggi nella scala tenderebbero a descrivere aspetti di controllo e coartazione sia a livello cognitivo che comportamentale che sarebbero reazioni del soggetto di carattere prevalentemente non patologico.
Ipersensibilità Gli items di questa scala descriverebbero atteggiamenti e comportamenti tipici di una difficoltosa relazione interpersonale con le persone che circondano il soggetto. Gli items attinenti a questa scala sono 6, 21, 34, 36, 37, 41, 61, 69, 73. Il soggetto evidenzia un livello di sensitività interpersonale ad un livello medio-alto; egli presenta uno stress caratterizzato da stimoli inerenti la mancanza di confidenza, l’isolamento, la perdita del contatto con gli altri. Ad un livello particolarmente elevato si evidenzia un grave problema di ipersensibilità interpersonale, con manifestazioni di critica, isolamento, evitamento, eccessivo turbamento nei contatti con gli altri. Reazioni di chiusura estrema, sensitività, scarsa distanza psicologica dagli altri sarebbero caratteristiche di punteggi elevati.
Sintomi Depressivi Il contenuto di questa scala indicherebbe una reazione depressiva, con pensieri negativi su sé, sugli altri, sul proprio ambiente, e sarebbero caratterizzati da elevato pessimismo, mancanza di speranza, pensieri di morte, rallentamento, perdita di interessi, autocritica. Gli items presenti nella scala sono 5, 14, 15, 20, 22, 26, 29, 30, 31, 32, 54, 71, 79. Punteggi elevati indicherebbero un disturbo depressivo maggiore di grado grave. Punteggi di grado medio possono essere presenti in altri disturbi in comorbilità con una depressione clinica. Punteggi di lieve intensità possono indicare una reazione del soggetto a difficoltà temporanee. Bassi punteggi possono descrivere un modo tipico del soggetto che rientra nelle normali reazioni di tristezza e scoraggiamento in condizioni normali.
Ansia Generale Gli items descrivono le manifestazioni di ansia generalmente intesa quale agitazione, nervosismo, paura generica ed improvvisa, senso di perenne apprensione. Gli items che caratterizzano questa scala sono 2, 17, 23, 33, 39, 44, 57, 64, 66, 72, 78, 80, 86. Ad un grado elevato il soggetto esperisce sintomi fisiologici, senso di perenne allarme, agitazione; tali sintomi si associano spesso ad altri disturbi quali panico, depressione, o psicosi. Alla alta intensità dei sintomi in questo fattore si evidenzia la necessità di una presa in carico orientata alla tranquillizzazione; il soggetto non può svolgere le normali attività quotidiane. Ad un livello medio nella intensità della sintomatologia in questa scala si evidenzia un deficit nella autonomia e nel funzionamento personale e sociale, in quanto i sintomi sono presenti nella maggior parte del tempo. Ad un livello lieve corrisponde una intensità dell’ansia generale molto ridotta e spesso in compresenza di altri disturbi. Un livello molto basso evidenzia una normale fluttuazione del normale funzionamento del soggetto, molto spesso associato a tensioni o stati di impegno.
Ostilità La scala di ostilità è composta da items che esprimono la difficoltà del soggetto nelle relazioni interpersonali e nel fronteggiamento di ostacoli nelle attività che intraprende. Lo schema di queste difficoltà consiste maggiormente in un senso di rabbia, intolleranza ed ipercriticismo costante, spesso associato ad un impulso verso comportamenti violenti. Gli items della scala sono 11, 24, 63, 67, 74, 89. Ad elevate intensità, questo fattore indica una tendenza o un rischio di comportamenti violenti o sentimenti di rabbia particolarmente pronunciati. A medie intensità la scala descrive una tendenza verso un atteggiamento verso la intolleranza e la critica, e la intolleranza verso impedimenti o ostacoli. A lievi intensità si evidenziano sentimenti di insopportazione, lievi intolleranze, tendenza alla critica generica, stile polemico, tendenza a ruminare situazioni di frustrazione, senso di perenne ingiustizia. Punteggi bassi possono essere normali comportamenti o reazioni a situazioni o momenti particolari che il soggetto si trova ad affrontare.
Sintomi Fobici Gli items di questa scala descrivono prevalentemente il disturbo da attacchi di panico e agorafobia-claustrofobia; il soggetto che ne soffre evidenzia sintomi cognitivi, comportamentali, emotivi e fisiologici correlati alla aspettativa di sperimentare attacchi acuti di ansia, spesso interpretati dal soggetto come imminenti, catastrofici, e associati da lui al rischio di morte (per infarto o ictus) e perdita del controllo psichico e comportamentale. Gli items della scala sono 13, 25, 47, 50, 70, 75, 82. A punteggi elevati si associa un disturbo molto grave, invalidante, a causa del quale il soggetto ha frequenti attacchi, comportamenti di evitamento generalizzati, senso di allarme ed apprensione pronunciato, e sintomi radicati di ipocondria. Ad un punteggio medio, il soggetto ha crisi di panico saltuarie, agorafobia pronunciata, interpretazioni di sensazioni somatiche, ed ansia anticipatoria ad un livello persistente. A punteggi bassi il soggetto manifesta ansia anticipatoria ma raramente panico o agorafobia generalizzata. Lievi elevazioni sotto il profilo patologico evidenziano normali fluttuazioni nel normale funzionamento e sono correlate a situazioni e periodi del soggetto caratterizzate da fretta ed eccesso di impegni.
Paranoia La scala descrive la tendenza del soggetto verso la diffidenza ed il sospetto nei confronti degli altri, ed evidenzia la presenza o la spiccata tendenza verso problemi relazionali. Gli items presenti nella scala sono 18, 43, 68, 76, 83. Punteggi elevati descrivono stati deliranti in senso persecutorio o di riferimento; punteggi di media entità individuano convinzioni particolarmente rigide, incrollabili, orientate alla interpretazione di segni o eventi riferiti a significati significativi per il soggetto. Punteggi lievi indicano la tendenza verso lo sviluppo di atteggiamenti fortemente diffidenti o paranoici, e possono associarsi alla elevazione di altre scale come quelle di Ostilità e Stati Alterati Psicotici. Punteggi minimi possono essere il risultato di un momentaneo stato di disadattamento del soggetto, il quale si trova isolato o sganciato dalla normale rete di relazioni quotidiane; bassi punteggi possono descrivere fluttuazioni momentanee del soggetto che non costituiscono indicatori di psicopatologia ma indicano variazioni normali dell’adattamento dell’individuo.
Stati Alterati Psicotici Il contenuto della scala si riferisce a reazioni e sintomi che fanno parte di quadri alterati psicotici, ma che possono essere presenti, almeno alcuni di essi più frequentemente, in stati di ansia particolarmente intensi. Gli items della scala indicano una stato caratterizzato da deliri, allucinazioni, esperienze di perdita dei comuni riferimenti dello stato psichico normale. Gli items di questa scala sono 7, 16, 35, 62, 77, 84, 85, 87, 88, 90. Punteggi elevati indicano la presenza di un quadro psicotico di tipo schizofreniforme o maniacale acuto, entrambi con sintomi positivi, e alterazioni del pensiero nel contenuto e nella forma. Un punteggio medio indica il discrimine di un disturbo, ad esempio depressivo, se associato ad un disturbo psicotico. Lievi punteggi della scala descrivono stati di alterazione dovuti alla gravità di altri disturbi compresenti, ad esempio ansia acuta, ossessioni, depressione, ipocondria. Punteggi ridotti possono indicare uno stato di temporaneo disadattamento e squilibrio del soggetto, anche a causa di episodi particolarmente acuti come episodi traumatici, shocks, eventi gravi o lutti improvvisi.
Contenuto delle Scale Aggiuntive
Nevroticismo Generale Questa scala coglie uno stato di disadattamento del soggetto descrivendo dei comportamenti di difficoltà che l’individuo ha sia con gli altri che con sé stesso. Gli items compresi nella scala sono 19, 59, 60, 81, 11, 6, 36, 24, 34, 41, 22, 37, 30, 29, 26, 54, 31, 57. La descrizione di questa scala fa riferimento ad una tendenza alla ipersensibilità, alla irritabilità ed intolleranza, alla diffidenza, alla ansietà, costituendo un indice generale non psicotico per la indicazione del mancato adattamento e delle difficoltà di funzionamento in diverse aree della vita personale e di relazione.
Disturbi del Sonno Gli items della scala indicano selettivamente la presenza di difficoltà nel sonno, sia in eccesso che in difetto, e nonostante il numero ridotto di items definisce questo importante fattore aggiuntivo. Gli items sono 44, 64, 66.
Disagio La scala descrive un generale indicatore di disagio e disadattamento che isola e discrimina uno stato di sofferenza egodistonica da stati reattivi egosintonici. La differenza con la scala di Nevroticismo è proprio nella descrizione in senso egodistonico del disagio. Gli items sono 26, 6, 36, 11, 54, 30, 29, 24, 15, 9, 38, 46, 55, 51, 5, 44, 14. Questi items si prestano particolarmente a screening sul disagio generale sia in situazioni scolastiche che in applicazioni di psicologia della salute ed in ambito sanitario (dove non sia utile utilizzare i 90 items della forma completa dello strumento).
Difficoltà Prestazioni Cognitive In questa scala gli items descrivono una generale difficoltà caratterizzata da alterazioni nelle funzioni cognitive dovute a diversi e molteplici fattori, che sono distinte da alterazioni gravi, ad esempio di tipo psicotico. Sintomi come rallentamento, deconcentrazione, difficoltà di memoria, attenzione labile, interferenze dovute a ruminazioni, possono descrivere stati secondari sia a condizioni mediche sia ad assunzioni farmacologiche che il soggetto utilizza. In questo caso punteggi elevati nella scala possono essere un utile punto di riferimento per il monitoraggio degli indicatori soggettivi del paziente nell’andamento delle cure o degli stati organici. Gli items sono i seguenti: 8, 9, 10, 18, 26, 28, 32, 35, 38, 45, 46, 51, 55.
Global Symptom Index Questo indicatore costituisce una eredità del test SCL90 e consiste della media delle scale. Il valore e la utilità di questa misura si presenta nel calcolo della misura della gravità considerando il profilo. Questa misura è associata ad un’altra scala aggiuntiva, la DS.
Deviazione Standard Questa scala indica lo scarto medio rispetto alla media totale del profilo delle scale. Quando questa misura è molto bassa, ad esempio 10 punti, il profilo è poco discriminativo e non permette di indicare un quadro psicopatologico con certezza; quando la misura è elevata, il profilo discrimina bene le diverse scale e il test può indicare uno o un numero ridotto di quadri sintomatologici con buona approssimazione.
La attribuzione dei punteggi
Nel PSI i punteggi possono essere attribuiti su una scala da 0 a 2, che corrisponde ai seguenti significati associati: 0 = per niente; 1 = un poco; 2 = molto. Come si può notare non vi sono gradi particolarmente estesi e non c’è la possibilità di attribuire valori più dettagliati (ad esempio, moltissimo, moderatamente, …). La ragione di questa scelta risiede nei risultati della sperimentazione del test che nel campione clinico non hanno discriminato altri punteggi che i tre principali , poi utilizzati nella forma attuale.
I punteggi nelle scale
Ciascuna delle scale, sia cliniche principali che aggiuntive, sono basate su una scala di misura compresa tra 0 e 200. La ragione di questa opzione deriva dalla trasformazione dei punteggi grezzi nelle scale calcolati in percentuale. Tale calcolo non prevede una trasformazione in percentuale semplice ma prende in considerazione come divisore il numero di items nella scala piuttosto che il totale teorico in quella scala. Ad esempio, se la scala Paranoia ha un punteggio 6, il calcolo prevede che questo punteggio sia diviso per il numero di items cioè 5; il totale sarà un valore maggiore di 1 che è calcolato per cento per una più facile lettura; in questo caso il risultato sarà 120. La differenza principale di questo metodo, rispetto ad un calcolo percentuale semplice che prevede come divisore il punteggio massimo nella scala (nell’esempio è 10, che rende il risultato uguale a 60 piuttosto che 120) è nella maggiore dimensione della scala, che essendo più allungata, discrimina maggiormente i risultati.
Il Cut-Off ed i criteri per il commento
Come ogni strumento diagnostico, il PSI può indicare se un punteggio in una scala ha un valore clinico oppure ha un valore indicativo di uno stato normale. La statistica basata sul campione clinico ha permesso di indicare la norma dello strumento per ciascuna scala ed, per una costruzione omogenea del test, equiparare i criteri tra loro. Il risultato della ricerca sui campioni (sia clinico che normale) ha stabilito come punto critico il 50 sulla scala utilizzata 0-200. E’ stato possibile porre un altro criterio che costituisce un valore progressivamente più indicativo di uno stato clinico grave, il punteggio 100, dopo il quale il valore della scala descrive stati di sofferenza, disadattamento, disagio e sintomi psicopatologici ad una intensità sempre più grave. Abbiamo così alcune aree di descrizione: la prima da 0 a 50 che indica uno stato normale, la seconda da 51 a 100 che indica uno stato clinico lieve, e la terza da 101 a 200 che indica uno stato psicopatologico grave. Il livello medio non è ben discriminato clinicamente, anche se può essere descritto metricamente (ad esempio, tra 101 e 150).I criteri sono stati decisivi per la costruzione di un commento guidato (o automatico). Il commento automatico, che il PSI permette, si basa su alcune linee guida formulate sulla base della graduazione del punteggio degli items. Queste linee guida sono le seguenti, riferite alla scala Attivazione Somatica:
0-10 non vi sono particolari elementi né disturbi da somatizzazione.
11-30 lievi somatizzazioni rientrano nelle normali fluttuazioni della reattività del soggetto.
31-50 sono presenti lievi elementi somatici o sintomi da somatizzazione che potrebbero associarsi ad un disturbo da somatizzazione, anche se l’intensità del fattore è sotto il livello psicopatologico critico.
51-70 sono presenti sintomi da somatizzazione; il soggetto reagisce attraverso una attivazione psicofisiologica elevata, si evidenzia un disturbo lieve da somatizzazione.
71-100 il soggetto presenta livelli moderati di somatizzazione; tende a reagire allo stress con intensità medio-alta di attivazione psicofisiologica.
101-150 il soggetto presenta un disturbo grave da somatizzazione. Il suo livello di attivazione è eccessivo e coinvolge diversi distretti corporei.
151-200 il soggetto evidenzia un grave disturbo da somatizzazione. Egli tende ad essere intensamente disturbato psicofisiologicamente nella maggior parte del funzionamento psicofisico.
Il Campionamento
I campioni di soggetti utilizzati per la taratura dei criteri del PSI sono stati principalmente due, uno di soggetti normali ed uno di soggetti aventi sintomi psicopatologici rilevati con interviste cliniche (principalmente il SCI-P, ed il MINI 4.1 per il DSM IV).Il campione normale o di controllo, composto da 511 soggetti, è stato selezionato reclutando studenti dell’ultimo anno del liceo scientifico, studenti universitari frequentanti il I° ed il II° anno di Fisica e di Lettere, Allievi della Scuola per Infermieri Professionali, e soggetti che hanno effettuato una visita psicologica per rinnovo di patente auto e porto d’armi. L’età del campione di controllo è compresa tra 17 e 25 anni, per il primo gruppo (studenti) e di età compresa tra i 24 e 65 anni per i secondo gruppo (patente e porto d’armi). La distribuzione per sesso è risultata come segue: 58 % e 11% per il campione femminile relativamente al primo al primo ed al secondo gruppo; 42% e 89% per il campione maschile.Il campione clinico, composto da 389 soggetti, è stato reclutato tra pazienti in trattamento presso Centri di Salute Mentale, dove la diagnosi è stata definita sulla base del DSM IV. L’età del campione clinico è compresa tra 16 e 59 anni, e la distribuzione del sesso è del 54% per la femmine e 46% per i maschi. Il campione clinico è stato caratterizzato dalla composizione di patologie diverse e la distribuzione tra le aree psicopatologiche principali è la seguente: il 18.76% di soggetti con Disturbi Psicotici (73 casi), il 25.19% con Disturbi dell’Umore (98 casi), il 48.07% (187 casi) con Disturbi d’Ansia (Panico, D. Ossessivi, D. da Somatizzazione, Ipocondria, Ansia Sociale), e un 7.96% (31 casi) che racchiudeva disturbi Non Altrimenti Specificabili e dalla diagnosi incerta o multipla.
I Dati per categorie cliniche
I profili che seguono descrivono il campione normale ed i campioni clinici relativi a particolari aree cliniche. I dati si riferiscono ai valori medi nel campione, ed in ogni gruppo esaminato i valori sono stati particolarmente significativi sia come variabilità media che come validità. La deviazione standard complessiva è stata pari a 9.41, con uno coefficiente significatività di almeno 0.05.I soggetti che costituiscono il campione normale o di controllo non hanno evidenziato particolari elevazioni nelle scale, i pochi sintomi riportati costituiscono normali fluttuazioni e manifestazioni di una fisiologica ed adattiva attivazione ai fini dell’adattamento e della risoluzione dei problemi quotidiani.Sebbene il numero del campione normale potrebbe descrivere un profilo indicativo, si può affermare che il PSI descrive un soggetto come normale quando il profilo non evidenzia scale cliniche significativamente elevate (oltre il 50). I soggetti del campione clinico sono stati suddivisi per area cinica e attraverso l’incrocio con la definizione diagnostica, sulla base di criteri diagnostici standardizzati (SCID-P, MINI 4.1), è possibile disporre di profili sintomatologici relativi a disturbi distinti.I 98 soggetti con Disturbo da Attacchi di Panico e Agorafobia evidenziano quattro scale particolarmente elevate: Sintomi Fobici, Ansia Generale, Sintomi Depressivi, Attivazione Somatica. E’ particolarmente accentuata anche la scale Ossessività. Il profilo PSI composto dalle 4 scale più alte, ma in particolare le scale S. Fobici, Ansia Generale e Att. Somatica possono essere utilizzate come markers del disturbo di Panico.Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, rappresentato da 39 soggetti del campione clinico, sono descritti da un profilo sintomatologico che mette in evidenza la elevazione di 2 scale, in particolare, Ossessività e Ansia Generale. In secondo piano vi sono le scale Sintomi Depressivi, Ipersensibilità, Sintomi Fobici, Ostilità. Il profilo di cui alla figura 3 può essere particolarmente indicativo e descrittivo del DOC, senza una particolare complessità e comorbilità nella diagnosi.Il gruppo clinico dell’area Psicosi ha evidenziato alcune scale cliniche particolarmente elevate. Come si può notare dalla figura 4, le scale particolarmente elevate, sopra il punteggio 100, sono: Stati Alterati Psicotici, Paranoia, Ansia Generale, e Sintomi Depressivi; il profilo sintomatologico evidenzia anche la scala di Ipersensibilità, che si approssima a tale punteggio, e poco meno elevata è la scala di Ostilità. Tali fattori clinici descrivono puntualmente le condizioni dei soggetti con disturbi psicotici e contribuiscono a focalizzare quei markers diagnostici e gli obiettivi del trattamento.La descrizione sintomatologica dei 98 soggetti con disturbo dell’umore evidenzia il ruolo della depressione e il particolare accento che il profilo mette in rilievo; ciò è dovuto alla composizione del campione che ha sovrarappresentato il disturbo depressivo maggiore e la distimia (DSM IV) a scapito dei disturbi bipolari poco presenti numericamente (8 soggetti con disturbo bipolare I° o II°).Le scale elevate sono le seguenti: Sintomi Depressivi, Ansia Generale, Ipersensibilità. Tali scale descrivono, come abbiamo detto, soprattutto la sindrome depressiva, in quanto tale quadro clinico è quasi interamente coincidente con il campione di area clinica (90 soggetti su 98 totali). Questa area, in realtà descrittiva della depressione, è definita da tre scale dove il ruolo dei sintomi depressivi naturalmente viene accentuato e messo in risalto.
Uso del PSI
Obiettivi
Il PSI può essere usato sia come uno screening sintomatologico in un progetto di prevenzione e diagnosi precoce della psicopatologia che come uno strumento di assistenza all’esame clinico del paziente. In entrambi i casi, il PSI è in grado di descrivere con sufficiente precisione il quadro dei sintomi ed indicare l’eventuale spettro diagnostico-clinico.Data la economicità di uso e di scoring, il PSI si presta bene per un uso valutativo-clinico in contesti caratterizzati da un tempo di valutazione relativamente breve, come ad esempio la diagnosi di sintomi psicopatologici in medicina generale (Kendall, Hammen, 1995); in tali contesti, ad esempio nel reparto ospedaliero, il PSI può comportarsi molto efficacemente in quanto nel tempo ridotto può indicare se le condizioni del paziente sono anche di interesse psicopatologico, ed in che misura. Uno degli usi, sempre restando nell’ambito medico generale, è anche quello della valutazione differenziale dinanzi ad un disturbo "funzionale" (Seligman, Rosenam, 1996), ed in questa direzione il PSI può indicare anche il grado di compromissione dato dai sintomi psicologici.Un uso particolarmente appropriato è quello della valutazione del corso e degli esiti dei trattamenti medici e psicologici (ad esempio, trattamenti psicofarmacologici, psicoterapie, interventi riabilitativi, …). In tale ambito il focus è quello sintomatologico, ma esprime comunque il grado di adattamento del soggetto alla situazione e misura il suo livello di stress. In tale ambito la misura degli esiti della psicoterapia o la valutazione concorrente dei trattamenti sui disturbi psicologici è una possibilità naturale per un test efficiente ed efficace (Kazdin A.E., 1994); il PSI, in tale ambito, è particolarmente indicato come uno degli strumenti di elezione per la valutazione degli esiti.Naturalmente, il PSI misura dei sintomi ed in quanto tali essi sono proposti al soggetto come dato presente o assente, e se presento in che grado; diverso è il caso della valutazione più completa del soggetto nella quale non è valutata solo la sintomatologia ma anche i tratti della sua personalità, i suoi atteggiamenti, le preferenze, le capacità di coping e i deficit nell’autonomia personale e sociale. Il PSI non è uno strumento di valutazione completo, o a largo spettro, ma un test per la valutazione dei sintomi psicologici, e dovrebbe essere usato per questi scopi.
Tecniche
Il PSI è un questionario autodescrittivo delle condizioni sintomatologiche nell’area della psicopatologia. Il soggetto, in circa 15 minuti, può descrivere se nell’ultima settimana ha avuto i sintomi elencati ed in che grado. Tale compito è ben compreso in un range di età molto ampio, approssimativamente dai 14 anni in poi. Non è ancora chiaro se soggetti di età minore ai 14 anni, pur comprendendo bene il significato del compito testistico hanno le capacità cognitive per avere una chiara rappresentazione dei propri sintomi, ed in particolare che variabilità esiste tra sintomi diversi.Il PSI può essere usato come guida di una intervista clinica, avente 90 bersagli (gli items), ed avente uno scoring identico al test autodescrittivo. Usato in tale modo il PSI ha una correlazione molto alta e le sue prestazioni psicometriche sono quasi coincidenti con la forma questionario (r. = 0.98). Il test di correlazione tra la forma intervista e la forma questionario è stata effettuata su soggetti con disturbi d’Ansia che avevano effettuato precedentemente la forma questionario ed in un secondo tempo effettuavano, in due gruppi casualmente distinti, le due forme. La differenza, non certo metrica, ma psico-tecnica nella conduzione della forma intervista consiste nel comportamento del soggetto il quale si dilunga sul contenuto dell’item, spesso tracciando anche una storia clinica o delle precisazioni contingenti e del contesto di origine; nell’esaminatore il comportamento è coincidente a quello di una intervista clinica standard.
Gli Items del PSI
Gli items del PSI sono in una particolare forma linguistica tale da poter essere utilizzate in forma interrogativa, come domande da porre all’esaminato, o come domande che il soggetto si pone, o come descrizioni in forma affermativa che evidenziano particolari sintomi e comportamenti.La scheda contenente gli items può, dunque, essere utilizzata sia come questionario autodescrittivo che come guida per l’intervista clinica, ma anche come Rating Scale per una valutazione esterna.Tutti gli items sono calibrati per una valutazione che si basa sulle condizioni del soggetto nell’ultima settimana, ma tale range temporale è solo un criterio utilizzato nella taratura ed ha un valore indicativo. Nella forma linguistica varia il tempo del verbo principale, e ciò corrisponde ad una ragione precisa: quando un items descrive un sintomo più raro la frase usa il tempo passato per evidenziare anche un solo caso positivo, quando il sintomo è più frequente allora la frase è formulata al tempo presente.Gli items del PSI sono i seguenti:
"Valuti il contenuto delle domande relativamente all’ultima settimana"
Conclusioni
Come strumento valutativo della sintomatologia, il Psychopathological State Index descrive con successo categorie diagnostiche distinte, con una sofisticata precisione e un dettaglio molto utile. Grazie alla eredità nella costruzione delle scale primarie (che derivano dal SCL90 di Derogatis, anche se parzialmente modificate), lo strumento si presenta come un questionario autovalutativo in grado di supportare bene anche le funzioni di Rating Scale e di schema per l’intervista sintomatologica.La particolare economicità rendo lo strumento pregevole per il rapporto tra le caratteristiche psicometriche e le modalità d’uso.Ulteriori studi possono ampliare il campione di riferimento, aggiungendo ai gruppi clinici testati altri soggetti con diagnosi diverse, così da potenziare le capacità diagnostiche e descrittive del PSI.Gli items sono particolarmente accessibili in un ampia variabilità di età e di grado di istruzione. La particolare forma linguistica rende le frasi disponibili sia in forma interrogativa che affermativa.La presenza delle scale aggiuntive rende il PSI uno strumento molto versatile, potendo descrivere lo stato del soggetto non solo attraverso il profilo completo ma anche per mezzo di scale mirate a fattori e costrutti particolarmente utili e per questo molto usati (ad esempio la scala di Nevroticismo Generale, la scala di Disagio, e quella di Difficoltà Prestazioni Cognitive).Il PSI ha, inoltre, una sua versione automatizzata che permette la immissione nel computer delle risposte, traccia il grafico del profilo psicopatologico, descrive le caratteristiche cliniche del soggetto in forma di commento scritto insieme con la indicazione di circa 20 categorie diagnostiche DSM IV e la segnalazione di critical items; inoltre permette una archiviazione e trattamento statistico dei dati grazie ad un data-base flessibile ed ergonomico (De Matteis, Dell'Erba, 1999).
Riferimenti Bibiografici
Boncori L. (1995) Teorie e Tecniche dei Test. Bollati Boringheri, Torino. Derogatis L.R. (1983) SCL90: Administration, Scoring and Procedures Manual for the Revised Version. Baltimore, Clinical Psychometric Research. Derogatis L.R., Melisaratos N. (1983) The Brief Symptom Inventory: an introductory report. Psychological Medicine, 13, 595-605. Kazdin A.E. (1994) Methodology, Design, and Evaluation in Psychotherapy Researh. In Bergin A.E., Garfield S.L. Handbook of Psychotherapy and Behavior Change., Wiley, New York. Kendall P.K., Hammen C. (1995) Clinical Psychology. Norton, New York. Lipman R.S., Chase C., Rickles K., Covi L., Derogatis L.R., Uhlenhuth E.H. (1969) Factors of Symptom Distress: Doctor Ratings of Anxious Neurotic Outpatiens. Arch. Gener.. Psychiat., Vol. 21, September. Mohr L.B. (1990) Understanding significance testing. Newbury Park, CA, Sage Publications. Seligman M.E.P., Rosenam D.L. (1996) Abnormality. Norton, New York. Tingey R., Burlingame G., Lambert M.J., Barlow S.H. (1989) Assessing clinical significance: Extensions and applications. SPR, Wintergreen, VA.
Trattamenti cognitivi nel disturbo schizofrenico
di Gian Luigi Dell’Erba
Il trattamento principale e più frequente nei disturbi psicotici negli ultimi 50 anni è stato senza dubbio l’uso dei farmaci antipsicotici. Mentre tali trattamenti hanno rivoluzionato la gestione generale della condizione psicotica, essi non hanno dato ancora una risposta completa alle sofferenze dei pazienti.Una delle condizioni più frequenti nella complicazione dei trattamenti è certamente la ridotta, o a volte assente, collaborazione ed adesione al trattamento, e quindi la mancata assunzione dei farmaci. Un’altra complicazione, che attiente non tanto al trattamento quanto alla prassi associata ad un trattamento, consiste nella ridotta relazione terapeutica e nella progressiva diminuzione del tempo dedicato ad ascoltare e prendersi cura delle argomentazioni del paziente.Più recentemente, con il sempre più deciso affermarsi della applicazione dei trattamenti psicologici, sempre più professionisti della salute mentale hanno incrementato le attività di colloquio, comprensione e discussione dei sintomi psicotici.Un ruolo chiaramente decisivo è stato svolto dalle tecniche psicoterapiche progettate specificamente per fronteggiare la condizione psicotica.Come discuteremo, vi sono stati nel corso degli anni diversi orientamenti nell’affrontare le psicosi dal punto di vista della psicoterapia.Oggi, si può decisamente indicare che alcuni punti cruciali devono essere messi in risalto:
Parallelamente allo sviluppo della ricerca nel campo dei farmaci antipsicotici, è sempre più marcato l’accento posto sugli interventi psicologici non solo nella generale gestione dei problemi del paziente con disturbi psicotici ma anche, ed in particolare, nei trattamenti dei sintomi produttivi.Tradizionalmente, le applicazioni psicoterapiche hanno avuto fortune alterne nel trattamento delle psicosi, ed hanno risentito della mancanza di collegamento tra ricerca psicologica sperimentale ed interventi in psicologia clinica. Gli studi sulla efficacia delle psicoterapie hanno visto gli approcci tradizionali come non adeguati al trattamento dei sintomi positivi delle psicosi; questa indicazione ha influenzato lungamente il modo di affrontare le condizioni cliniche dei pazienti. Il target privilegiato è stato più strettamente il quadro della sintomatologia negativa, e come interventi più adeguati sono stati considerati i trattamenti comportamentali.Recentemente, con lo sviluppo della ricerca di base in psicologia cognitiva, e con il progressivo sviluppo delle conoscenze sui meccanismi alla base dei singoli sintomi positivi delle psicosi, soprattutto della schizofrenia, l’estendersi dei trattamenti cognitivo-comportamentali ha modificato le conclusioni delle ricerche sulla efficacia dei trattamenti psicologici sui sintomi psicotici.Un altro punto decisivo nel cambiamento di atteggiamento generale sui trattamenti psicologici nella psicosi è stato la crescente consapevolezza che la sintomatologia psicotica ha una natura dimensionale, che non ha un carattere alieno ed incomprensibile e che, pur in un certo grado, è presente nella popolazione normale (non clinica): questo riguarda soprattutto le manifestazioni allucinatorie, ma coinvolge anche le idee prevalenti, le convinzioni incrollabili che sfumano nel delirio.
Considerazioni generali
Nel campo dei trattamenti delle psicosi si è assistito ad una relativa progressione e modificazione di modelli e concezioni dei trattamenti sia farmacologici che psicoterapici. All’interno del settore psicoterapeutico, sono state portate avanti alcune modificazioni sia nel processo terapeutico che nel modello stesso. A partire da una concezione del trattamento indirizzato ad una sindrome clinica, che ha come caratteristiche alcuni sintomi specifici e spiega i fattori associati o come correlazioni generiche o come sintomi stessi della malattia (avvicinandosi pericolosamente ad una spiegazione circolare), si è passati gradualmente ad una impostazione del trattamento sempre più mirato a sintomi specifici ben determinati, i quali sono stati approfonditi singolarmente a livello sperimentale e clinico, ed hanno giovato di notevoli avanzamenti provenienti sia dal campo delle neuroscienze che dal settore della psicologia sperimentale (Barlow, Durand, 1998; Seligman, Rosenham, 1997). Il modello di trattamento centrato sul sintomo, attualmente il più noto e il più efficace nel campo dei trattamenti psicoterapeutici delle psicosi, come in altri disturbi (Gelder, 1997), è stato sviluppato in modo eterogeneo da diversi centri clinici e di ricerca a livello mondiale. Le applicazioni di tale approccio, ben note nel settore, sono caratterizzate tutte dalla definizione esplicita dei meccanismi del singolo sintomo, dagli antecedenti o fattori associati all’innesco o produzione del sintomi, e dai fattori associati alla diminuzione o scomparsa dell’attivazione sintomatologica.Al modello del sintomo attualmente si affianca una progressiva revisione e modificazione dell’approccio sulla base della sempre più completa conoscenza dei fattori psicologici del soggetto attinenti alla personale vulnerabilità specifica rispetto ad eventi o significati su eventi specifici.Questo modello conosciuto come modello della persona (Bentall, 1990; Kington, Turkington, 1994; Chadwick, Birchwood, Trower, 1996; Perris, 1994) permette di chiarire alcuni dati che il modello del sintomo lasciava oscuri. Un primo elemento è quello attinente alla distorsione cognitiva, che non spiegherebbe perché un soggetto distorca alcuni argomenti specificamente mentre altri rimarrebbero non coinvolti. Un secondo aspetto riguarda il contenuto dei deliri e delle convinzioni associate alle voci che piuttosto che essere genericamente delle elaborazioni deliranti sarebbero più precisamente delle convinzioni deliranti derivate da temi specifici collegati alla vulnerabilità psicologica del soggetto. Inoltre, la stessa nozione di insorgenza dei sintomi non sarebbe ben spiegata dalla nozione di evento stressante (che è generico) ma invece di eventi specifici presenti nella vita del soggetto che sono costruiti in modo tale da presentare una minaccia grave ai bisogni primari e fondamentali dell’individuo (Alford, Beck, 1997; Haddock , Slade , 1996; Karg , Alford , 1997; Perris, 1994)Attualmente, i modelli psicoterapeutici nel trattamento delle psicosi sono diversi e derivati da differenti modelli teorici di base (psicodinamico, cognitivo, comportamentale); ma, differentemente rispetto al passato, da circa 10 anni i trattamenti mirati ai disturbi psicotici si sono uniformati in modo sorprendente proprio per effetto dell’impatto del modello del sintomo, che ha premesso di dimostrare che i sintomi psicotici come i deliri, le voci, le convinzioni paranoidi, sono sensibili al trattamento psicologico.Mentre da un lato i progressi della farmacologia ha permesso di migliorare la efficacia della cura delle psicosi, il trattamento psicoterapeutico si associa come un complemento fondamentale sia efficace che riproducibile.Infine, lo studio dei meccanismi psicologici associati ai singoli sintomi ha permesso di prendere le distanze da un assunto che ha pesantemente condizionato sia la clinica che la ricerca: la celebre affermazione di Jaspers che esiste una frattura incolmabile tra il pensiero normale e il delirio è attualmente poco supportata, a vantaggio di molteplici dati che indicano come il delirio, per quanto bizzarro ed inverosimile, sia una esagerazione che si pone in modo continuo con le diverse tipologie di convinzione definite normali; in pratica si critica il concetto di discontinuità a favore dell’ipotesi della continuità con il funzionamento ordinario dell’individuo (Kington, Turkington, 1994; Chadwick, Birchwood, Trower, 1996 Bentall, 1990).La sintomatologia di riferimento, nei trattamenti psicoterapici è sia quella positiva, deliri e allucinazioni, che quella negativa, quadro anedonico-amotivazionale. Diversamente dal passato, quando i sintomi negativi erano maggiormente il target degli interventi "psicosociali" nella riabilitazione dei pazienti con psicosi, attualmente sono i sintomi positivi che hanno il ruolo di obiettivo principale nei trattamenti specifici. Ciò è dovuto in gran parte al rinnovato interesse per i meccanismi psicologici connessi ai sintomi psicotici (Frith, 1995; Bentall, 1990;, Chadwick, Birchwood, Trower, 1996) ed alla migliore standardizzazione delle procedure efficaci nel trattamento psicologico dei deliri e delle voci (Tarrier e coll., 1994; Chadwick, Birchwood, Trower, 1996; Birchwood e coll., 1995; Fowler e coll., 1995; Liberman, 1992; Falloon e coll., 1995).
Procedure tecniche nella psicoterapia cognitiva delle psicosi
Di seguito discuteremo alcune tecniche ed accorgimenti all’interno della psicoterapia cognitiva per affrontare efficacemente i sintomi psicotici e la particolare relazione con il paziente.Prima di discutere nel merito gli aggiustamenti della terapia cognitiva per le psicosi, è utile ricordare che nel lavoro col paziente psicotico vi sono almeno i seguenti problemi da risolvere o tenere in conto.Problemi di empatia del terapeuta: mentre in altri disturbi il terapeuta si confronta con le reazioni emotive conseguenti a preoccupazioni e problemi solitamente intelligibili ed usualmente comprensibili, con il paziente psicotico le reazioni emotive sono attivate da preoccupazioni, problemi e cognizioni spesso lontane dalla "psicologia del senso comune" ed alcune volte il collegamento tra una idea e l’altra avviene attraverso apparenti salti che invece sottendono collegamenti non immediatamente rinvenibili e decifrabili. Questa particolare organizzazione cognitiva può, in professionisti non addestrati specificamente al lavoro con pazienti psicotici, destare stupore e sentimenti di distacco che compromettono la necessaria empatia e comprensione del punto di vista del paziente.Convinzioni del terapeuta su paziente e sul suo disturbo: le convinzioni dell’operatore sanitario influiscono grandemente sull’efficacia del trattamento attraverso il grado di impegno, emozioni espresse, comunicazione esplicita col paziente, e atteggiamenti non verbali durante il lavoro. Se il personale psichiatrico ha delle convinzioni negative sulle condizioni, e non vede un punto di "aggancio" per il trattamento l’atteggiamento risultante potrà essere di scoraggiamento e disimpegno, o distacco e cinismo, o ancora di minimizzazione. Tutto questo potrebbe influire sulla comunicazione terapeutica, e potrebbe essere un fattore di disturbo anche se non veicolato direttamente dal terapeuta che si occupa del paziente.Problemi nel mantenimento della relazione: a causa delle particolari credenze e convinzioni del paziente psicotico, dei fenomeni allucinatori che ne limitano il contatto con la realtà, la relazione terapeutica può spesso essere difficoltosa e intermittente, anche se la costanza e l’esplicito impegno del terapeuta può costituire il punto di orientamento anche in momenti difficili, proprio grazie al mantenimento di un atteggiamento accogliente.
Deliri
Seguendo il generale modello ABC della psicoterapia cognitiva standard (Dell’Erba, 1998), è opportuno fissare almeno due obiettivi ampi nel lavoro con le convinzioni deliranti. Un primo punto da sviluppare è la prospettiva che i deliri sono le convinzioni del paziente e non i fatti (cioè sono B e non C). Questo deve essere sviluppato senza rendere le convinzioni del paziente delle costruzioni prive di importanza o connotate con un carattere di insostenibilità proprio perché sono distinte dai fatti. Il secondo punto è la condivisione e lo sviluppo di uno schema generale, un razionale, nell’indagine sui deliri.Un primo passo è decisamente la discussione del modello ABC, che il terapeuta discute con il paziente fornendo esempi ed applicando le tre distinte categorie del problema (A, B, e C) ai resoconti del paziente.Il terapeuta può proseguire il processo con l’assessment degli eventi attivanti e degli stimoli interni ed esterni che il paziente inserisce nei resoconti e che naturalmente ingloba nel problema. E’ utile ricordare che il problema del paziente prende la forma di un processo A-C, dove un evento attivante causa una reazione; le stesse cognizioni del paziente sono riferite da lui come causate esternamente (attraverso attribuzioni esterne).Lo sviluppo del modello ABC prosegue con la valutazione delle reazioni emotive e comportamentali, nella quale il terapeuta prende in considerazione la qualità delle emozioni del paziente (la tonalità, come ansia, tristezza, rabbia, ad esempio) e la intensità.Il successivo passo consiste nell’indagine sulle convinzioni (B) che costituiscono la prospettiva del paziente e prendono la forma di interpretazioni subitanee. Le convinzioni dei pazienti devono essere valutate secondo la loro tipologia relativa al contenuto specifico (che potrà essere poi ricondotto ad un tipo particolare e caratteristico di contenuto significativamente inserito nella storia del paziente). Potrà essere così valutato se il contenuto è, ad esempio, benevolo o malevolo, estraneo o familiare al paziente.L’indagine del contenuto è particolarmente importante in quanto costituisce la base su cui si poggerà il tentativo di messa in discussione. In particolare sarà valutata l’entità delle preoccupazioni del paziente relativamente all’oggetto del delirio, i temi salienti, il grado di convinzione, la evoluzione e la storia della sua formazione ed acquisizione; inoltre, sarà particolarmente curata l’analisi delle evidenze. Su quest’ultimo punto vale la pena soffermarsi su alcuni dati derivanti dalla ricerca sperimentale, ed inseriti direttamente nelle precedure della terapia cognitiva. Dai risultati delle ricerche sulla "reattanza psicologica" di Brehm (Brehm, 1966) sviluppati da Frazer Watt e collaboratori (Watt et al.:, 1973) possono essere dedotti almeno 4 punti orientativi nell’affrontare la discussione dei deliri:
Il terapeuta propone, successivamente delle ipotesi probabili nelle quali il paziente immagina uno scenario o situazione priva delle carateristiche deliranti, e tramite tale scenario il paziente ed il terapeuta possono considerare varie alternative di "realtà" potenziale.Dallo sviluppo di tali ipotesi e dalla analisi dei temi prevalenti e caratteristici si può risalire alla individuazione di convinzioni di base che costituiscono una specie di teorie personali (schemi personali) che il paziente ha costruito nel corso della propria storia, ed in particolare nelle fasi più delicate dello sviluppo. Spesso il paziente ha affrontato delle situazioni difficili, e molte volte ritroviamo nella ricostruzione della storia del paziente la presenza di veri traumi o incidenti fisici o relazionali subiti (e non immaginari).Le convinzioni devono essere trasformate in modo sintetico in modo da poter essere sottoposte alla discussione di ipotesi alternative e alla verifica empirica tramite test di realtà che il paziente ed il terapeuta progettano e realizzano insieme (che hanno sempre il carattere di confronto tra ipotesi proposta dal paziente cioè il delirio, e la ipotesi sviluppata insieme al terapeuta in modo condiviso).
La procedura di discussione spesso è la seguente:
- si chiariscono i concetti di "Fatto" o "Stimolo Esterno" (come vedrebbe una telecamera o 10 giudici osservatori imparziali), "Interpretazione" (valutazione, pensiero istantaneo o spontaneo, punto di vista), "Spiegazione Alternativa" (una spiegazione concreta che giustifichi soddisfacentemente i fatti);
- si imposta il modello a tre colonne Fatto/ Interpretazione/ Spiegazione Alternativa, con la determinazione del grado di convinzione della seconda e della terza colonna;
- il paziente viene incoraggiato ad esporre un problema o un evento che lo ha colpito;
- si chiarisce al soggetto che quanto ha esposto viene preso in seria considerazione, ma non viene né giudicato vero né falso, ma viene preso come problema da esaminare;
- il problema viene considerato una interpretazione (B1), che deve essere collegata ad un evento preciso, e viene determinato il grado di convinzione attuale del proprio punto di vista;
- il paziente viene esortato a riconsiderare il Fatto e a formulare una Spiegazione Alternativa (B2), con un grado di convinzione, ed eventualmente il terapista sottolinea le principali incongruenze;
- si rassicura il paziente che il risultato è significativo, e che può migliorare.
Nel corso del trattamento il paziente prende in esame le convinzioni centrali, che costituiscono gli organizzatori di significato che spiegano, dal suo punto di vista, l’evolversi della propria condizione e il perché dei significati così speciali che il paziente costruisce.
Allucinazioni
Anche nel lavoro con i sintomi allucinatori è necessario verificare se esista una relazione di collaborazione e se non esistano delle convinzioni ostacolanti come il credere che il terapeuta sia controllante, o che il terapeuta non possa comprendere l’esperienza delle voci, o che vi siano ragioni e credenze che rendono il trattamento una minaccia contro le esperienze allucinatorie, nel caso queste siano valutate dal paziente positivamente.Un primo momento dell’intervento riguarda la valutazione delle abilità di coping spontaneo del paziente nel fronteggiare le esperienze delle voci. In questa fase possono essere ritrovate alcune abilità e comportamenti che hanno successo nel contrastare le voci o nel bloccarle, altre che hanno invece un valore di contrasto del loro contenuto. Il terapeuta può insegnare al paziente alcune abilità di coping, e attraverso una serie di brevi prove raggiungere un accordo su quelle pratiche utili e sintoniche con i bisogni del paziente (Chadvick, Lowe, 1994).Le abilità di coping per le voci possono essere definite come quelle condotte che contrastano dia gli antecedenti sia l’esperienza stessa allucinatoria attraverso il blocco del meccanismo del sintomo (Tarrier, 1996). Esse possono essere, ad esempio, leggere a voce alta, parlare, muoversi e fare attività fisica, usare cuffie per la musica, rilassarsi. Alcune ricerche hanno dimostrato come, confrontando l’efficacia delle abilità di coping che impiegavano metodi di distrazione e quelle che impiegavano metodi di focalizzazione sull’esperienza delle voci, le più promettenti sono state le ultime in quanto il paziente può affrontare l’esperienza ed il contenuto senza catastrofizzare e terribilizzare tali stimoli. (Bentall, 1996).Il successivo stadio è costituito dalla valutazione delle voci. L’assessment deve considerare le voci come degli A, cioè degli stimoli interni o esterni, e deve riguardare i contenuti, il locus spaziale, i sintomi correlati, gli stimoli ed i contesti che sono spesso coinvolti nell’esperienza allucinatoria. Dovrebbe essere indagata la specifica situazione tipica in cui il paziente sente le voci ed indagare con estrema attenzione il modo in cui le ascolta. Vari ricercatori hanno definito come "atteggiamento di ascolto" l’atteggiamento tipico del paziente quando sente le voci e dunque tale atteggiamento non sembra essere un risposta all’esperienza delle voci ma è connessa in modo causale con il meccanismo del sintomo attraverso l’alterazione dello stato di coscienza. In questo caso il terapeuta può insegnare al paziente a porre attenzione al proprio atteggiamento di ascolto e di facilitare le situazioni tipiche in senso più tranquillizzante.Il passo conseguente è quello della presa in esame delle cognizioni che potranno essere sia delle inferenze sia delle valutazioni da parte del paziente sulla esperienza delle voci e sul loro contenuto. In tale compito devono essere prese in esame le particolari convinzioni che il paziente ha di tali esperienze, sulla loro forza, sulla identità delle voci, sul significato del contenuto e della stessa esperienza, se i contenuti o la identità sono interpretati come esperienze benevole o malevole.Dopo il laborioso assessment delle voci, il terapeuta è in grado di entrare nel merito dell’intervento cognitivo identificando quali valutazioni e quali inferenze sono connesse con le voci.L’intervento successivo è la messa in discussione di tali cognizioni progettando per le inferenze delle prove e dei test di verifica collaborativa, mentre per le valutazioni la articolazione di spiegazioni ed interpretazioni alternative con il grado di convinzione conseguente e la intensità emotiva conseguente.E’ molto importante sviluppare una collaborazione empirica con il paziente non solo per la finalità della esecuzione di tali interventi ma più generalmente in quanto l’intervento cognitivo è efficace nella modificazione delle convinzioni, e per questo tale risultato può essere sospetto dal punto di vista del paziente paranoide.La valutazione e l’intervento sulle convinzioni e sui contenuti devono essere considerati interventi sui B e non sui C, e per questo il terapeuta indaga insieme al paziente se l’indebolirsi di una certa convinzione su un certo contenuto presente nelle voci può modificare il senso di tale esperienza. Ad esempio, un paziente riferiva che delle persone guardandolo conoscevano il suo pensiero, e gli trasmettevano dei comandi sulle cose da fare tramite commenti ed ordini espliciti. L’intervento è consistito nel ipotizzare delle condotte alternative o dei pensieri alternativi a quelli provenienti dalle voci, in modo che il paziente poteva scegliere se obbedire alle voci, magari rischiando la rappresaglia, oppure scegliere di comportarsi in modo diverso dai comando eteroriferiti. Il paziente poté testare tale ipotesi verificando sia la mancanza di conseguenze (diminuzione del potere delle voci) sia la assenza di costrizione e di passività.Da tale stadio di intervento si identificano quelle convinzioni generale che spiegano il senso di tali esperienze dal punto di vista del paziente. Tali convinzioni sono deliri e sono trattati come B che attivano dei C, e che abbiamo visto più sopra.Infine, come aspetto molto più generale, deve essere affrontato l’argomento delle cause e dello sviluppo di tali esperienze. La maggior parte degli autori è concorde sull’esigenza di condividere un modello di stress, di vulnerabilità, e di eventi critici ed attivanti. La vulnerabilità in particolare è concettualizzata come una spiegazione precoce che il paziente ha costruito in riferimento ad avvenimenti, incidenti o situazioni di fatto che ha affrontato precocemente nella sua vita. E’ bene ricordare che nelle storie di pazienti incidenti, traumi e situazioni di fatto sono molto più comuni di quello che si è pensato in passato. Una ulteriore osservazione è quella di utilizzare i risultati di numerose ricerche che vedono ampi campioni della popolazione normale (priva di diagnosi di psicosi) coinvolti in esperienze allucinatorie in relazione a precisi accadimenti (prevalentemente negativi e disorientanti) presenti nella loro vita. Può essere affermato che, in accordo con i dati della neurobiologia delle allucinazioni uditive, le voci sembrano rispondere alla esigenza di semplificazione ed organizzazione di pensieri che il soggetto non riesce ad integrare e accettare, e che gradualmente sono interpretati come ego-alieni.
Linee guida del trattamento psicologico cognitivo-comportamentale nel disturbo psicotico
Mentre rimandiamo ad altri lavori l’approfondimento della pratica terapeutica nei disturbi psicotici, sia per quanto riguarda la tecnica che la concettualizzazione del disturbo ( Beck, 1976; Beck, Freeman, 1990; Dell’Erba, 1998; Bellomo, Dell’Erba, Suma, 1999; Fowler e coll., 1995; Bentall, 1990; Chadwick e coll, 1996;Tarrier e coll., 1993; Kington, Turkington, 1994), in questa sede illustreremo solo brevemente alcuni elementi di tecnica psicoterapeutica che si sono dimostrati efficaci complessivamente della diminuzione della sintomatologia positiva del disturbo schizofrenico.Alcuni punti generali dell’impostazione del trattamento specifico sono i seguenti:
Questa breve esposizione del trattamento cognitivo-comportamentale nelle psicosi non esaurisce la complessa pianificazione del trattamento generale che può comprendere diverse tecniche di intervento sul soggetto, sia in modo mirato ai sintomi positivi e negativi, sia avente come obiettivo l’aderenza al trattamento farmacologico; inoltre, lo stesso trattamento generale può includere il lavoro terapeutico con i familiari, con il contesto ambientale, e il supporto agli interventi più specificamente sociali o assistenziali.Questi elementi possono, però, essere definiti aggiuntivi o esterni ad un intervento cognitivo sul delirio e sulle allucinazioni.
Metodologia della ricerca
Scopi
Al fine di studiare la efficacia delle procedure di intervento psicologico cognitivo-comportamentale è stata organizzata una verifica comparativa tra l’effetto delle abilità di coping (prevalentemente distrattive ed interferenti con il meccanismo del sintomo) e gli interventi di terapia cognitiva standard (prevalentemente ristrutturazioni e test di verifica). Interventi comuni erano l’uso della normalizzazione, l’impegno nella collaborazione, e l’atteggiamento concreto ed empirico nei confronti dei sintomi.
Disegno
La ricerca è stata caratterizzata da uno schema di confronto diretto interno dovuto al tipo di valutazione prescelta consistente nell'andamento sintomatologico sulla base di una scala di valutazione normativo (BPRS di Overall e collaboratori). La valutazione degli esiti è stata caratterizzata principalmente dalla valutazione degli andamenti psicometrici del test, somministrato a scansione predeterminata, e dalla valutazione clinica. Il disegno utilizzato è lo schema longitudinale conseguente al trattamento, con valutazioni intermittenti ogni 2 mesi.
Strumenti
Lo strumento usato è stato il BPRS (di Overall e coll., versione 18 items come modificata da Bech, Kanstrup, Rafaelsen, 1986) per le sue qualità di praticità, precisione nella discriminazione dei sintomi degli items, velocità di somministrazione e scoring, fedeltà, validità rispetto all'esame clinico.
La manegevolezza dello strumento ha permesso di usarlo a scansione: ogni 2 mesi nel caso di Disturbi Schizofrenici.
Dati
L'esame dei risultati è consistito nel confronto diretto interno dei punteggi del campione, e nel calcolo della differenza statistica dello scarto tra la prima e l'ultima somministrazione, nei due sottogruppi. Per quanto riguarda il gruppo di pazienti trattati con interventi cognitivi sono disponibili i dati in corso di trattamento.
Valutazione sintomatologica BPRS dei gruppi "cognitivo" e "coping" ("g.cogn." e "g.cop." rispettivamente) a 18 mesi confrontati con la valutazione iniziale totale ("Tot.").
ITEM |
0 mesi |
2 mesi |
4 mesi |
6 mesi |
8 mesi |
10 mesi |
12 mesi |
14 mesi |
16 mesi |
18 mesi |
ipocondria |
3,7 |
3,2 |
3,1 |
2,6 |
2,1 |
2,1 |
1,9 |
1,8 |
1,7 |
1,6 |
ansia psichica |
3,8 |
3,4 |
3,1 |
2,7 |
2,2 |
1,9 |
1,8 |
1,5 |
1,4 |
1,1 |
distacco emotivo |
2,1 |
2,0 |
2,0 |
1,9 |
1,4 |
1,4 |
1,3 |
1,0 |
0,9 |
0,8 |
disorganizzazione concettuale |
2,8 |
2,7 |
2,6 |
2,3 |
2,1 |
2,0 |
2,0 |
1,5 |
1,2 |
0,9 |
autosvalutazione e colpa |
3,1 |
2,9 |
2,7 |
2,7 |
2,2 |
2,0 |
1,8 |
1,4 |
1,2 |
1,1 |
ansia somatica |
2,9 |
2,8 |
2,4 |
2,1 |
2,1 |
1,7 |
1,5 |
1,2 |
1,0 |
0,9 |
turbe del comportamento motorio |
2,3 |
2,0 |
1,9 |
1,4 |
1,2 |
0,8 |
0,8 |
0,7 |
0,6 |
0,6 |
esagerata autostima |
3,2 |
3,0 |
2,8 |
2,8 |
2,3 |
2,0 |
1,6 |
1,3 |
1,1 |
1,1 |
umore depresso |
3,4 |
3,4 |
3,3 |
2,6 |
2,3 |
2,3 |
1,0 |
1,9 |
1,7 |
1,5 |
ostilità |
2,4 |
2,1 |
2,0 |
1,7 |
1,6 |
1,4 |
1,0 |
0,7 |
0,5 |
0,4 |
sospettosità |
3,7 |
3,6 |
3,3 |
2,8 |
2,2 |
1,9 |
1,5 |
1,4 |
1,3 |
1,3 |
allucinazioni |
3,7 |
3,6 |
3,1 |
2,9 |
2,7 |
2,2 |
2,0 |
2,0 |
2,0 |
1,9 |
rallentamento psicomotorio |
1,8 |
1,7 |
1,5 |
1,0 |
0,8 |
0,6 |
0,6 |
0,6 |
0,5 |
0,5 |
non cooperatività |
1,9 |
1,8 |
1,4 |
1,2 |
1,0 |
1,0 |
0,8 |
0,5 |
0,5 |
0,4 |
contenuto insolito del pensiero |
3,6 |
3,5 |
3,1 |
2,5 |
2,2 |
2,0 |
2,0 |
1,6 |
1,6 |
1,4 |
appiattimento o inadeguatezza dell'affettività |
2,2 |
2,2 |
2,1 |
1,7 |
1,4 |
1,4 |
1,2 |
1,1 |
1,1 |
1,1 |
agitazione psicomotoria |
1,9 |
1,7 |
1,5 |
1,5 |
1,2 |
1,0 |
0,6 |
0,5 |
0,5 |
0,4 |
disorientamento e confusione |
1,2 |
1,0 |
1,0 |
0,7 |
0,6 |
0,4 |
0,3 |
0,3 |
0,3 |
0,3 |
Valutazioni sintomatologiche BPRS nei soggetti del "gruppo terapia cognitiva" con intervallo di 2 mesi.
Campione
Il campione clinico è costituito da 27 soggetti con diagnosi di Disturbo Schizofrenico all’esame clinico e alla intervista diagnostica MINI 4.4 – DSM IV. Nel campione clinico sono stati distinti due gruppi: un primo gruppo (denominato gruppo di coping o "g.cop.") di 16 pazienti riceveva un trattamento mirato alla riduzione dei sintomi di ansia mediante il rilassamento, il potenziamento delle strategie di coping (secondo Tarrier e coll, 1993; Chadwick e Lowe, 1994; Bentall., 1990; Fowler e coll., 1995), esposizione graduata in vivo. Il secondo gruppo (denominato nelle figure gruppo cognitivo o "g.cogn") riceveva un trattamento cognitivo caratterizzato principalmente da tecniche di ristrutturazione cognitive delle convinzioni associate ai deliri ed alle voci (Chadwick, Lowe, 1994; Bentall, 1990; Chadwick, Birchwood, Trower, 1996; Birchwood, Tarrier, 1994).I soggetti erano selezionati secondo il grado di autonomia personale e sociale al momento della intervista diagnostica. I soggetti inclusi erano caratterizzati da un deficit di autonomia personale e sociale relativamente limitato. La scala-criterio per la selezione e la valutazione del grado di autonomia è stata tratta ed adattata da diversi studi sulla valutazione dei deficit sociali nella schizofrenia (Libermann, 1994).Il campione era composto dal 35% circa di soggetti femmine e dal restante 65% di maschi; l’età corrispondeva ad un range di 22-41 anni; lo stato civile era per il 46% di celibi ed il restante 54 % coniugati; tutti i soggetti avevano ricevuto una valutazione diagnostica psicopatologica mediante colloquio clinico, intervista MINI 4.4, BPRS a scansione, colloquio con i familiari, valutazione della autonomia, e tutti i soggetti erano inquadrati come "disturbo schizofrenico" in trattamento. Tutti i soggetti della ricerca presentavano sintomi positivi e negativi della schizofrenia stabili da almeno un anno, ed erano in trattamento farmacologico costante (lo schema farmacologico prevedeva associati almeno un antipsicotico atipico o tradizionale, un ansiolitico, e un
antidepressivo).
Risultati e Conclusioni
Il campione clinico ha riportato punteggi inferiori statisticamente significativi alla BPRS rispetto alla valutazione iniziale. Dunque, un primo risultato conferma la efficacia del trattamento cognitivo-comportamentale sia in una versione orientata alle strategie di coping sia orientato alla ristrutturazione cognitiva.
Un secondo risultato indica una differenza apprezzabile e statisticamente significativa tra i due gruppi, evidenziando che il gruppo con trattamento cognitivo di ristrutturazione psicologica ha ottenuto un maggior decremento della sintomatologia rispetto al gruppo che riceveva intervento con strategie di coping (verso ansia e sintomi psicotici).Un terzo dato indica che in una valutazione longitudinale, almeno per il gruppo cognitivo, alcuni periodi sono più cruciali di altri (ad esempio, dopo il 6° mese).Un dato ulteriore indica che i trattamenti sono equivalenti solo in relazione ad alcuni sintomi (come riportati dalla BPRS) mentre in altri le differenze sono molto marcate.Lo studio pilota indicherebbe che il trattamento cognitivo-comportamentale è un efficace complemento del trattamento farmacologico, e si attesta come intervento di scelta nella pianificazione generale della terapia delle psicosi.
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Il trattamento efficace nel disturbo di panico e agorafobia in una valutazione comparativa tra psicofarmacologia e trattamento psicoterapico
di Gian Luigi Dell’ErbaIl DSM IV (APA, 1994) permette di porre la diagnosi di disturbo da attacchi di panico con o senza agorafobia, e agorafobia senza panico; l’agorafobia, inoltre, può essere da lieve a grave. Queste categorie possono essere caratterizzati da:
- palpitazioni, cardiopalmo, o tachicardia;
- sudorazione;
- tremori fini o grandi scosse;
- dispnea o sensazione di soffocamento;
- sensazione di asfissia;
- dolore o fastidio al petto;
- nausea o disturbi addominali;
- sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento;
- derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da sè stessi);
- paura di perdere il controllo o di impazzire;
- paura di morire;
- paraestesie (sensazioni di torpore o di formicolio) brividi o vampate di calore;
- ansia relativa all’essere in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile allontanarsi o ricevere aiuto.
Le caratteristiche del disturbo di panico e quelle della agorafobia sembrano chiaramente collegate in un continuo temporale dato che la quasi totalità dei soggetti che sviluppa un disturbo di panico, e la cui sintomatologia è persistente sviluppa poi un quadro agorafobico; viceversa la maggior parte dei soggetti che evidenziano una sintomatologia agorafobica ha avuto pregressi episodi di panico che poi possono essere eventualmente regrediti o diminuiti in base alla presenza di comportamenti di evitamento più o meno generalizzati.
Tra i trattamenti che hanno dimostrato una efficacia evidente nel trattamento del disturbo complessivo vi è l’uso dei farmaci SSRI, l’impiego dell’alprazolam, e il trattamento cognitivo-comportamentale (Barlow, Durand, 1998). In letteratura sono presenti studi comparativi sulla efficacia concorrente tra queste soluzioni terapeutiche (Bergin, Garfield, 1994).
Obiettivi della ricerca
Al fine di studiare il confronto tra trattamenti farmacologici efficaci, come l’uso di SSRI e alprazolam, e trattamenti psicoterapici efficaci, come il trattamento cognitivo-comportamentale, si è definito un disegno di ricerca o studio pilota che prendesse in esame in un periodo definito, 8 mesi, i risultati delle soluzioni terapeutiche.
Strumenti
Per valutare la efficacia dei trattamenti e per studiare l’andamento delle condizioni dei soggetti si è scelto un questionario autovalutativo sintomatologico, il SCL90r di L.R. Derogatis con alcune modifiche nella graduazione degli items e nella definizione metrica della scala dei singoli fattori (Dell’Erba, 1998). Il test consiste di 90 items sintomatologici raggruppati nelle seguenti scale primarie: Somatizzazione, Ossessioni, Sensitività, Depressione, Ansia, Ostilità, Ansia Fobica, Ideazione Paranoidea, Psicoticismo; sono presenti anche alcune scale aggiuntive che ne aumentano il contributo valutativo, ma che però non state prese in considerazione per gli scopi del presente studio.
Campione
I 113 soggetti della ricerca sono stati suddivisi in due gruppi. Un primo gruppo di 49 soggetti effettuava un trattamento cognitivo specifico per gli attacchi di panico e agorafobia (Clark, 1986, 1991, 1996; Dell’Erba, 1998; Barlow, 1998). Il secondo gruppo oltre ad effettuare il trattamento psicoterapico assumeva una terapia farmacologica con SSRI ed alprazolam. La valutazione è stata iniziale, intermedia e finale dopo 8 mesi di trattamento.
Caratteristiche del trattamento standard per il panico
Il trattamento è strutturato in modo da affrontare 4 obiettivi principali: a) esposizione graduale "in vivo"; b) ri-etichettamento delle sensazioni somatiche; c) rilassamento e respirazione addominale frazionata; d) ristrutturazione cognitiva delle assunzioni disfunzionali. Ognuno degli obiettivi è stato trattato come parte a sè, naturalmente discutendo con il paziente le integrazioni e le interrelazioni tra ciascun obiettivo con gli altri.
Esposizione in vivo La tecnica della esposizione è notoriamente efficace nella riduzione dell’ansia associata a situazioni ben identificate come fobie specifiche, agorafobia, ansia sociale (Barlow D.H. et al., 1988, 1989; Clark, 1986, 1991; 1991; Clark D.M., Salkovskis P.M. 1991; Sanavio, 1994). La procedura di esposizione si pone l’obiettivo di permettere al paziente di percepire e valutare in modo "controllato" l’oggetto della propria paura. Questo metodo, se graduale, consente al paziente di riappropriarsi di quelle funzionalità sociali e quotidiane che ha perso a causa dei rilevanti evitamenti dovuti ai sintomi acuti dell’ansia ed alla sindrome di ansia anticipatoria. Se ben disegnata, la modalità di esposizione permette una rapida ripresa e confidenza di abilità che sono state sospese, ed in qualche caso dimenticate. Nel progettare ed effettuare le esposizioni deve essere ben spiegato il significato di tali procedure e quindi ricercare la piena collaborazione del paziente ed eventualmente di un suo familiare.
Ri-etichettamento delle sensazioni somatiche La discussione concreta sulla natura di diverse sensazioni favorisce una categorizzazione ed una più realistica adesione ad un modello dei sintomi di ansia come effetti della sindrome da stress. La possibilità di discutere con il paziente delle cause dei singoli sintomi, con eventuali esempi anche calibrati sulle comuni esperienze della vita quotidiana ha la funzione di normalizzare e "decatastrofizzare" la condizione soggettiva del paziente. All’intervento sulla interpretazione delle sensazioni somatiche è collegato un intervento di psicoeducazione sul funzionamento della sindrome da stress, sulla fisiologia dei sintomi, e sulla spiegazione delle principali sensazioni di attivazione (Barlow D.H. et al., 1988, 1989; Clark, 1986, 1991; 1991, 1996; Clark D.M., Salkovskis P.M. 1991; Salkovskis P.M., Clark D., Gelder M.G.,1996; Beck A.T., Emery G., 1985).
Rilassamento e respirazione addominale Le tecniche di rilassamento e di educazione respiratoria hanno la funzione duplice di essere sia uno strumento "sotto controllo" del paziente, il quale può contarci nelle situazioni quotidiane più diverse, sia un metodi per bloccare o inibire la tendenza ad iperventilare e quindi a produrre i sintomi caratteristici che il paziente interpreta come l’imminente attacco di panico (Bonn J.A., Readhead C.P. A., Timmons B.H. , 1984; Clark D.M., Salkovskis P.M., Chalkley A.J., 1985).
Ristrutturazione cognitiva Il paziente deve essere preparato ed allenato a riconoscere i propri pensieri automatici e spontanei, i quali possono essere molto rapidi ed istantanei e possono non lasciare più traccia in memoria; l’allenamento nel percepire i propri pensieri ed i propri atteggiamenti è molto importante in quanto attraverso questa procedura il paziente si rende consapevole di come effettivamente modifica il proprio stato emotivo Beck, Emery, 1985; Clark, 1986, 1991; Mancini, 1996; Freeman et al, 1990) . Da tale abilità deriva anche il successivo lavoro di revisione e modificazione delle assunzioni generali del paziente. Il lavoro di riconoscimento e ricostruzione degli schemi disfunzionali (solitamente, gli schemi più usuali e frequenti che vengono elaborati da questi pazienti fanno riferimento a tipologie come "vulnerabilità", "fragilità", "mancanza di autonomia", "oppressione", "incapacità di controllo personale", "insopportazione - scarsa tolleranza alla frustrazione", "perfezionismo", "elevati standards") è la chiave del lavoro a più lungo termine, ed in genere la parte più impegnativa del trattamento (Lorenzini, Sassaroli, 1995; Bara, 1996; Guidano, 1988; Reda, 1986). Il paziente prende coscienza di come ha costruito certi settori della propria esperienza e delle spiegazioni e teorie personali che utilizza per darsi un significato. Attraverso il lavoro sulle assunzioni disfunzionali il paziente modifica i propri schemi a favore di spiegazioni alternative più realistiche, adattive e concrete.
Risultati
I risultati della valutazione sintomatologica evidenziano una sostanziale equivalenza tra i due trattamenti in un periodo di 8 mesi. Alcune differenze apprezzabili clinicamente oltre che metricamente riguardano i fattori di Depressione, Ansia, Ansia Fobica; in sostanza, i due gruppi evidenziano alcune differenze, in questi fattori sintomatologici, in una valutazione a 4 mesi di trattamento.
Il I° gruppo che effettuava un trattamento cognitivo-comportamentale specifico presentava un punteggio inferiore nei sintomi di Ansia generale, mentre il II° gruppo che assumeva anche farmaci manifestava un decremento maggiore nei sintomi di Ansia Fobica e Depressione. Questa differenza potrebbe essere spiegata facendo riferimento all’azione specifica dei farmaci, ed in particolare di un effetto più rapido nel miglioramento del tono dell’umore, e nella regolazione attenuata di alcune sensazioni somatiche che costituirebbero il target attenzionale specifico dei soggetti con disturbo da panico; in sostanza, i soggetti che giovano di una attenuazione di alcune specifiche sensazioni delle quali sono allarmati e preoccupati evidenzierebbero un decremento maggiore rispetto ai soggetti che sarebbero più esposti alle sensazioni sulle quali hanno un atteggiamento attenzionale allarmato e che costituiscono lo stimolo per cognizioni catastrofiche.
In una valutazione a 8 mesi i due gruppi sono invece pressoché identici, e manifestano un miglioramento equivalente.
Un dato che si è evidenziato nello studio, e che non è evidente nella valutazione psicometrica, è quello dei soggetti che hanno interrotto il trattamento, in particolare nel gruppo I°, non entrando nel campione che è stato valutato a 4 o a 8 mesi. Questi soggetti hanno abbandonato il trattamento abbastanza precocemente e hanno evidenziato uno scarso miglioramento nei primi 4 mesi. Dunque, alcuni dati su tale fenomenologia clinica riguardante i soggetti "no responders" al trattamento specifico evidenzierebbero che tali soggetti presenterebbero i seguenti "markers":
Per tali soggetti il trattamento cognitivo-comportamentale specifico non sembra adeguato, ma è possibile ipotizzare che altre forme di soluzione terapeutica possano essere la scelta più opportuna e mirata come un trattamento psicoterapico prolungato e una terapia psicofarmacologica più aderente alle specifiche manifestazioni del singolo caso.
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Le caratteristiche di base della Psicoterapia Cognitiva.
di Gian Luigi Dell’Erba
Riassunto
La terapia cognitiva si pone attualmente come una delle modalità maggiormente accreditate e valide nel panorama delle psicoterapie. Il suo sviluppo e le diverse influenze che nel corso degli anni la hanno caratterizzata rendono ancora più chiaro ed esplicito il carattere pragmatico e disponibile alle ricerche di efficacia. Le diverse componenti della terapia cognitiva, oggi, la rendono una pratica complessa seppure chiaramente ben definibile, ed è questo aspetto che ha contribuito allo sviluppo e alla moltiplicazione degli studi e delle ricerche in campo clinico. Viene messo in risalto il modello di base comune ai vari approcci cognitivi noto come modello ABC. Il sistema di assunti su cui si basano le diverse applicazioni è ampiamente supportato dalla ricerca sperimentale, ed è possibile affermare che la terapia cognitiva costituisce la più avanzata forma di psicoterapia supportata dalle ricerche. L’ampio panorama di tecniche sia propriamente cognitive che comportamentali testimonia la integrazione di un vasto e prezioso patrimonio di efficaci metodi clinici che hanno avuto nel corso degli anni riscontri ciascuna indipendentemente. E’ data particolare attenzione, inoltre, alla relazione terapeutica considerata come una componente primaria del processo terapeutico, non in modo disgiunto dalla applicazione delle tecniche.La Psicoterapia Cognitiva è oggi il trattamento psicologico ritenuto più efficace nel settore della psicoterapia, per una ampia gamma di disturbi psichici, e comunque in determinati casi non è inferiore a trattamenti alternativi pur efficaci (ad esempio, farmacologici); inoltre, anche in presenza di disturbi ad eziologia biologica primaria (come la schizofrenia o il disturbo bipolare, solo per fare degli esempi) la Psicoterapia Cognitiva si è dimostrata la componente accessoria più valida ed efficace nel trattamento complessivo, sia nella fase di risoluzione dei sintomi che nella prevenzione delle ricadute e nel mantenimento dei risultati positivi.Il trattamento psicoterapico cognitivista ha una sua evoluzione storica in un certo senso complessa ma il suo sviluppo riflette molto bene il progresso della conoscenza del funzionamento della mente, sia nell’ambito della normalità che in stati psicopatologici.
Introduzione
La psicoterapia cognitiva non ha una paternità unica. Essa deriva da direttrici, sia epistemologiche sia tecniche, diverse ma confluenti in un univoco atteggiamento nei confronti del suo oggetto principale di interesse: la mente. Per brevità, tracceremo due direttrici principali: l’una derivante dalla ricerca di base, e l’altra sviluppata a partire dei trattamenti clinici.In un aspetto più tipico delle discipline di base, possiamo delineare il retroterra dell’atteggiamento cognitivista clinico sulla base di un netto ed ancora formidabilmente valido cambiamento nella comprensione del fenomeno mentale e delle relative ricerche sulle caratteristiche del funzionamento della psicologia e del comportamento. Questo cambiamento di prospettiva e di interessi, noto come "rivoluzione cognitiva", è avvenuto a partire da alcune svolte importanti nel panorama scientifico durante la metà degli anni quaranta e negli anni cinquanta (Gardner H, 1985).Una delle novità scientifiche è stata la Teoria della Comunicazione che, avviata dal punto di vista formale e matematico principalmente ad opera di Claude Shannon e di Norbert Wiener, ha rappresentato la piattaforma teorica dalla quale sono state sviluppate sia tecnologie avanzate, come i computers, sia prospettive di applicazione nuove e promettenti, come lo studio della elaborazione del linguaggio.Un’altra svolta decisiva, legata strettamente alla precedente, è la tipologia stessa delle tecnologie sviluppate; infatti gli stessi computers, molto più semplificati e più rigidamente formalizzati nel loro processo di funzionamento, hanno svolto il ruolo di "banco di prova" per lo studio dei processi di funzionamento della mente, che iniziano in questo periodo ad essere indicati come "paradigma HIP" (Human Information Processing) proprio testimoniando lo spostamento dell’interesse dallo studio delle occorrenze sensibili a quello delle variabili intervenienti interne all’organismo, dunque i processi mentali.Una ulteriore svolta, questa volta interna alla psicologia, è stata quella costituita dalla critica alla validità generale (o più esattamente assoluta) dei paradigmi di spiegazione dell’apprendimento in quel momento considerati come la sola risposta attendibile della scienza sull’argomento: l’acquisizione di comportamento (la teoria dei riflessi condizionati di Pavlov) e il mantenimento delle risposte (la teoria del condizionamento operante di Skinner). Il mutamento di tale panorama è stato caratterizzato da un duplice fronte polemico di confronto. Il primo, e più graduale, cambiamento è stato caratterizzato dalle ricerche sull’apprendimento indiretto o per imitazione (conosciuto come "modeling") ad opera di Albert Bandura; il secondo, e più duro in termini di confronto, è avvenuto nel campo della comprensione dei processi linguistici ad opera, principalmente, di Noam Chomsky. Queste due "perturbazioni" scientifiche sono state tra le principali variabili di trasformazione e rinnovamento nel generale impianto teorico delle discipline attinenti alla condotta umana (e non solo).In questo periodo, ormai la fine degli anni cinquanta, abbiamo un proliferare di ricerche sui costituenti di base della mente; si realizzano esperimenti volti a configurare i processi psicologici come meccanismi di funzionamento aventi delle leggi definite e delle caratteristiche distintive. Quindi, esplodono campi di indagine che per molto tempo si erano arenati su alcune pur importanti conclusioni; tra questi settori troviamo: la memoria, il linguaggio, la percezione, il ragionamento. Sull’onda dell’entusiasmo, per aver visto una nuova prospettiva promettente, vengono delineate alcune leggi e regole di funzionamento che a tutt’oggi mantengono la loro quasi inalterata validità scientifica.La seconda direttrice fondamentale nello sviluppo della Psicoterapia Cognitiva è stata l’evoluzione delle procedure nel trattamento di alcuni disturbi mentali.Mentre nel settore delle discipline di base il linguaggio teorico era strettamente aderente al metodo scientifico empirista, prima verificazionista ed in seguito falsificazionista come formulato da Karl R. Popper, nelle discipline cliniche vi era un vivace dibattito tra almeno tre posizioni. Una prima ed importante posizione è stata l’atteggiamento organicista basato sugli sviluppi sempre più sofisticati della psicofarmacologia, sulla depressione e sulle psicosi; una seconda voce polemica è stata, senza dubbio, la psicanalisi di Freud e dei suoi allievi la quale, straordinariamente in auge, contribuiva alla comprensione e quindi al trattamento dei disturbi mentali sulla base del suo metodo, principalmente basato sulla ricostruzione della storia del soggetto e delle sue vicissitudini affettive; la terza posizione era l’applicazione delle teorie del condizionamento (sia classico-pavloviano che operante-skinneriano) al trattamento dei disturbi del comportamento.In questo scenario prende corpo il trattamento cognitivo, principalmente, ad opera di Aaron T. Beck ed Albert Ellis. Entrambi provenienti da formazioni psicanalitiche, l’uno psichiatra con una salda conoscenza del funzionamento biologico cerebrale, l’altro psicologo con una spiccata conoscenza dei processi relazionali.Beck, occupandosi della depressione, individua due caratteristiche inequivocabilmente cognitive nei suoi pazienti (in controtendenza con la psicanalisi, la quale puntualizzava soprattutto le relazioni affettive infantili e le relative conseguenze di esse): il pensiero automatico negativo, e le distorsioni cognitive. Da queste scoperte importanti, oggi centrali e riconosciute ampiamente, nasce la Cognitive Therapy.Ellis, invece, occupandosi di problemi comportamentali e di disturbi psicologici come l’ansia, evidenzia che nell’atteggiamento dei pazienti erano evidenti idee e regole non realistiche ed "irrazionali"; il focus del trattamento diventa l’attuale atteggiamento rigido ed assolutista del paziente e non la ricerca di cause nel suo passato. Da questa rottura teorica, oltre che tecnica, nasce la Rational Emotive Therapy.Sia Ellis che Beck possono essere definiti come i fondatori della Psicoterapia Cognitiva, ma altri autori come, solo ad esempio, Meichenbaum, Mahoney, Rachman, Kendall, approdano alla Psicoterapia Cognitiva, più recentenmente da una direzione teorico-tecnica differente, e caratterizzata dall’adeguamento del trattamento comportamentale fondato sulla teoria del condizionamento alla scoperta delle variabili del funzionamento cognitivo indicate dalla ricerca di base.Successivamente la Psicoterapia Cognitiva ha integrato i risultati di ricerche sullo stile di relazione precoce tra le figure di attaccamento e il bambino; da tali relazioni sono stati identificati alcuni stili generali di attaccamento che sembrano influenzare e stimolare il soggetto verso modalità di sviluppo psicologico coerenti con le esperienze avute (Bowlby, 1989; Guidano, Liotti, 1983; Liotti, 1994; Lorenzini, Sassaroli, 1995).A partire da tali concettualizzazioni il cognitivismo clinico è definito da più prospettive secondo il particolare aspetto ritenuto di volta in volta centrale dai diversi autori.Attualmente, almeno nelle più diffuse pubblicazioni internazionali, è in corso il confronto tra cognitivismo clinico standard (modernist, nell’accezione anglosassone) e orientamento post-razionalista (post-modernist, sempre dall’inglese) o prospettiva narrativa. Le sorti di tale confronto sembrano destinate ad una integrazione sia sulla base dei punti comuni sia sul riconoscimento dell’aderenza alle ricerche di base (sui processi di funzionamento mentale e sulle variabili di efficacia del trattamento).
Caratteristiche generali
Il modello ABC
La Psicoterapia Cognitiva non è una metodologia coincidente con l’uso di una tecnica né è un trattamento univoco ma si definisce e si caratterizza sulla base di una prospettiva centrale riguardo la psicologia ed il comportamento, che potremmo racchiudere nella seguente proposizione: la condotta del soggetto è mediata dal significato che egli attribuisce agli eventi interni ed esterni con i quali si mette in relazione.La sintesi più operativa della prospettiva cognitivistica clinica può essere rintracciata nel "modello A-B-C".Il "modello A-B-C", ben descritto nei lavori di Ellis (primariamente) e Beck (in seguito), è la caratteristica sia teorica sia tecnica che funge da "minimo comune denominatore" dei diversi trattamenti cognitivistici.Il modello ABC non solo è uno schema teorico utile per concettualizzare le variabili fondamentali connesse alla condotta dell’individuo ma è anche una procedura tramite la quale può essere concretamente attuata una valutazione, una formulazione del caso, una sua pianificazione, ed un trattamento.L’ABC può essere immaginato come uno schema a tre colonne, la prima delle quali, A, identifica le condizioni antecedenti, gli stimoli, gli eventi. Il B indica le credenze, il pensiero, il ragionamento, le attività mentali che hanno come oggetto gli antecedenti. Il C definisce le conseguenze di queste attività mentali ed identifica reazioni emotive e comportamentali (Ellis, 1964, 1994, 1987; De Silvestri 1981a; Dell’Erba, 1998).L’aspetto centrale dell’interesse cognitivista per il funzionamento mentale riguarda la distinzione delle attività e dei processi cognitivi rappresentati e focalizzati dal B; classicamente sono prese in considerazione le seguenti attività psichiche: immagini, inferenze, valutazioni, assunzioni personali, schemi.Le immagini, che sono attività dove le funzioni sensoriali e mnestiche svolgono un ruolo fondamentale, sono prese in considerazione in quanto parte integrante delle rappresentazioni soggettive riguardanti la interpretazione di un dato evento. Le immagini riflettono direttamente il senso attribuito dal soggetto ad un dato evento ed il contributo dei processi di elaborazione più automatici (regole, assunzioni personali, inferenze).Le inferenze sono ipotesi che attengono alla presenza o assenza di condizioni fattuali, cioè di eventi attesi nel A. Alcune inferenze sono elaborate in modo quasi-automatico, e quindi il soggetto non ne è immediatamente cosciente, tanto che Beck le ha definite "pensieri automatici". Le inferenze sono, dunque, anche "predizioni" su ciò che accadrà, stà accadendo o è accaduto; ad ogni evento il soggetto attribuisce delle caratteristiche e delle cause, ma tali attribuzioni sono guidate dalla propria base conoscitiva.Proprio riguardo ai processi inferenziali sono state definite varie tipologie di errori inferenziali che possono riguardare sia le caratteristiche dello stimolo sia le sue determinanti. Alcuni errori cognitivi tipicamente considerati nella Psicoterapia Cognitiva sono le "distorsioni cognitive" che riguardano il processo di elaborazione dei dati (eventi, fatti, sintomi, pensieri), e attengono alla attribuzione soggettiva di dati che "vanno oltre l’evidenza dei fatti" (Bruner et al., 1956; Johnson Laird, 1993; Girotto, 1994). Come ha evidenziato Beck (Beck et al., 1976; Alford, Beck, 1997), le distorsioni cognitive sono influenzate dall’umore ma, a loro volta, lo influenzano intensamente. Tali errori cognitivi, così come definiti dalla Cognitive Therapy di Beck, sono i seguenti:
Pensiero dicotomico: le cose sono viste in termini di categorie mutualmente escludentisi senza gradi intermedi. Ad esempio, una situazione o è un successo oppure è un fallimento; se una situazione non è proprio perfetta allora è un completo fallimento. ("o tutto o nulla").
Ipergeneralizzazione: anche definito come "globalizzazione"; uno specifico evento è visto come essere caratteristica di vita in generale o globale piuttosto che come essere un evento tra tanti. Ad esempio, concludere che se qualcuno ha mostrato un atteggiamento negativo in una occasione, non considera poi le altre situazioni in cui ha avuto atteggiamenti più opportuni. ("di tutta l’erba un fascio").
Astrazione selettiva: Un solo aspetto di una situazione complessa è il focus dell’attenzione, a altri aspetti rilevanti della situazione sono ignorati. Ad esempio, focalizzare un commento negativo in un giudizio sul proprio lavoro trascurando altri commenti positivi. ("bicchiere mezzo vuoto").
Squalificare il lato positivo: le esperienze positive che sono in contrasto con la visione negativa sono trascurate sostenendo che non contano. Ad esempio, non credere ai commenti positivi degli amici e colleghi dubitando che dicano ciò solo per gentilezza. ("ciò non conta nulla, conta di più ... ").
Lettura del pensiero: un soggetto può sostenere che altri individui stiano formulando giudizi negativi ma senza alcuna prova evidente di ciò che afferma. Ad esempio, affermare di sapere che l’altro ci giudica male anche contro la rassicurazione di quest’ultimo. ("ti ho già capito").
Riferimento al destino:: l’individuo reagisce come se le proprie aspettative negative sugli eventi futuri siano fatti già stabiliti. Ad esempio, il pensare che qualcuno lo abbandonerà, e che lo sa già, e agisce come se ciò fosse vero. ("lo so già"). Insieme al precedente formano il "salto alle conclusioni", cioè il caso esemplare di inferenza arbitraria.
Catastrofizzare:: gli eventi negativi che possono verificarsi sono trattati come intollerabili catastrofi piuttosto che essere visti in una prospettiva più pratica e moderata. Ad esempio, il disperarsi dopo un brutta figura come se fosse una catastrofe terribile e non come una situazione semplicemente imbarazzante e spiacevole. ("è terribile se...).
Minimizzazione:: le esperienze e le situazioni positive sono trattate come reali ma insignificanti. Ad esempio, il pensare che in una cosa si è positivi ma che essa non conta in confronto ad un’altra più importante. ("niente conta veramente di quello che faccio").
Ragionamento emotivo:: considerare le reazioni emotive come reazioni strettamente attendibili della situazione reale. Ad esempio, concludere che siccome ci si sente sfiduciati, la situazione è senza speranza. ("se mi sento così allora è vero").
Doverizzazioni::l’uso di "dovrei", "devo", "bisogna", si deve", segnala la presenza di un atteggiamento rigido e tendente alla confusione tra "pretendere" e "desiderare", e ciò è in diretta connessione con regole personali. Ad esempio, il pensare che un amico deve stimarci, perchè bisogna stimare gli amici. ("devo ...", "si dovrebbe ...", "gli altri devono ...").
Etichettamento:: identificare qualcuno tramite una etichetta globale piuttosto che riferirsi a specifici eventi o azioni. Ad esempio, il pensare che si è un fallimento piuttosto che si è inadatti a fare una certa cosa. ("è un .....").
Personalizzazione: assumere che il soggetto stesso è la causa di un particolare evento quando nei fatti, sono responsabili altri fattori. Ad esempio, considerare che una momentanea assenza di amicizie è il riflesso della propria inadeguatezza piuttosto che un caso. ("è colpa mia se...").
Tali errori cognitivi non sono tipici di un disturbo psicologico ma sono invece diffusi e caratteristici nel funzionamento mentale normale. L’aspetto disfunzionale è determinato dalla compresenza di più errori, dalla frequenza di comparsa e dal grado in cui tali procedure sostituiscono il ragionamento realistico e funzionale del soggetto. In sintesi, le distorsioni cognitive sono euristiche di ragionamento che svolgono una funzione adattiva in situazioni di emergenza e, probabilmente, non più adeguate allo stile di vita contemporaneo (essendo modalità automatiche possono in qualche modo essere state sviluppate evoluzionisticamente, ma attualmente potrebbero essere un esempio di "deriva evoluzionistica").Vari autori hanno approfondito le modalità di ragionamento in condizioni di incertezza (Tversky, Kahneman, 1974; Kanheman, Slovic, Tversky., 1982; Piattelli Palmarini, 1994; Nisbett, Ross, 1980; Dell’Erba, 1998c), e tali condizioni sarebbero centrali in stati di attivazione dei soggetti (stress, condizioni cliniche, ...). Dalle diverse ricerche nel campo della influenza di variabili contestuali, o di fattori emotivi, sul ragionamento emergono diverse tipologie di biases cognitivi, spesso dipendenti dallo specifico obiettivo della ricerca; il minimo comune denominatore di tali errori cognitivi sembra essere la seguente schematizzazione: generalizzazione di informazioni, eliminazione di informazioni, distorsione di informazioni. Ciascuna di queste categorie raggruppa vari tipi di errori cognitivi, definiti dalle ricerche in psicologia generale sia in ricerche nel campo clinico.Le valutazioni possono essere definite come giudizi (buono-cattivo, OK-non OK) o preferenze. I soggetti formulano delle valutazioni sia sulla base di processi inferenziali sia5 in base all’uso di conoscenze possedute, e dunque i giudizi e le preferenze dei soggetti possono essere influenzate sia da errori cognitivi di processazione dell’informazione sia da osservazioni personali (ad esempio, teorie e modelli di spiegazione soggettivi).Un aspetto principale, teorico e tecnico, è il ruolo rivestito dalla teoria attribuzionale (ad esempio, Heider, Rotter, Seligman) nell’impianto della Psicoterapia Cognitiva. Le inferenze e le valutazioni, rispetto alle determinanti o alle caratteristiche degli eventi, possono essere identificate da 3 fattori. L’attribuzione causale può riguardare la distinzione tra globalità e specificità a seconda che il fattore causale sia riferito a variabili generali o strettamente particolari: ad esempio, criticarsi per un difetto particolare (specificità) oppure criticarsi come persona (globalità). Le attribuzioni sulla causalità possono anche riguardare le variabili stabilità e temporaneità: ad esempio, giudicare una caratteristica altrui come temporanea piuttosto che stabile. I processi attributivi riguardano, altresì, le caratteristiche di internalizzazione (o personalizzazione) e esternalizzazione: ad esempio, giudicarsi meritevoli per un successo proprio (giudizio interno) ma giudicare non meritevole un’altra persona attribuendo il suo successo al caso o alla fortuna (giudizio esterno). Queste tre variabili bipolari rappresentano i fattori costitutivi delle decisioni sui processi causali ma, ovviamente, costituiscono anche le variabili di distorsione di giudizi ed inferenze su quelle stesse attribuzioni.Dunque, la Psicoterapia Cognitiva ha pienamente applicato questi meccanismi di attribuzione e decisione per modificare le convinzioni e le conoscenze disfunzionali del paziente. Vale la pena ricordare che uno dei modelli più celebri nella concettualizzazione della psicologia depressiva è proprio la teoria attribuzionale che identifica nel paziente giudizi negativi su sé, interni, stabili e globali (Beck, Freeman, 1990; Seligman, 1990, Seligman. Rosenhan, 1997).Un ulteriore punto è quello riguardante le valutazioni di stati emotivi. Gli individui spesso sono coinvolti in problemi psicologici dovuti al fatto di avere certi problemi; questa condizione viene definita come problema secondario e dipende da valutazioni formulate su valutazioni, emozioni, comportamenti, o qualsiasi altro stato del soggetto. <<Alla base di alcuni di questi stati psicologici vi è il fatto che gli esseri umani non soltanto possono procurarsi un problema (che possiamo chiamare problema primario) ma quando si accorgono e valutano questa condizione possono crearsi un altro problema (che chiamiamo problema secondario); questo tipo di stati psicologici, relativamente frequenti nelle condizioni cliniche, possono complicare e mantenere notevolmente il quadro psicopatologico (De Silvestri, 1981a, 1981b; Mancini, 1996; Dell’Erba, 1998a).>> (Dell’Erba, 1998b).Le assunzioni personali sono regole e principi fondamentali che guidano il comportamento e che sono formulate nel corso della propria esistenza. Più le assunzioni sono precoci e più sono pervasive e stabili, in quanto varie credenze si collegano tra loro in reti di conoscenza che possono avere temi esistenziali generali comuni o specifici episodi soggettivamente rilevanti. Le assunzioni personali sono atteggiamenti specifici riguardo una varietà di eventi o temi che riguardano il soggetto (o più esattamente, temi che il soggetto sostiene che lo riguardino). Ellis (1962, 1987) ha individuato una lista di atteggiamenti o idee irrazionali che riguardano le regole che il soggetto si dà e le relazioni che egli intraprende con gli altri o con il mondo esterno o con sé stesso. Questa lista può ben essere ricondotta ad alcuni principali atteggiamenti:
- doverizzazioni
- giudizi totali su di sé e su gli altri
- insopportabilità e intolleranza
- catastrofizzazione
- indispensabilità e bisogni assoluti.
Tali atteggiamenti sono ulteriormente definibili, secondo Ellis (1962, 1987, 1994), a tre doverizzazioni di base:
- doverizzazioni su sé stessi ("io devo assolutamente... altrimenti... e quindi...");
- doverizzazioni sugli altri ("gli altri devono trattarmi in modo .... e devono essere ... altrimenti ... e allora .... ");
- doverizzazioni sulle condizioni di vita ("le cose che succedono devono essere come io le pretendo ... altrimenti ... e quindi tutto sarà ingiusto o insopportabile").
Questi atteggiamenti sono appresi durante lo sviluppo del soggetto e sono particolarmente resistenti principalmente in base a due fattori generali: la generalità di applicazione di un atteggiamento, e la automaticità di formulazione della specifica regola nella particolare situazione.Gli schemi costituiscono l’attività meno consapevole delle attività mentali (con l’esclusione dei processi mentali delle funzioni cognitive di base, come memoria, percezione, attenzione, apprendimento, ...). L’uso di tale termine deriva dalla psicologia generale (con Bartlett) ma attualmente si ritrova nella storiografia clinica l’uso diffuso di tale concetto in diversi autori precedentemente alla elaborazione di Bartlett del 1932 (ad esempio, Adler nel 1929).La modificazione degli schemi è l’obiettivo comune di tutti gli approcci cognitivistici clinici , ed è lo stadio più impegnativo della Psicoterapia Cognitiva.Gli schemi, secondo il modello della psicologia cognitivista, guidano o interferiscono sulla elaborazione di informazioni attraverso un uso selettivo dei dati in arrivo; questa caratteristica può essere così generale da limitare soggetto stesso nella propria autoconoscenza. Il problema alla base è che il soggetto non è pienamente consapevole delle proprie teorie personali, costruite a partire da stadi precoci della propria vita, ma può essere consapevole sia della propria condotta attuale sia di valutazioni, giudizi ed inferenze (semplici, ma non seriali o concatenate); tale possibilità data dalla propria attività mentale cosciente è sufficiente per ricostruire o ri-attribuire significati generali che possano spiegare dati, evidenze, ricordi, e modalità di scelta del soggettoIl fine del trattamento psicologico cognitivista è permettere al soggetto di esaminare la modalità con cui costruisce e comprende il mondo (cognizioni ed attività mentali in genere) e sperimentare nuovi modi di attribuire significati e attivare condotte orientate. Attraverso l’apprendimento dei modi tipici e personali di dare un senso a ciò che avviene, scegliere i propri scopi, definire i propri progetti, il paziente può essere in grado di modificare costrutti e significati non adeguati e ri-orientare i propri scopi e progetti generali per fronteggiare in modo più soddisfacente le proprie relazioni con il mondo e con le persone (Beck, Freeman, 1990; Young, 1994; Guidano, 1988; Guidano, Liotti, 1983).
Gli Assiomi del Modello
La teoria cognitiva articola il modo in cui i processi cognitivi sono implicati nella psicopatologia e nella psicoterapia efficace. Sebbene sia conosciuto ampiamente il modello "biopsicosociale" come un sistema concettuale complesso, il focus della teoria cognitiva è primariamente sui fattori cognitivi nella psicopatologia e nella psicoterapia. Inoltre, i concetti cognitivi completano (e possono anche sussumere) costrutti come "motivazione inconscia" nella teoria psicanalitica, e "rinforzo" o "condizionamento" nel comportamentismo.Nella teoria della terapia cognitiva, la natura e la funzione della elaborazione dell’informazione (ad es., l’attribuzione di significato) costituisce la chiave per comprendere il comportamento disfunzionale e il processo terapeutico positivo.La teoria cognitiva della psicopatologia delinea specificatamente la natura dei concetti e delle credenze soggettive le quali, quando attivate in certe situazioni, sono disadattive e disfunzionali. Tali concettualizzazioni idiosincratiche (ad es. credenze irrazionali, giudizi arbitrari, inferenze scorrette, pregiudizi, convinzioni negative personali) possono anche essere considerate come teorie personali informali. La concettualizzazione cognitiva della psicoterapia fornisce strategie per correggere tali concetti e credenze. Perciò, il quadro teorico della terapia cognitiva costituisce una "teoria di teorie"; essa è una teoria formale degli effetti di teorie personali (informali) o costruzioni di realtà.A tale riguardo, la teoria cognitiva clinica è debitrice in una certa parte alla teoria di George Kelly, cioè il modello dei costrutti personali (Kelly, 1955).La Teoria è essenziale alla pratica clinica. E’ stato recentemente affermato che la teoria cognitiva costituisce una teoria unificatrice per la psicoterapia e la psicopatologia (Alford, Beck, 1997; Norcross, Goldfried, 1992; Beck, 1996). Il quadro teorico delle terapie efficaci dovrebbe ordinare i comportamenti terapeutici (del trattamento) e le variabili psicologiche rilevanti in un sistema di psicoterapia, e costituisce un modello coerente per la pratica clinica generale (Dell’Erba, 1997).Gli assiomi del modello sottostante alla Psicoterapia Cognitiva sono i seguenti:
1) La direzione centrale per il funzionamento psicologico o per l’adattamento psicologico consiste di strutture cognitive che assegnano un significato (meaning-making), denominate "schemi". "Significato" si riferisce all’interpretazione dell’individuo di un dato contesto e delle relazioni con quel contesto con il proprio sé (focus organizzatore della mente).
2) La funzione di "attribuzione di significato" (sia automatica sia ad un livello deliberato ed intenzionale) è di controllare i vari sistemi psicologici (ad esempio, comportamentale, emotivo, attentivo, mnestico). Perciò, il significato attiva delle strategie per l’adattamento.
3) Le influenze tra i sistemi cognitivi ed altri sistemi sono interattive.
4) Ogni categoria di significato ha implicazioni che sono tradotte in specifici patterns di emozioni, attenzione, memoria, comportamento. Ciò è denominato "specificità cognitiva di contenuto".
5) Sebbene i significati sono costruiti dal soggetto, piuttosto che essere preesistenti componenti della realtà, essi sono corretti o scorretti in relazione a dati contesti o scopi del soggetto. Quando distorsioni cognitive o biases avvengono, i significati sono disfunzionali o disadattivi (in termini di attivazione di sistemi). Le distorsioni cognitive includono errori nel contenuto cognitivo (significato), nella processazione ed elaborazione cognitiva (elaborazione di significati), o entrambi.
6) Gli individui sono predisposti a specifiche costruzioni cognitive fallaci (distorsioni cognitive) che possono avere un senso nella elaborazione routinaria ed economica delle informazioni nella vita del soggetto, e possono essere considerate come generali deficit del sistema mentale. Questi errori di elaborazione possono diventare predisposizioni a specifiche stabili distorsioni quando sono concettualizzate ed inserite in più ampio quadro o schema che contiene temi personali specifici, e quindi tali distorsioni possono essere sono denominate come "vulnerabilità cognitiva". Vulnerabilità cognitive specifiche predispongono i soggetti a sindromi specifiche; la specificità cognitiva e la vulnerabilità cognitiva sono interrelate.
7) La psicopatologia deriva da significati disadattivi costruiti in relazione al sé, al contenuto ambientale (esperienza), ed al futuro (scopi), i quali insieme sono denominati "triade cognitiva". Ciascuna sindrome clinica ha significati disadattivi caratteristici associati alle componenti della triade cognitiva. Ad esempio, tutti i tre componenti sono interpretati negativamente nella depressione. Nell’ansia, il sé è visto come inadeguato (a causa di insufficienti risorse), il contesto è concettualizzato come pericoloso, e il futuro appare incerto. Nella rabbia e nel disturbo paranoide il sé è interpretato come maltrattato o abusato da altri, e il mondo è visto come ingiusto e contrastante i propri interessi. La specificità cognitiva di contenuto è correlata in tal modo alla triade cognitiva.
8) Ci sono due livelli di significato: a) quello "oggettivo" o "significato pubblico"; e b) quello "personale" o "significato privato". Il significato personale, diversamente da quello pubblico, include implicazioni, significazioni, o generalizzazioni tracciate a partire dalla occorrenza di un evento (Beck, 1976). Il significato personale o livello privato di significato è stato anche affrontato da vari autori come il concetto di "dominio personale" (Kelly, 1955; Guidano, Liotti, 1983; Gardner, 1985).
9) Ci sono tre livelli di cognizione: a) il livello preconscio, non intenzionale, automatico (ad es., "pensiero automatico"); il livello conscio; e c) il livello metacognitivo, il quale include risposte "realistiche" (adattive) o "razionali" (funzionali). Ognuno di essi svolge funzioni utili all’individuo; ma il livello conscio è di primario interesse nel miglioramento clinico del trattamento psicoterapico, oltre che nel generale apprendimento di informazioni.
10) Gli schemi si sviluppano per facilitare l’adattamento dell’individuo al suo ambiente, e sono in questo senso "strutture teleonomiche". Perciò, un dato stato psicologico (costituito dall’attivazione di un sistema) non è né adattivo né disadattivo in sé stesso, ma soltanto in relazione al contesto del più generale ambiente fisico e sociale in cui l’individuo vive.
Questi 10 assiomi costituiscono i principi formali contemporanei della teoria cognitiva.
Gli stadi del trattamento
Il trattamento cognitivo comprende degli stadi che definiscono specifici obiettivi da raggiungere, e che costituiscono delle "abilità" del soggetto al fine di realizzare un adattamento funzionale al proprio contesto e ridurre l’intensità delle proprie reazioni emotive negative.Il primo stadio è quello che si occupa di fornire al soggetto un modello razionale e comprensibile in modo che possa essere condiviso con lui; in tale ambito il terapista è disponibile a chiarire ogni punto oscuro ed a rispondere alle naturali domande sulle cause, sui sintomi, sull’andamento, sulla epidemiologia, e sulle caratteristiche generali del disturbo e del trattamento. I punti centrali che devono essere affrontati sono il modello ABC, le caratteristiche del sistema mentale, le distorsioni cognitive, le reazioni emotive e comportamentali.Il secondo stadio deve occuparsi dello sviluppo della capacità di raccogliere informazioni riguardo gli eventi attuali, le reazioni emotive conseguenti e le cognizioni; l’automonitoraggio deve essere finalizzato alla raccolta dei dati necessari per pianificare i successivi interventi specifici.Il successivo stadio riguarda la individuazione e la modificazione delle cognizioni disfunzionali; l’uso di tecniche cognitive mirate alla identificazione, verifica e cambiamento delle cognizioni disfunzionali è utilizzato in connessione con l’obiettivo di accrescere l’informazione del soggetto. Il fine delle tecniche cognitive è quello di far acquisire al soggetto maggiore informazione e di poter modificare le inferenze e valutazioni mediante interventi di verifica empirica diretta dei contenuti e dei significati che il soggetto attribuisce agli eventi Gli interventi sono insieme sia classicamente cognitivi che comportamentali, in quanto lo scopo centrale è la acquisizione di maggiori informazioni e ristrutturazione del significato soggettivo disfunzionale.Il momento successivo si concentra sullo sviluppo di abilità di decentramento del soggetto rispetto a proprie attività cognitive e comportamentali, abilità definite "metacognitive". Tali interventi permettono al paziente di affrontare un momento successivo nel quale il terapista ed il paziente ricollegano temi e contenuti presenti nelle valutazioni ed assunzioni personali del soggetto con la storia di vita e gli accadimenti importanti nella prospettiva del paziente stesso.Lo stadio che segue riguarda la identificazione di significati generali e sovraordinati, gli schemi personali, che costituiscono il punto di vista privilegiato tramite il quale è possibile una ricostruzione più adattiva e funzionale.Lo stadio finale riguarda la costruzione di abilità per prevenire ricadute ed utilizzare le informazioni e conoscenze acquisite per intraprendere direzioni alternative sia nelle condotte specifiche sia nella progettualità del paziente.Ogni fase nel flusso dell’intervento psicoterapeutico è situata in un contesto favorente e positivo che deve essere costruito insieme al paziente. Il posto della relazione terapeutica nella Psicoterapia Cognitiva è centrale (Semerari, 1996); essa viene definita sia come una relazione positiva nella quale uno dei due agenti viene giudicato dall’altro come una fonte plausibile ed autorevole sia come una base sicura (nell’accezione di Bowlby, di figura di attaccamento, o che attiva gli schemi riferiti dal soggetto ad una figura di attaccamento) (Bowlby, 1989). Le caratteristiche del trattamento cognitivo sono direttamente connesse con il tipo di relazione stabilita tra paziente e terapeuta, ed in particolare si ritrovano l’uso di un atteggiamento empirico teso alla pianificazione di situazioni di verifica diretta da parte del paziente delle proprie assunzioni e credenze, l’uso del dialogo socratico e della scoperta guidata nella identificazione e ristrutturazione dei significati disadattivi, l’assegnazione di compiti da realizzare tra una seduta e l’altra aventi il ruolo duplice di attivatori del processo terapeutico e condotte di responsabilizzazione riguardo la propria condizione.
Le Tecniche
Nella Psicoterapia Cognitiva l’uso di tecniche specifiche è stato per molto tempo un problema; infatti, accanto ad alcune generali indicazioni che fanno parte della pianificazione del modello ABC, del quale abbiamo visto le principali caratteristiche, vi sono due atteggiamenti di fondo definibili: l’uno favorevole ed incline allo sviluppo di tecniche di trattamento specifiche per singoli problemi e l’altro tendente soprattutto ad approfondire la storia di vita del paziente e le sue connessioni centrali in modo da sviluppare nel soggetto una sempre più coerente prospettiva personale.Tali atteggiamenti, le tecniche e la costruzione soggettiva del paziente, sono in definitiva integrabili e di fatto integrati negli approcci maggiormente conosciuti (Alford, Beck, 1997; Norcross, ; Held, 1996).Tra i due estremi possiamo definire una breve lista di tecniche di trattamento specifiche dedicate a specifici problemi e scopi del trattamento e che sono mirate a raggiungere obiettivi particolarmente definiti (Dell’Erba 1998a; Freeman et al., 1990).Le principali tecniche cognitive sono le seguenti:
Analisi di evidenze e dati Questa tecnica consiste nell’insegnare al paziente ad identificare e mettere in discussione l’evidenza e i dati usati per mantenere le proprie idee inefficaci e disfunzionali. Per fare ciò deve essere identificata con chiarezza le fonte dei dati stessi e il ragionamento eventuale che il paziente effettua per dare rilevanza a essi.L’iniziale messa in discussione di una evidenza "sensoriale" o "percettiva" è un fatto indubitabilmente contro-intuitivo, tuttavia tramite questa tecnica il paziente può accedere alla migliore valutazione degli eventi; inoltre, il terapista può evidenziare come il soggetto abbia utilizzato determinati processi cognitivi o abbia commesso determinati errori cognitivi, e ciò è determinante per l’analisi del personale stile disfunzionale di ragionamento e quindi per l’eventuale addestramento e modificazione
Riattribuzione Gli individui attribuiscono un significato ad eventi in modo non univoco ma dipendente dall’assetto di assunzioni soggettivamente rilenvanti. Questa differenza tra le varie persone è dovuto alla differenza dello stile di attribuzione delle cause degli eventi, che come abbiamo già esaminato è processo molto importante nell’esame dei processi di ragionamento e di assunzione di responsabilità. Il paziente può formulare giudizi ed attribuzioni in modo disfunzionale, e queste attribuzioni possono essere graduate e ristrutturate secondo i fattori principali esaminati. La attribuzione realistica di responsabilità è sempre un passo fondamentale, tuttavia tutti i tre fattori sono generalmente coinvolti (globale-specifico, stabile-temporaneo, interno-esterno).
Decatastrofizzazione e graduazione Spesso il paziente giudica un evento come una esperienza terribile e catastrofica piuttosto che seccante e semplicemente negativa. Tale atteggiamento può essere modificato attraverso il confronto, sia direto sia mediante la discussione, di esperienze più negative; inoltre, il terapista può aiutare il paziente a graduare gli eventi o le emozioni che esperisce attraverso una scala soggettiva di misura. Questo metodi rende possibile un confronto ed un riferimento più adattivo.
Esaminare le alternative L’esame delle alternative comprende una serie di compiti più o meno connessi tra loro. Un primo aspetto è quello della formulazione di prospettive alternative a quella che il paziente produce; tale metodo contribuisce alla scoperta di modi di valutazione nuovi, meno centrati sull’assetto soggettivo. Un altro aspetto consiste nell’esaminare i pro e contro di un evento; infatti, attraverso tale metodo il soggetto può valutare in modo più semplice una particolare condizione che può invece apparirgli molto complessa, o può valutare in modo rigidamente univoco. Un ulteriore aspetto è quello di esaminare o anche fantasticare le conseguenze di una scelta in modo tale che attraverso la produzione di inferenze ed ipotesi soggettive può essere esaminato il sistema soggettivo di giudizio e quindi eventualmente modificarlo.
Etichettare Formulare una etichetta o una definizione ad un dato evento o stimolo può essere utile ad un più funzionale processo di categorizzazione e riconoscimento degli eventi. Attraverso l’attribuzione di una etichetta il soggetto può sviluppare una migliore conoscenza delle proprie reazioni emotive e comportamentali; inoltre, lo sviluppo delle abilità di automonitoraggio ed auto-osservazione dipende dalla capacità di riconoscere i singoli stimoli, che possono essere sia emozioni, sia comportamenti, ma anche cognizioni specificamente isolate come obiettivo terapeutico.
Analisi e sostituzioni di immagini Il lavoro con le rappresentazioni deve riguardare sia l’esame e la valutazione delle produzioni immaginative del soggetto sia la eventuale modificazione guidata dal terapeuta secondo degli obiettivi stabiliti; tale metodo oltre che terapeutico è anche specificamente diagnostico di assunzioni personali che rivestono un ruolo centrale per il soggetto.
Autoistruzioni Il soggetto può apprendere a formulare delle specifiche istruzioni che in precedenza ha stabilito con l’aiuto del terapeuta; tali istruzioni sono una guida in situazioni complesse e prendono il posto di cognizioni e pensieri automatici negativi i quali possono avere un ruolo di stimoli interferenti con particolari attività del soggetto. Le abilità connesse all’apprendimento di autoistruzioni riguarda anche la capacità di esternalizzare voci e pensieri che il soggetto immagina e produce nelle proprie rappresentazioni.
Focalizzazione e distrazione Questo metodo riguarda l’uso terapeutico dei processi attentivi, ed in particolare l’apprendimento di abilità di dirigere intenzionalmente la propria attenzione in modo funzionale secondo specifici obiettivi terapeutici. Tale compito è utile in situazioni dove l’intensità di stimoli ed eventi giudicati estremamente negativi può impedire al soggetto un funzionamento adeguato di altri processi cognitivi (giudizio, inferenze, analisi di evidenze, confronti, ...).
Uso di schede e diari L’uso di materiale per raccogliere informazioni è centrale nel trattamento cognitivo, ed attraverso schede elaborate secondo gli specifici obiettivi del compito il soggetto può raccogliere i dati rilevanti ma anche disporre di materiale da discutere e valutare i seduta. La compilazione di diari, inoltre, è un metodo per elicitare prospettive personali del paziente che altrimenti difficilmente potrebbero essere discusse. In tali compiti il paziente deve essere responsabilizzato sul significato di tali operazioni e incoraggiato a perseguirle.
Stop del pensiero La tecnica dello stop del pensiero è un metodo classico e conosciuto che ha avuto notevoli varianti nella applicazione terapeutica. Essa consiste nell’aiutare il paziente a riconoscere una data cognizione e sostituirla con una diversa che abbia un valore interferente.
Ristrutturazione cognitiva Questa tecnica è tra gli strumenti operativi principali del trattamento cognitivo ed è per questo forse la più celebre. Essa consiste nell’esaminare le cognizioni del soggetto in riferimento ad un evento insieme con le conseguenti reazioni emotive e comportamentali, e aiutare il paziente a produrre delle modificazioni con la verifica delle reazioni collegate. Tale metodo è l’applicazione diretta del modello ABC che abbiamo già esaminato.
Esposizione La tecnica della esposizione può essere sia diretta sia immaginativa, e può essere sia graduale sia totale. La variante ritenuta più efficace è l’uso della esposizione diretta graduale; essa è applicata nella gran parte dei trattamenti mirati all’ansia (panico, ossessioni, ipocondria, ansia sociale), ma anche in trattamenti più articolati che riguardano disturbi diversi (ad esempio, disturbi psicotici). Il valore terapeutico dell’esposizione è riconosciuto ampiamente, e costituisce spesso la componente fondamentale di diversi trattamenti. Attraverso questo metodo il soggetto può ottenere almeno due obiettivi: avere informazioni dirette su condizioni che teme e quindi assumere un rischio calcolato, ed abituarsi ad uno stimolo che può aver giudicato in modo distorto.
Prevenzione della risposta Attraverso questa tecnica il soggetto può apprendere un metodo per fronteggiare diversi comportamenti impulsivi e molteplici reazioni indesiderate. Il punto centrale del metodo è lo sviluppo della abilità di stabilire un record personale sempre crescente tra un pensiero o la rappresentazione giudicata negativa ed una specifica reazione cognitiva o comportamentale. La modificazione di tale connessione permette al soggetto sia di verificare le conseguenze temute dalla mancanza della emissione della conseguenza, sia di avere informazioni sulle proprie reazioni emotive o cognitive.
Conclusioni
Il panorama attuale della Psicoterapia Cognitiva riflette quasi direttamente lo stato delle conoscenze attuali nello studio della condotta. Ciò significa che sia nella psicologia di base che nella psicologia clinica e nella psicopatologia i contributi della ricerca sono applicati al lavoro clinico; altresì, la stessa Psicoterapia Cognitiva non ha mancato di produrre evidenze e modelli che hanno contribuito allo sviluppo delle discipline di base.Uno dei settori ancora emergenti è quello della intersezione tra la psicologia del giudizio e del ragionamento e la Psicoterapia Cognitiva; in tal ambito vi sono contributi (Winfried, Goldfried, 1986; Mancini, 1996; Salkovskis, Kirk, 1997; Gelder, 1997) attraverso i quali, credo, sia possibile ipotizzare il modello di una psicoterapia integrata, ben fondata sulle evidenze empiriche, e intelligibile riguardo la prospettiva soggettiva del paziente.
Bibliografia
Alford B.A., Beck A.T. (1997) The integrative power of cognitive therapy. Guilford, New York.
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Introduzione alla
Psicoterapia Cognitiva Standarddi Gian Luigi Dell’Erba
Pubblicato da: Associazione di Psicologia Cognitiva (APC), 1998.
Riassunto
La Psicoterapia Cognitiva ha molti volti e differenti specifiche
caratteristiche, ed è quindi difficile considerarla un corpo unico e
significativamente comprensivo. Un elemento che può costituire il
"marchio" distintivo è l'uso del modello ABC, non importa se
impiegato esplicitamente o in modo implicito. Il lavoro è distinto in due parti
principali. La prima si occupa delle caratteristiche del modello ABC, e dei
"passi" che guidano il terapista dall'assessment all'intervento. La
seconda parte si occupa di una serie di tecniche, definite
"microtecniche" le quali sono singoli interventi specifici che possono
essere combinati insieme e calibrati per specifici e singoli obiettivi. Il
lavoro si conclude con alcune linee guida su tre disturbi specifici, fra i più
frequenti nella pratica clinica: il disturbo da attacchi di panico, il disturbo
ossessico-compulsivo, il disturbo depressivo. Per ciascuno di essi sono esposte
le principali caratteristiche cliniche ed i singoli interventi necessari e
mirati per una psicoterapia efficace.
Parte 1
Il Modello Cognitivo ABC
E’ difficile definire il modello cognitivo in psicologia clinica in quanto non esiste un unico modello cognitivo sia riguardo alla teoria che alla terapia. Piuttosto, negli ultimi 20 anni c’è stata una proliferazione di prospettive teoriche e di trattamenti, alcuni specifici per alcuni disturbi, altri riguardanti l’intero comportamento umano, le quali hanno assunto la definizione e l’etichetta di "cognitivo".E’ forse più utile indicare l’idea di base che sta dietro ai vari modelli nella psicologia clinica. Può essere usato il noto esempio di un soggetto che è steso nel suo letto, è sera, e sente dei rumori provenienti più o meno dal punto della casa dove c’è la porta d’ingresso. Se egli crede che sta per essere derubato dai ladri i quali stanno per entrare in casa egli sarà spaventato e probabilmente cercherà aiuto per telefono. Se, invece, pensa che è suo figlio che rincasa tardi sarà forse irritato e si preparerà un argomento per il rimprovero. E così via. Il punto centrale di questo esempio e che ogni risposta è mediata da un ragionamento, quindi dal pensiero, da immagini, e da credenze. Questa caratteristica è comune a tutti i modelli cognitivi ed ai relativi trattamenti clinici.Per definire ulteriormente questo punto è utile far riferimento allo schema ABC di Ellis (1962, 1994; De Silvestri, 1981). L’ABC può essere immaginato come uno schema a tre colonne (A, B, e C appunto) dove ciascuna identifica uno specifico contenuto. A indica gli Antecedenti, gli avvenimenti e gli eventi fattuali; si usa dire che l’A riguarda i fatti come li vedrebbe una telecamera (con tutte le debite riserve). In questa colonna vi sono gli antecedenti ed eventi che fungono da stimoli per il soggetto. Il B indica le credenze, il pensiero, i ragionamenti, le attività mentali che riguardano gli antecedenti. Il C sta per Conseguenze di natura emotiva e comportamentale; in questa colonna indichiamo le reazioni emotive, i sentimenti, i comportamenti che seguono ciò che accade in B, dato un certo A.Lo schema ABC è relativamente semplice, e quindi anche la sua applicazione pratica nel trattamento è anch’essa relativamente agevole. Tale schema guida la terapia cognitiva, ed in base a tale schema può essere concretamente attuata una valutazione, una formulazione, una pianificazione e concettualizzazione del problema psicologico, ed un trattamento.Alcuni autori hanno insistito sul fatto che i B causano i C, che le valutazioni soggettive e le credenze del soggetto determinino le emozioni e le conseguenze comportamentali, altri autori, d’altra parte, hanno sottolineato il tipico processo circolare che esiste tra pensiero ed emozione, in quanto l’uno innesca l’altro; altri ancora hanno puntualizzato il carattere unico di questi processi in quanto i soggetti hanno esperienza di essi come un tutt’uno. In sintesi, può essere affermata la intensa forza delle credenze e delle nostre valutazioni nell’innescare le diverse emozioni, ciascuna di esse relativamente alla specifica area o scopo di base rilevante per l’individuo in un dato momento (vedremo più avanti).Il merito del modello ABC è di separare in modo preciso aspetti diversi della nostra esperienza in modo utile e pratico, ma non per questo superficiale.Una necessaria chiarificazione riguarda il contenuto di B. La colonna centrale include le seguenti attività mentali: immagini, inferenze, valutazioni, assunzioni disfunzionali (credenze di base ed errori cognitivi).Le immagini, spesso trascurare da molti trattamenti, meritano di essere prese in considerazione più concretamente. Se un individuo che è molto ansioso di parlare in pubblico e sta contemplativamente pensando ad un evento esagerato o estremo avrà dunque una immagine di sé corrispondente, vedendosi ad esempio, al centro di un palco. Le immagini sono utili spesso quando gli individui fanno fatica ad esprimere verbalmente i contenuti del B, i quali contenuti tuttavia meritano di essere comunque esplorati.Le inferenze sono ipotesi che possono essere vere o false - a lui non piaccio, fallirò, questo tavolo è stato fatto in fretta, la gente mi sta spiando. Le inferenze tendono ad essere improvvise - Beck le definisce "pensiero automatico" - e spesso si manifestano in una forma verbale molto ridotta o "telegrafica" (mi odia, bastardo, ecco ci siamo di nuovo, ora accade tutto). Le inferenze sono predizioni o ipotesi su ciò che sta accadendo, o succederà o è accaduto. Tutte le inferenze vanno oltre l’evidenza dei fatti (Girotto, 1994; Johnson-Laird, 1991). Un modo per fare una inferenza è attraverso il significato di una attribuzione di causa. La gente che sbaglia una prova può attribuire ciò a qualche fatto interno a sé stessi (ad esempio incapacità) o a qualche fatto esterno riguardante qualche persona o caratteristica della situazione (ad esempio, un esame difficile). Questa attribuzione può essere fatta una volta soltanto che un fatto accade (attribuzione temporanea) oppure può essere fatta sempre (attribuzione stabile). Le attribuzioni possono essere riguardo uno specifico deficit in qualcosa, ad esempio, in un esame in matematica (attribuzione specifica) oppure può essere formulata riguardo un fallimento generale (attribuzione globale). Alcuni autori (Seligman, 1990) hanno identificato che la depressione può essere causata da uno stile attribuzionale negativo, che contiene attribuzioni negative interne, stabili, e globali ("ho fallito, è colpa mia, non solo in questo caso ma in tutto, ed è sempre così"). Beck (1976) ha dimostrato come nei problemi clinici le inferenze, sotto la forma di anticipazioni e collegamenti mentali, tendono ad essere distorte, o errate, a causa dell’influenza dell’umore. Egli identifica alcuni principali errori:
Pensiero dicotomico:: le cose sono viste in termini di categorie mutualmente escludentisi senza gradi intermedi. Ad esempio, una situazione o è un successo oppure è un fallimento; se una situazione non è proprio perfetta allora è un completo fallimento. ("o tutto o nulla").
Ipergeneralizzazione:: uno specifico evento è visto come essere caratteristica di vita in generale piuttosto che come essere un evento tra tanti. Ad esempio, concludere che se qualcuno ha mostrato un atteggiamento sconsiderato in una occasione, non considera poi le altre situazioni in cui ha avuto atteggiamenti più opportuni. ("di tutta l’erba un fascio").
Astrazione selettiva:: Un aspetto di una situazione complessa è il focus dell’attenzione, a altri aspetti rilevanti della situazione sono ignorati. Ad esempio, focalizzare un commento negativo in un giudizio sul proprio lavoro trascurando altri commenti positivi. ("bicchiere mezzo vuoto").
Squalificare il lato positivo:: le esperienze positive che sono in contrasto con la visione negativa sono trascurate sostenendo che non contano. Ad esempio, non credere ai commenti positivi degli amici e colleghi dubitando che dicano ciò solo per gentilezza. ("ciò non conta nulla, conta di più ... ").
Lettura del pensiero:: le persone sostengono che altri individui stanno reagendo negativamente senza alcuna prova evidente di ciò che affermano. Ad esempio, affermare di sapere che l’altro pensa di sé negativamente anche contro la rassicurazione di quest’ultimo. ("ti ho già capito").
Riferimento al destino:: l’individuo reagisce come se le proprie aspettative negative sugli eventi futuri siano fatti stabiliti. Ad esempio, il pensare che qualcuno lo abbandonerà e che lo sa già, e agire come se ciò fosse vero. ("lo so già").
Catastrofizzare:: gli eventi negativi che possono capitare sono trattati come intollerabili catastrofi piuttosto che essere visti nella giusta prospettiva. Ad esempio, il disperarsi dopo un brutta figura come se fosse una catastrofe terribile e non come una situazione semplicemente imbarazzante e spiacevole. ("è terribile se...).
Minimizzazione:: le esperienze e le situazioni positive sono trattate come reali ma insignificanti. Ad esempio, il pensare che in una cosa si è positivi ma che essa non conta in confronto ad un’altra più importante. ("niente conta veramente di quello che faccio").
Ragionamento emotivo:: considerare le reazioni emotive come reazioni strettamente attendibili della situazione reale. Ad esempio, decidere che siccome ci si sente sfiduciati, la situazione è senza speranza. ("se mi sento così allora è vero").
Doverizzazioni::l’uso di "dovrei", "devo", "bisogna", si deve", ecc... per assicurare la necessaria motivazione e controllo al comportamento. Ad esempio, il pensare che un amico deve stimarci, perchè bisogna stimare gli amici. ("devo ...", "si dovrebbe ...", "gli altri devono ...").
Etichettamento:: attaccare una etichetta globale a qualcuno piuttosto che riferirsi a specifici eventi o azioni. Ad esempio, il pensare che si è un fallimento piuttosto che si è inadatti a fare una certa cosa. ("è un .....").
Personalizzazione: assumere che uno è la causa di un particolare evento quando nei fatti, sono responsabili altri fattori. Ad esempio, considerare che una momentanea assenza di amicizie è il riflesso della propria inadeguatezza piuttosto che un caso. ("è colpa mia se...").
Tali errori cognitivi non sono né gli unici né esclusivi del contesto della pratica del trattamento cognitivo, infatti la psicologia generale contemporanea ha evidenziato come la "macchina mentale" è spesso soggetta a distorsioni ed errori sia dovuti ad errori naturali "dello strumento" sia dovuti alla interferenza di scopi sulle conoscenze, dei desideri sulle credenze. Una impressionante mole di ricerche hanno dimostrato che il ragionamento e le inferenze possono essere fallaci soprattutto in condizioni di incertezza, che è la condizione naturale dove si misura la nostra razionalità (Tversky, Kahneman, 1974, Kahneman, Slovic, Tversky, 1982; Mancini, 1996; Boudon, 1994; Piattelli Palmarini, 1994; Girotto, 1994; Miceli, Castelfranchi, 1995).Una valutazione può essere definita come un giudizio (buono-cattivo), o una preferenza (ad esempio, "preferisco Sandra a Maria", "preferisco Van Gogh a Klee", "Luigi ha fatto una cosa cattiva", "non mi piace quello che dici", ...). E’ molto utile separare bene le valutazioni dalle inferenze, i giudizi dalle descrizioni e dalle anticipazioni. Spesso, giudizi estremi, stabili e negativi determinano problemi emotivi e comportamentali. Di una certa importanza può essere la differenza, all’interno delle valutazioni e giudizi, di tre tipi di giudizio, riguardo a "chi giudica chi": Altro giudica Se, quando qualcuno sta facendo una valutazione sul soggetto; Se giudica Se, quando il soggetto stesso si giudica; e Se giudica Altro, quando il soggetto giudica e valuta qualcun altro. Il punto chiave è che il giudizio buono o negativo non riguarda una parte del comportamento (il che potrebbe essere un utile suggerimento) ma l’intera persona.Prestare attenzione alle valutazioni che gli individui effettuano è un compito non solo terapeutico ma anche preventivo. Tali informazioni possono segnalare sia la direzione degli scopi dell’individuo (Altri verso se, Sé verso sé, sé verso altri) sia le aree problematiche del soggetto.: non sentirsi amato, paura del fallimento, sentirsi inferiore, sentirsi negativo e colpevole, sentirsi debole.Le assunzioni disfunzionali (Beck, 1976; Beck et al.,1985, 1990) sono regole e principi fondamentali che guidano il comportamento, e che hanno probabilmente le loro origini nelle esperienze di crescita; questi elementi sono perciò impliciti ma possono essere dedotti dal comportamento interpersonale dell’individuo. Ad esempio, F. di 42 anni, depressa da qualche anno aveva cercato nel corso della propria vita di non dispiacere mai agli altri, di cercare di evitare il disaccordo con le persone, ed in questo processo era fortemente soggiogata dai suoi stessi sentimenti e desideri. In quelle occasioni, quando inferiva che poteva aver dispiaciuto qualcuno si sentiva vuota e disperata, e credeva che sarebbe rimasta sola ed abbandonata, credeva di essere una non-persona. Le sue assunzioni disfunzionali potrebbero essere caratterizzate come segue: per essere una persona completa devo avere gli altri intorno a me. Da questo segue che F. non rischiava mai di contraddire o avere un contrasto con qualcuno, per paura di essere rifiutata. Come parte del lavoro nel trattamento psicologico cognitivo F. fu in grado di collegare tale regola alla sua prima infanzia, ed in particolare quando si sentiva vuota e disperata dopo che i suoi genitori l’avevano punita (il che accadeva spesso) e come lentamente aveva scoperto che prendendosi cura di loro otteneva un contatto affettivo, e ciò le capitava sempre più spesso anche con gli altri; così iniziò a farlo per evitare di riprovare quelle "terribili emozioni".I soggetti sono solitamente consci delle loro inferenze (cioè dei contenuti di esse). Questa consapevolezza può manifestarsi un forma verbale, come delle frasi, o possono aversi anche delle immagini o frammenti di esse, oppure possono come udire delle frasi, ad esempio di tipo imperativo, come regole o comandi. I soggetti sono meno consapevoli delle loro valutazioni, e solo raramente sono consapevoli delle assunzioni disfunzionali.
5 principi fondamentali del modello ABC
Il modello ABC, come si è già sostenuto, è di facile comprensione ma vi sono alcune caratteristiche e principi che possono essere specificati.
1) Tutti i problemi sono C
La psicoterapia cognitiva si impegna a facilitare e risolvere gravi problemi emotivi e di stress (depressione, ansia, ...) e disturbi del comportamento (evitamento, autolesionismo, ...), ed in questo senso questo tipo di trattamento si è dimostrato efficace per diversi disturbi ai quali è indirizzato. Se dovessimo generalizzare ad una sola categoria potremmo dire che l’obiettivo è quello di disturbi emotivi gravi e del comportamento; naturalmente, questo non implica che vari problemi che le persone incontrano non possano essere caratterizzati da stati emotivi negativi, ma tali stati negativi possono non essere tanto estremi da comportare la richiesta di un trattamento psicologico professionale. Se dopo la perdita di una persona cara siamo tristi questo è nell’ordine naturale del nostro funzionamento mentale, ma se questo evento è accompagnato da una depressione ciò non è più una risposta normale ma patologica, e pertanto dovrebbe richiedere un aiuto professionale adeguato. Lo stesso può valere per una crisi persistente di collera e rabbia, al posto di una più naturale ed adeguata irritazione; o ugualmente lo stesso problema si può porre per uno stato di ansia o panico al posto di una preoccupazione.Collocare i problemi come dei C può facilitare il fatto di prendere in considerazione il problema per intero, ed evidenziare che cosa è realmente il problema. Nel gergo quotidiano può sembrare che un problema sia qualcuno o qualcosa che ci dà fastidio o ci atterrisce, o che il problema sia che qualcuno ci trascura o che non è come vorremmo noi: il problema non è qualcuno o qualcosa, né parte delle caratteristiche di essi. I problemi psicologici non sono cercare un lavoro, non avere la ragazza, non avere soldi, avere un capo maleducato, e così via. Un evento è un problema psicologico solo se è associato ad un rilevante stress; in tal caso vi è un apporto decisivo del contenuto dei B (che vedremo più avanti). Il problema per il soggetto resta il C in quanto è lo stato emotivo che orienta e dimensiona gli scopi da intraprendere. L’obiettivo del trattamento è il lavoro sul B solo in quanto mezzo per modificare un certo C; solo in casi particolari, l’obiettivo ultimo può essere un B.
2) I problemi sono determinati dal B, non da A.
Quando un soggetto viene in terapia e inizia a descrivere il suo problema, descrive sempre un A, un evento fattuale come un divorzio o un conflitto interpersonale, oppure descrive un C, uno stato emotivo come ansia o rabbia o depressione. Spesso un soggetto può dire "ho perso il lavoro e ciò mi fa sentire depresso", oppure "lui mi ha trattato malissimo e mi ha fatto vergognare davanti a tutti". Naturalmente, questo non fa molta difficoltà nel linguaggio di tutti i giorni, ma tecnicamente niente ci fa sentire in un certo modo, o nessuno ci fa essere o sentire in qualche modo particolare. E’ il nostro B particolare che definisce come stiamo, dato un certo A. Quasi nessun paziente ha chiaramente colto, prima della esplicitazione del modello cognitivo, che né gli A né i C sono il problema che lo ha portato a chiedere un aiuto professionale, e non solo quello; frequentemente, essi credono che non esista nient’altro oltre i fatti e come ci sentiamo, e che i fatti "ci fanno sentire così". Basta spesso ascoltare la descrizione del fatto acuto, del problema "pratico", per accorgersi molto chiaramente che tale descrizione contiene alcuni B, cioè valutazioni o inferenze o assunzioni disfunzionali. Ad esempio, "non mi ha neanche degnato di attenzione, non ha assolutamente pensato al mio problema" descritto come un fatto o stimolo che ha determinato uno stato di collera è visibilmente un B, anche molto composito. Il soggetto ha mischiato un fatto con una inferenza, una valutazione particolare di un fatto, e una evidente assunzione disfunzionale relativa ai propri diritti di avere attenzione dagli altri. Non è un A che determina uno stato emotivo, ma il significato personale che il soggetto attribuisce al fatto che determina sia la tonalità emotiva (che relativa allo scopo in questione che è minacciato di venire compromesso) sia la intensità dello stato emotivo (che è determinata dal grado di convinzione in cui il soggetto mantiene una credenza o una particolare attribuzione). Le azioni e le emozioni delle persone non sono la diretta conseguenza di eventi o fatti che accadono, ma dipendono dalla interpretazione che i soggetti fanno di quegli eventi. Questo, appunto, è la scoperta chiave della psicologia cognitiva moderna; ciò, tuttavia, era affermato da Epitteto circa 2000 anni fa.
3) Vi sono dei legami preferenziali tra i B e i C
E’ centrale, nel modello ABC, che quando un soggetto è emotivamente stressato ci sono sempre inferenze e valutazioni particolari coinvolte. Questa evidenza ha la sua semplice spiegazione nel fatto che se da un lato le valutazioni, specie se estreme, comportano sempre delle inferenze, dall’altro delle inferenze estreme, e dunque ingiustificate e non empiricamente o praticamente fondate, innescano delle emozioni estreme. Una fondamentale caratteristica dei B, ed in particolare dei contenuti che si collegano ad assunzioni disfunzionali, è quella di descrivere il dominio che è in quel momento interessato, o minacciato. Se un B viene riferito come "ho paura di fare brutta figura" o "posso perdere il controllo della situazione" lo stato emotivo sarà inequivocabilmente quello di ansia. La natura dei nostri stati emotivi deriva dalla esistenza di repertori geneticamente determinati (più esattamente filogeneticamente) che hanno la funzione di permettere all’organismo di reagire prontamente e sopravvivere. Esse sono le emozioni, e tra queste quelle di base sono l’aspetto più antico delle nostre competenze comportamentali di una certa complessità.Le teorie che fanno riferimento alle emozioni fondamentali si distinguono dagli altri approcci perché sostengono che le emozioni siano quadri di risposte che hanno una base innata, che vi sia una continuità di queste risposte osservabile fra le diverse specie animali (particolarmente accentuata fra esseri umani e primati) e che tali risposte emozionali abbiano una funzione adattiva (Liotti, 1991, 1994). Naturalmente, anche su questo punto si discute se ciascuna delle emozioni di base gestisca e indichi una funzione specifica dell’adattamento biologico dell’organismo, ad esempio: incorporazione e riproduzione (gioia), reintegrazione e accudimento (tristezza), autoprotezione (paura), distruzione e predazione (rabbia), rifiuto e protezione dei confini del corpo (disgusto), orientamento (sorpresa).Le categorie emotive che più frequentemente incontriamo nei problemi psicologici sono relative alle emozioni di tristezza, di paura, di rabbia. Ciascuna categoria, o emozione di base, raggruppa diversi stati emotivi che si differenziano tra loro per particolari accenti riguardo agli scopi da proteggere o acquisire. Tristezza comprende tra gli altri i seguenti stati emotivi: depressione, colpa, scoraggiamento, delusione, apatia, tristezza, svilimento. Paura comprende ad esempio: ansia, panico, preoccupazione, paura, tensione, agitazione, vergogna, imbarazzo. Rabbia racchiude tra gli altri i seguenti stati: collera, rabbia, furore, irritazione, risentimento, gelosia, invidia (Castelfranchi, 1989; Dell’Erba, 1996; Plutchick, 1994; D’urso, Trentin, 1992).Si può dire, schematicamente, che la tristezza concerne il passato, la paura il presente o il futuro, mentre la rabbia riguarda sia il presente che il passato e il futuro.Le credenze e convinzioni che riguardano la paura e l’ansia sono attinenti ad una minaccia di una danno sia fisico sia psicologico; esse sono collegate con il comportamento di evitamento e di fuga. Le credenze che riguardano emozioni di tristezza attengono alla perdita - di status, di autostima, di libertà o di possibilità, di altri importanti. L’intensità di questi stati è collegata a convinzioni incapacità e mancanza di speranza. Le credenze riguardanti le emozioni di rabbia concernono la invalidazione di diritti o di cognizioni relative a torti subiti (danno, ingiusto); i comportamenti sono orientati alla vendetta, al pareggiamento, all’attacco.
4) B di base derivano dalla storia di vita del soggetto
Abbiamo già esaminato come il significato personale che l’individuo attribuisce agli aventi determina il proprio stato emotivo, e più in particolare se egli sarà emotivamente disturbato; inoltre, il proprio funzionamento mentale e le specifiche attività cognitive (inferenze, valutazioni, errori cognitivi, ...) stabiliscono un collegamento privilegiato tra le attività mentali del soggetto e specifici comportamenti o specifiche emozioni, in stretta relazione con gli scopi importanti che il soggetto crede in pericolo o comunque in discussione.Potremmo chiederci, ora, perché determinate persone sono più sensibili a certi determinati problemi o a certe supposte minacce, tematicamente rilevanti? Una risposa chiara non è oggi pienamente disponibile in quanto l’oggetto scientifico è troppo vago e vi sono ancora dati poco chiari. Una risposta parziale è comunque ben formulabile. Determinate persone sono più sensibili alla invalidazione o alla minaccia di certi scopi o certi temi perché hanno sperimentato durante la loro vita episodi significativi attinenti a quegli scopi o a quei temi, e riguardo ad essi hanno costruito delle loro teorie o spiegazioni personali secondo le quali essi credono di essere vulnerabili a certe specifiche cose o credono di essere incapaci a risolvere certi determinati problemi.Molti autori evidenziano come le prime esperienze dell’individuo sono determinanti per lo sviluppo di una vulnerabilità per certi aspetti della vita.Le prime esperienze possono sia facilitare lo sviluppo psicologico in una direzione rispetto ad un’altra, ad esempio nelle esperienze dell’accudimento (attaccamento ansioso evitante, resistente, disorganizzato, normale), ma anche nella costruzione di una identità personale. Il soggetto gradualmente costruisce una teoria su chi è egli stesso, collegando dati ed esperienze seguendo spesso il criterio della coerenza ("questo fatto è coerente con chi so di essere").Alcuni autori hanno identificato dimensioni riguardanti la costruzione dell’idea di sé indicando alcuni fattori; Beck ad esempio definisce due dimensioni motivazionali: Motivazione verso le relazioni, in cui il soggetto costruisce sempre più relazioni mature e soddisfacenti; e Motivazione verso l’auto-definizione, in cui il soggetto sviluppa, consolida, differenzia, ed integra una sempre più positiva ed adattata idea di sé. Altri ricercatori hanno posto l’accento su alcuni scopi fondamentali del soggetto: Scopi relativi all’Immagine (avere una buona immagine), che sono costituiti dagli scopi dell’Autostima (avere una buona rappresentazione di sé per sé stessi) e dagli scopi dell’Immagine Sociale (avere una rappresentazione positiva per gli altri); scopi relativi alle relazioni (avere relazioni positive). Tali scopi costituiscono le motivazioni personali e sociali più fondamentali per il soggetto ed emergono dall’analisi delle assunzioni disfunzionali nel B (Castelfranchi, 1989; Miceli, Castelfranchi, 1995; Dell’Erba, 1993).Le relazioni tra qualità della cura e dell’accudimento e lo sviluppo di stili di personalità del soggetto sono state ampiamente dimostrate, e possono costituire un fattore di vulnerabilità personale alla costruzione di schemi di base tematici, i quali sono sensibili ad eventi simili o a valutazioni coerenti e collegate dal soggetto a quello schema particolare (Reda, 1996; Lorenzini, Sassaroli, 1995; Beck, Freeman, 1990). Gli schemi personali sono la forma più nucleare e di base delle assunzioni disfunzionali. Il soggetto sviluppa e costruisce il proprio stile personale per proteggere la propria vulnerabilità, e anche perché a causa dei propri assunti che mantiene coerenti e saldi trova il proprio modo di fronteggiare le difficoltà e risolvere i problemi quotidiani in un suo proprio modo che nel corso del tempo può diventare sempre più stabile ed automatico (si sviluppano delle routine alle quali il soggetto non presta più attenzione ma le usa in modo automatico e ripetitivo).
5) Indebolire le convinzioni indebolisce lo stress associato e il disturbo emotivo
Dalla prospettiva dell’intervento, il modello cognitivo ABC crea un punto importante per il cambiamento personale: il B. Cercare di modificare, indebolire, criticare le credenze e le convinzioni disfunzionali del soggetto è il modo principale per facilitare e rendere adattivo lo stato emotivo, ed i disturbi associati. La modificazione delle convinzioni, delle pretese, delle inferenze, degli errori cognitivi, delle assunzioni disfunzionali è il modo diretto di condurre il trattamento psicologico cognitivo standard, solitamente associato ad una vasta gamma di altre tecniche più specifiche e mirate alla risoluzione di sintomi e problemi particolari.
Prerequisiti al trattamento
Ci sono almeno 2 importanti prerequisiti nella pratica di una terapia cognitiva efficace. Il primo è l’uso di una buona capacità di base nel couselling, ed in particolare mirate a:
- stabilire una buona alleanza terapeutica;
- impegnare e motivare il paziente verso un "empirismo collaborativo";
- comprendere il punto di vista unico del paziente ed i suoi sentimenti;
- aiutare il paziente nell’esprimere le difficoltà e nell’affrontare il lavoro, spesso doloroso, del cambiamento terapeutico.
Il secondo prerequisito è una conoscenza della teoria cognitiva, del modello tecnico della formulazione e dell’intervento secondo lo schema ricordato prima.
8 passi di base dall’Assessment all’Intervento
In questa sezione affrontiamo in dettaglio il processo applicativo per ottenere un chiaro assessment ABC, e procedere verso il trattamento.Questo processo inizia con una valutazione psicologica generale di base e la formulazione della storia personale, e dei problemi attuali. Le prime 2 o 3 sedute con il paziente dovrebbero essere condotte in un modo non-direttivo usando le abilità di base del colloquio psicologico per incoraggiare il paziente a riferirci la propria storia, inclusi i problemi attuali, gli eventi precipitanti, e le eventuali prime esperienze di apprendimento o traumatiche che hanno contribuito a sviluppare vulnerabilità caratteristiche.Il terapista può usare il modello ABC come euristica di base per ottenere informazioni organizzate, per successive elaborazioni ed applicazioni.Quando l’obiettivo è raggiunto, ed il terapista ha un quadro generale sufficiente, e si accorge che la relazione con il paziente è ragionevolmente stabilita, allora egli diviene più specifico, e dunque inizia il lavoro specialistico del trattamento cognitivo.Il processo di sviluppo del trattamento, o anche la sua organizzazione più razionale, può essere diviso in 8 fasi; abbiamo, quindi, una sequenza di 8 passi.Questi passi sono tutti definiti nei termini del modello ABC presentato più sopra.
Le fasi sono le seguenti:
1) Focalizzare un problema: chiedere al paziente di scegliere un problema da quale iniziare.
2) Valutare il C: valutare sia l’evento attivante (A) sia il problema emotivo (C).
3) Valutare il A: valutare ed inquadrare il restante resoconto.
4) Confermare che A-C è il problema: collegare A con C e controllare che è proprio questo il problema del paziente.
5) Valutare il B: valutare le cognizioni (immagini, inferenze, valutazioni, ...) usando la concatenazione logica (thought chaining, laddering up and down, ...).
6) Formulazione: a) mostrare la connessione B-C, e b) ipotizzare una formulazione della storia personale.
7) Accordarsi sugli obiettivi del paziente, e considerare le sue opzioni e scelte.
8) Modificare le convinzioni.
1) Focus sul problema
Il terapista deve cambiare il proprio armamentario, dai primi colloqui esplorativi centrati sul cliente nella fase di counselling, e per esempio comunicare al paziente che ormai ha un quadro sufficientemente chiaro e che si può passare a trattare specificamente e praticamente al principale problema.Si potrebbe quindi chiedere, ad esempio "quale è il problema che vuole affrontare per primo?" oppure "di quale problema vuole parlarmi ora?", o "quale potrebbe essere il primo argomento per iniziare?"; naturalmente, non è sempre facile modificare una impostazione generale del paziente per giungere ad una più mirata, specifica e concreta. Comunque, anche se il paziente può avere parlato in modo estensivo, digressivo, oppure in modo vago, o ancora può essere stato troppo taciturno, un punto fermo è quello di utilizzare appieno le abilità di colloquio e counselling in modo da aiutare il paziente ad essere più utile al trattamento; alcune domande tipiche possono essere: "che cosa le stà succedendo ora" o "in questo ultimo periodo in che stato emotivo si trova", o "può farmi qualche esempio" o "se può darmi qualche dettaglio della situazione di cui mi ha parlato...".Il problema descritto dovrebbe contenere almeno un A, cioè una situazione, un evento o una esperienza soggettiva, e quindi anche un C, come il soggetto si è sentito in quel momento, come ha reagito a livello comportamentale. Alcune volte abbiamo anche un B, cioè una interpretazione ad un qualche livello; il compito del terapista è ci cercare di strutturare il problema nelle componenti A, B e C secondo i passi che abbiamo schematizzato più sopra. Una volta collegate questo tipo di informazioni è utile scriverle in uno schema o un foglio diviso in 3 colonne, con le seguenti intestazioni: A, evento attivante (sia reale che anticipato); B, convinzioni (pensieri, immagini, inferenze, ...); C, conseguenze (disturbi emotivi e comportamentali). Non appena il paziente ed il terapista analizzano in questo modo un certo numero di problemi, il terapista può subuto vedere alcuni temi che emergono da problemi apparentemente disparati, e iniziare a formulare idee ed ipotesi su quali possono essere le convinzioni disfunzionali di fondo.
2) Valutare il C
Come abbiamo detto precedentemente, il punto di base del problema è il C, cioè il problema emotivo del paziente, il suo stress, il suo comportamento disfunzionale o autolesionistico. Mentre naturalmente, è vero che le convinzioni nel B e gli eventi attivanti nel A sono strumentali nel creare il problema che viene identificato nel C, non sarebbe utile intreprendere un trattamento cognitivo a qualcuno che non ha veramente un intenso problema o disturbo emotivo, né esprime lamentele nonostante le proprie convinzioni possano essere più o meno fondate. E’ essenziale, perciò, stabilire quando il paziente ha un problema intenso in C, per questo dobbiamo effettuare una valutazione accurata del C. A questo proposito possiamo distinguere reazioni emotive e reazioni comportamentali. Entrambe possono essere utilizzate l’una per identificare l’altra, e distinguerle ha più un valore pratico ai fini della valutazione.
Reazioni emotive
E’ utile e pratico dividere i C emotivi in 2 elementi: l’intensità dell’emozione (quantità), ed il tipo di emozione (qualità). I soggetti rispondono emotivamente a eventi di vita negativi ma spesso non hanno bisogno di un aiuto professionale psicologico o psichiatrico per le proprie reazioni emotive, in quanto essi possono cercare una ampia gamma di modalità di fronteggiare e risolvere i problemi quotidiani e gli eventi negativi. I soggetti, invece, cercano un aiuto professionale psicoterapico quando le proprie reazioni emotive costituiscono uno stress di proporzioni elevate. Questa è la prima dimensione nella valutazione dei C emotivi, che il terapista deve stabilire.In sostanza, il terapista deve stabilire dove si colloca l’esperienza emotiva del paziente su una scala (ad esempio, soggettiva) di intensità; ad esempio, distinguere se il soggetto invece che depresso è triste, se è preoccupato invece che allarmato o spaventato, se sia seccato piuttosto che arrabbiato.Alcune volte è utile costruire una scala a 10 punti, in cui lo 0 è il punto neutrale, privo di valore emotivo, mentre il 10 è il punto più intenso che il paziente può immaginare. Quindi, il terapista ha bisogno di avere tali informazioni prima di decidere se il paziente ha bisogno, in realtà. Di un trattamento psicologico o psichiatrico, o più semplicemente di un supporto, o di un consiglio; e l’andamento dello stato del paziente e le convinzioni correlate. Questo punto è essenziale per una psicoterapia efficace, e per considerarla con successo, perché il terapista deve poter identificare una intensa emozione per poter collegare tale stato ad un B importante; il paziente che è soltanto preoccupato nel C difficilmente avrà un B con una inferenza catastrofica ma probabilmente starà pensando in un qualche modo realistico ad un certo A.Naturalmente, questo non significa accettare semplicemente le parole del paziente che può riferire che si sente soltanto preoccupato o solo triste.Infatti, molti pazienti possono essere particolarmente inibiti rispetto al comunicare emozioni intense, oppure sono semplicemente non coscienti essendo stati molti anni abituati ad evitare l’espressione di tali stati, oppure possono essere carenti di una certa abilità introspettiva ed auto-osservativa, quindi il terapista deve osservare e verificare attentamente la presenza di tali emozioni intense. Ciò richiede una buona abilità di colloquio psicologico e counseling, ed in tali situazioni, il terapista può tranquillizzare e rassicurare il soggetto in modo tale che egli possa sentirsi più sicuro di poter esplorare i propri sentimenti negativi. Se questo non è possibile, si può utilizzare l’osservazione dei segnali fisiologici, non verbali; a volte, il soggetto non descrive una intensa emozione ma descrive la fisiologia, ad esempio: "non mi sento ansioso, è soltanto il mio cuore che batte improvvisamente forte". Altre volte l’emozione viene espressa all’esterno anche se il paziente non descrive nulla che possa riferirsi a questi tipi di segni ma in qualche modo tali segni fisiologici sono osservati. Questo può aiutare il terapista ad intraprendere una ipotesi relativa ad una certa emozione. Se, ad esempio, un paziente è attualmente non in grado di percepire una attivazione emotiva allora può essere utile un esercizio di base, derivato dalla Terapia Gestalt, per allenarsi alla auto-osservazione che può gradualmente aumentare il livello di consapevolezza (Norcross, Goldfried, 1992). Altri soggetti hanno il problema contrario; piuttosto che reprimere le proprie emozioni sono invece ipersensibili alla attivazione emotiva. I soggetti possono variare nella soglia di tolleranza, nella attivazione delle reazioni emotive, al punto che alcuni pazienti possono avere una soglia molto bassa e reagire rapidamente ed improvvisamente a piccoli stimoli "avversivi", ad esempio un soggetto può reagire in modo arrabbiato ad un lieve inconveniente, o avere una reazione di panico ad una piccola sensazione somatica; nella RET (ora REBT) si usa il concetto di "bassa tolleranza alla frustrazione".Il secondo obiettivo del terapista, nella valutazione dei C emotivi, è quello di stabilire il tipo di emozione che il paziente sta’ sperimentando, che è attivato. Spesso il soggetto non può esprimere il tipo di emozione, non ha un lessico adeguato, può fare confusione rispetto alla tipologia emotiva; ad esempio, un paziente può dire che è "un po giù" piuttosto che dire che è depresso, oppure si sente colpevole invece di dire che ha vergogna, ecc...Una buona regola è quella di aiutare il soggetto ad acquisire un minimo di lessico, suggerendo almeno 3 emozioni di base come ansia, rabbia e depressione, e spiegare che ci sono delle differenziazioni più sottili, degli aspetti particolari, ad esempio la colpa, la depressione, l’imbarazzo, la vergogna, l’invidia, la gelosia, e così via. Il terapista, solitamente, spinge il soggetto ad inquadrare le emozioni come emozioni primarie, perché è più semplice, ma può naturalmente utilizzare una ampia gamma del lessico emotivo per differenziare i diversi scopi implicati nelle diverse etichette emotive, se questo è possibile. Negli ABC è più semplice identificare i C emotivi in quanto le altre informazioni rendono più comprensibili gli scopi del soggetto e le intenzioni implicate.
Reazioni comportamentali
Ci sono poi i C comportamentali che possono essere sia una azione sia un impulso ad agire che non si è realizzato. Il tipo di comportamento solitamente viene riferito al tipo di emozione, e questo è perché le persone non solo rispondono emotivamente alle proprie interpretazioni e cognizioni, ma effettivamente fanno qualcosa riguardo agli A in questione.Le emozioni di Ansia sono solitamente accompagnate da evitamento o comportamento difensivo, che possono variare da un evitamento estremo o ad una situazione di fuga o almeno a forme più indirette come comportamenti di blocco e "congelamento" o altre risposte non verbali. La Depressione, come emozione, è accompagnata da inattività, rallentamento, mancanza di energia. La Rabbia è accompagnata da un comportamento aggressivo, violento, che può essere indiretto o specificamente diretto.Sebbene questi modi di fronteggiare gli eventi possono comportare un guadagno a breve termine, ad esempio la riduzione dello stress con l’evitamento, nel lungo termine tali comportamenti mantengono o possono peggiorare il problema. E’ abbastanza raro che il paziente riferisce dei C emotivi in modo ordinato e chiaro; infatti, la separazione A, B e C è all’inizio solo presente nel punto di viata del terapista; dal punto di vista del paziente le 3 componenti sono esperite come se fossero una sola, ed il compito del terapista è proprio quello di distinguere le varie parti fra loro.Naturalmente, è necessario fare attenzione alla codifica nell’indagine sui C. Per prima cosa, deve essere accertato che il C sia intenso ed importante; in secondo luogo, in certe situazioni il paziente può oscillare tra due diverse reazioni emotive, ad esempio depressione e rabbia. Quando ciò viene compreso bisogna condurre l’assessment dell’ABC in modo tale da inquadrare questa oscillazione e naturalmente comunicare al paziente questo quadro, e accordarsi con lui nel trattare separatamente questi due ABC. Una terza direttiva importante è quella di mettere in evidenza l’eventuale e piuttosto frequente presenza di problemi sovraordinati a quello che denuncia il paziente in prima istanza. Gli esseri umani possono infatti non solo procurarsi un problema (che chiameremo "primario" o 1stABC), ma quando se ne accorgono possono altresì crearsi un altro problema (che chiameremo "secondario" o 2ndABC) per il fatto di avere il primo. Tale stato di cose complica notevolmente il quadro clinico e rende più difficile l’intervento sul problema primario (De Silvestri, 1989; Mancini, Semerari, 1990).
3) Valutare gli A
Il compito di chiarire gli A è, ad esempio, di dare al paziente un evento esemplificativo oggettivo, fattuale, specifico e ben definito, che stimola ed innesca un C, ed in particolare che sia recente in modo che ci si possa ben ricordare.In generale, il più comune errore è di iniziare un assessment ABC partendo con un A molto generale, ad esempio "stare male al lavoro". Il terapista, con la dovuta accortezza, dirige l’attenzione del paziente all’evento che innescato direttamente la particolare reazione descritta. Non vi è virtualmente limite a ciò che potrebbe essere un A; è qualsiasi cosa che potrebbe accadere ad un soggetto, ed è conseguentemente valutata da un B, e reagisce con un C. I più ovvi eventi A sono situazioni attuali o incidenti che si verificano nella vita quotidiana, oppure possono essere ricordi di tali eventi recenti o passati, o anche anticipazioni di eventi che il paziente crede che possano verificarsi, oppure possono essere immaginazioni. Comunque, gli A possono essere egualmente sentimenti o comportamenti del soggetto (dei C possono essere degli A), oppure i pensieri di un soggetto e le sue credenze e convinzioni (dei B possono essere degli A). E’ importante che il terapista aiuti il paziente a costruire dettagliatamente ed in modo corretto una descrizione di tutti gli aspetti della situazione così da poter essere più tardi in una posizione di "critica" efficace della rappresentazione distorta del paziente.I pazienti non riferiscono solitamente degli A chiari ed ordinati, invece, correntemente, essi danno delle descrizioni in cui combinano degli eventi concreti, in cui vi sono degli A con degli elementi di B. Ad esempio, un paziente riferiva una descrizione fattuale concreta di un evento come quella che segue: il suo capo gli passa davanti per strada (A) lo vede (inferenza B) e lo ignora (inferenza 2 nel B); avendo fatto questa distinzione, il terapista ha bisogno di comunicare questa situazione al paziente ed aiutarlo a distinguere con maggiore precisione tra fatti oggettivi e giudizi soggettivi.
4) Confermare che A-C è il problema
Il terapista comunica al paziente la propria ricostruzione della connessione A-C in una parafrasi o usando le parole del paziente stesso, ad esempio "Lei ha detto che si sente depresso ( C), e che è molto giù ( C), perché ha litigato con il suo partner (A)"; il terapista controlla e verifica che questo A-C è ciò di cui il paziente è veramente preoccupato o che lo disturba, ad esempio, con "è questo il problema che La riguarda maggiormente in questo momento?". Il terapista deve essere molto attento a non sottostimare la forza della connessione A-C; i pazienti realmente si sentono "in preda" agli A in una forte attivazione emotiva, e si sentono sopraffatti dagli eventi. Essi si sentono sopraffatti dagli episodi e dalle esperienze, e credono di non avere più il controllo di tali elementi. Vari ricercatori hanno trovato, in un vasto numero di situazioni, che i pazienti rispondono a ciò che viene definito "stimolo biologicamente predisposto", cioè a pericoli, minacce, di tipo sociale o fisico, che innescano meccanismi predisposti evolutivamente e che hanno una forte scopo per la sopravvivenza, come lotta, fuga, blocco, congelamento, subordinazione.
5) Valutare il B
Il compito del terapista è ora di valutare le correlate immagini, inferenze, valutazioni, assunzioni disfunzionali, che abbiamo visto precedentemente. Prima di fare questo, il terapista si pone come obiettivo che il paziente comprenda che il significato che gli eventi hanno per lui, cioè il B, quindi il significato che egli dà agli eventi, è centrale per capire il suo problema. Raggiungere una prospettiva comune su questo punto è essenziale per il processo di cambiamento. Per prima cosa, il terapista deve chiarire con il paziente che l’analisi A-C è carente su questo punto, cioè che il solo evento non può giustificare e determinare le reazioni del paziente ( C); questo è anche perché egli stesso potrebbe rispondere o aver risposto differentemente, anche solo in via di principio. Il terapista cerca comunicare che la parte carente è proprio quella del significato personale che ha, o ha avuto, per il paziente. Quindi, il terapista riferisce che il paziente ha una "teoria A-C" sul proprio problema; quindi si cerca di comunicare e trasmettere al paziente un "teoria ABC". In sostanza, che le persone non sono disturbate o preoccupate dalle cose in sé stesse, ma dalle loro interpretazioni su esse.Ci sono un certo numero di modi pratici di aiutare il paziente a raggiungere questi insights. Uno di quelli più pratici è il dare un semplice A, ad esempio, se essi sentono un rumore fuori dalla finestra della propria casa nella notte: essi possono variare la risposta emotiva nel C, e quindi suggerirli di immaginare che possono sentirsi ansiosi o arrabbiati o sereni, e riportare i loro pensieri nel B, in ciascuno dei casi che porta a cambiare da un C ad un altro C.Il terapista, quindi, modifica il problema A-C del paziente, e riferisce che il prossimo compito sarà quello di esplorare le convinzioni proprie del paziente nel B. Il modo migliore per scoprire specifici B del paziente è quello di usare una conoscenza teorica sulla principale connessione B-C, come abbiamo visto precedentemente, al fine di guidare un processo di associazione cognitiva e sequenza logica (thought chaining, laddering up e down, up e down arrow, ...). La sequenza spesso inizia con una inferenza, e solitamente si inizia quando il terapista propone al paziente uno specifico episodio A-C, egli chiede qualcosa del tipo: "Cosa succede nella Sua mente quando Lei si sente ...". Molte inferenze possono essere collegate in una sequenza. Immaginiamo, ad esempio, un paziente che si sente depresso ( C), perché la propria partner non gli ha telefonato come aveva promesso (A), egli inferisce che ciò significa che Lei è andata con un altro uomo (prima inferenza B), e questo significa per lui che a lei non piace più lui (seconda inferenza B), e che questo significa che nessuna donna lo avvicinerà e che non piacerà mai a nessun’altra (terza inferenza B). E’ raro, per il paziente, essere consapevole che il proprio pensiero prende la forma di una inferenza, e ancora meno di una inferenza sequenziale e concatenata; nondimeno, l’inferenza è evidente e attiva, ed il terapista può identificarla e farla emergere nel modo descritto.Si può sostenere che il modo in cui le persone rispondono emotivamente nel C, riflette una combinazione di inferenze e valutazioni, ed al termine di una catena di inferenze vi è una o più valutazioni. Solitamente, è possibile definire le valutazioni che sono implicite in una proposizione inferenziale. Le valutazioni sono attribuite dai soggetti su altri soggetti o su eventi e circostanze varie. Un soggetto può valutare una parte o un insieme globale - ad esempio, un singolo comportamento ("questa è stata una brutta azione"), un tratto personale o un ruolo ("Lui è un pessimo dottore") oppure valutare una persona globalmente, come un tutto ("Lui è totalmente negativo").Generalmente, certi tipi di valutazione sono associati con uno stress intenso. Tra le valutazioni più rilevanti vi sono le valutazioni personali negative - giudizi interpersonali globali e stabili sul valore totale di un soggetto. Dato che le valutazioni negative personali sono una componente veramente chiave del processo di assessment sono stati sviluppati, da parte di numerosi autori, vari strumenti che valutano questo tipo di cognizione; ad esempio il Evaluative Beliefs Scale, o il Disfunctional Attitude Scale (Freeman et al., 1990).In un paziente, gravemente disturbato a livello emotivo nel C, è probabilmente radicata una valutazione globale negativa, sia nei riguardi di Sé, o di altri o di specifici episodi. Quando una emozione è rabbia il terapista cerca solitamente una valuazione negativa di tipo "Sé-Altri". Quindi, nel nostro precedente esempio con il soggetto che teme di essere rifiutato, egli sentirà forte rabbia verso il partner, e così starà formulando un qualche tipo di giudizio negativo su Lei come "persona". Quando l’emozione è ansia o depressione spesso abbiamo delle sequenze cognitive che spesso svelano prima una inferenza su una valutazione negativa del tipo "Altri-Sé", ed in ultimo terminano con una valutazione "Sé-Sé". Per ritornare al nostro esempio, se il soggetto si sente depresso, egli potrebbe credere che la sua partner, che ora starebbe con qualcun’altro, lo vede come globalmente inadeguato, e lui potrebbe anche essere d’accordo con tale giudizio, e quindi formulare, alla fine, una valutazione di tipo "Sé-Sé". Praticamente, valutazioni di tipo "Altri-Sé" possono essere dedotte e quindi inferite (per esempio, tu mi ignori, e per questo io inferisco come se io non valessi nulla).Virtualmente, tutte le valutazioni personali negative si innescano perché il soggetto crede e giudica qualcuno (sé compreso) o qualcosa come deficitario ad un qualche livello, e tali valutazioni si accompagnano ad assunzioni disfunzionali riguardanti il proprio senso di sé o valore personale. Ad esempio, un paziente può comportarsi secondo una regola implicita, "sarebbe terribile se ora facessi un errore - e ciò mi renderebbe totalmente privo di valore, e questo non deve mai accadere". Tale regola o bisogno sono spesso espressi spontaneamente in pensieri automatici ("non devo sbagliare...") o emergono durante o al termine dell’assessment di una sequenza inferenziale.
6) Formulazione: a) collegare i B con i C, b) collegare il ABC alla Storia di Vita
Una buona formulazione dei problemi del paziente può essere pensata come una analisi ABC di episodi ed eventi, ed un assessment ragionato della Storia di Vita.Nel processo di valutazione degli A, dei B, e dei C, il terapista produce una formulazione cognitiva del problema specifico. Tale formulazione illustra in modo pratico che le cognizioni nel B stanno generando problemi emotivi e comportamentali nel C, dato un certo A. In sostanza, si collegano i sentimenti del soggetto e i comportamenti in una situazione al significato personale che l’evento ha per lui. Il terapista facilita l’acquisizione di questo insight mostrando come un evento soltanto non necessariamente conduce ad una specifica emozione o uno specifico comportamento che il paziente ha, o sta’, sperimentando; egli stesso, in un’altra occasione nella propria vita, oppure un’altra persona, potrebbero rispondere in modo differente. Comunque, autovalutazioni globali stabili negative implicano sempre sentimenti di depressione.Il terapista ed il paziente, insieme, si pongono lo scopo di riflettere e giungere ad una formulazione sulla storia di vita del soggetto, per cercare di spiegare come mai il soggetto abbia acquisito quella certa vulnerabilità. La vulnerabilità è definita come una valutazione personale negativa, con uno stress associato. Questa formulazione riguarda le origini della vulnerabilità psicologica del paziente (solitamente acquisita nello sviluppo), come il paziente si sviluppa in un dato stile interpersonale che lo protegge contro le occasioni in cui potrebbero riconfrontarsi con autovalutazioni negative e stress intenso, e anche quando gli episodi di stress si sono manifestati (spesso innescati da vari eventi cruciali della vita, "life events"). In particolare, deve essere ben considerato in quale direzione evolve il proprio stile interpersonale, se nella direzione di un deficit di attaccamento, di relazioni personali, o verso un deficit di autonomia, di efficienza personale (Lorenzini, Sassaroli, 1995). Il terapista aggiorna costantemente le informazioni sulla storia di vita del soggetto (anamnesi e formulazione) man mano che tali informazioni emergono.
7) Stabilite l’obiettivo e le opzioni alternative
Il terapista chiede al soggetto di riesaminare e riformulare il problema in termini di schema ABC, e di confrontarlo con la propria esposizione originale A-C del problema. Quindi, il terapista chiede al paziente di determinare e scegliere il suo obiettivo per la terapia (ad esempio, "che cosa le piacerebbe cambiare?", oppure "in che cosa le piacerebbe essere differente?"). Nonostante il lavoro sui B, il paziente può vedere ancora che il proprio obiettivo è cambiare il A, cioè la situazione o l’evento. A questo punto, bisogna utilizzare un comune metodo di discussione tipico della REBT, secondo cui si pongono al paziente alcune classiche opzioni. Si dice al soggetto che vi sono solo 4 modi con cui lui potrebbe fronteggiare e rispondere a situazioni problematiche:
a) egli può evitare o fuggire da queste situazioni;
b) egli può cercare di non fare nulla e far finta di niente;
c) si può cercare di modificarle in qualche modo (ad esempio, convincendo il capo a non licenziarlo);
Il fatto che il paziente sia in terapia ci suggerisce che tutte questi precedenti modi di risposta hanno fallito. Il terapista è, dunque, in una posizione di forza persuasiva per poter formulare la quarta opzione:
d) si può ridurre il problema emotivo e comportamentale lavorando per modificare le proprie convinzioni e credenze di base.
Si può sottolineare che lavorare efficacemente nel modificare i B può positivamente influire sul cambiamento degli A, se in una situazione è in qualche modo modificabile sicuramente il soggetto sarà più efficace nel compiere tutti i passi concreti necessari per risolvere il proprio problema.
8) Modificare le convinzioni e le credenze
Se il paziente è d’accordo con tale obiettivo, allora paziente e terapista possono iniziare il processo di intervento cognitivo, modificando le convinzioni attraverso un mix di discussione e verifica empirica. Ciò richiede alcune particolari abilità nel condurre il colloquio e porre le domande di indagine, tramite le quali bisogna cercare di dare solo piccoli consigli diretti, ma invece cercare di elicitare suggerimenti e soluzioni del paziente, ed in questo modo costruire la capacità del paziente a risolvere i propri problemi. Questo procedimento, conosciuto come "dialogo socratico", è basato sull’uso di domande chiuse e aperte, ed è una valida aggiunta alle abilità di counseling. Un utile esempio lo fornisce Beck (1979):<<Attraverso la formulazione della storia di vita del paziente, il terapista ed il paziente scoprono una alternativa alle convinzioni di base del soggetto - ad esempio, sostituire "sono totalmente non amato" con "non mi sono mai sentito amato da persone significative". Queste due possibilità sono quindi confrontate attraverso la discussione delle evidenze e la verifica diretta. E’ importante usare questi metodi con un certo accento sulle emozioni del paziente>>.
Discutere e testare le inferenze
Il metodo di discutere le inferenze è basato sul metodo "scientifico", in cui le ipotesi sono formulate e quindi sviluppate o disconfermate assicurando le evidenze. In Particolare, il terapista aiuta il paziente a diventare sempre più consapevole delle proprie specifiche distorsioni cognitive (come abbiamo già esposto più sopra) che "colorano" il proprio pensiero automatico inferenziale, e sistematicamente lo aiuta a ridurre tale influenza. La classica "critica" ad una inferenza è: "dov’è la prova concreta di ciò?". Il testare le inferenze comporta che ciò che la REBT chiama "risk-taking" (correre il rischio) - cioè il paziente lavora gradualmente verso un diretto confronto con il compito temuto così da testare le proprie influenze che in tal modo possono fallire, manifestarsi come errate, essere rigettate, ...(De Silvestri, 1981a). Naturalmente, questo può succedere; Le inferenze, possono o possono no essere vere, e questo si riflette nella scelta di quale "test", vale a dire di quale prova e tentativo, usare e quando. Un esempio molto forte di tale procedura è nel metodo di Clark nel trattamento degli attacchi di panico (Clark 1986; Clark et al., 1985, 1991, 1996; Dell’Erba, 1997b): l’inferenza del paziente è che sensazioni come la pulsazione cardiaca o il dolore intercostale sono sicuri indicatori di un infarto imminente; la convinzione alternativa è che i sintomi siano effetti collaterali della iperventilazione; dopo avere valutato il grado di convinzione, il paziente affronta una prova empirica; in tale prova è facile dimostrare al soggetto che i sintomi si verificano solo quando il paziente iperventila, e si bloccano quando egli corregge la respirazione; il paziente allora rivaluta il grado della propria convinzione, e si impegna ad abbandonare le proprie convinzioni infondate.Questo metodo di discutere e testare può essere usato con un vasto insieme di differenti tipi di inferenze; di una certa importanza sono le valutazioni "Altri-Sé" inferite dal paziente. Alcune volte, il soggetto inferisce valutazioni negative globali da parte degli altri (ad esempio, "la gente mi vede come un completo idiota"), ed egli può usare queste asserzioni come se fosse veramente negativo, senza valore, incapace, inutile, ecc.. La critica focalizza il cuore di una seconda inferenza importante, cioè che il soggetto crede che qualcosa del contenuto della prima inferenza sia vero: "se gli altri credono in un certo modo, allora deve essere vero". Ad esempio, in risposta alla domanda "se la gente crede che lei non è OK, allora Lei veramente non è OK?", il soggetto può rispondere che dato che qualcuno lo crede così allora deve essere vero. Il terapista può rapidamente attaccare criticamente questa inferenza sottostante. Un modo è affermare un assurdo, una inferenza estrema "Altri-Sé", ad esempio, : "supponiamo che le dico che lei è l’Arcangelo Gabriele, questo vuol dire che lo è veramente?" oppure rivolgendosi a sé stessi "se qualcuno entra e mi dice che sono il diavolo con le corna e le ali, io mi sento davvero il diavolo?". In questa fase, il soggetto può prendere la questione da un punto di vista intellettuale, e il terapista può procedere dicendo, ad esempio, "supponiamo che io le dica che lei è un completo incapace, come si sentirebbe?". Questo solitamente innesca una prospettiva emotiva.Soltanto quando gli altri ci danno stimoli fortemente negativi, ad esempio che qualcuno ci rifiuta, noi possiamo avere paura che tale giudizio negativa sia fondato, in qualche modo. In altre parole, possiamo essere d’accordo con gli altri in quanto noi già pensiamo che tale valutazione sia vera. Il terapista mostra molto accuratamente che dato che noi crediamo di essere "non OK", attribuiamo questa stessa convinzione anche alle altre persone, alle quali però potrebbe non appartenere.
Discutere e testare le valutazioni
Nella REBT sono descritte varie tipologie di valutazioni (De Silvestri, 1981a), solo alcune delle quali producano forti stress emotivi e richiedono quindi una potente critica. A scopo esemplificativo consideriamo il processo in relazione alle valutazioni personali negative, la tipologia forse più frequente, sebbene il metodo sia identico per gli altri tipi di valutazione.Ci sono tre stadi principali nella critica delle valutazioni personali, ed ognuno di essi richiede una certa quantità sia di discussione sia di verifica empirica che di lavoro esperenziale. Primo, il terapista chiarisce che la valutazione della persona è infatti globale e stabile, e lavora su tale questione e cerca di confutarla. Lo scopo è di incoraggiare il soggetto a valutare solo il comportamento, ed evitare i giudizi globali sulla persona, "come se le persone fossero tutte in un modo o tutte in un altro". Il principio di questo tipo di critica è: "valuta il comportamento, non la persona"; ad esempio, comportandosi in modo sbagliato (quando eventualmente lo ha fatto) questo non significa "essere sbagliato". Parte di questo processo comporta il cercare le evidenze, e parte cercare metodi di insight ed auto-osservazione, e si pone come obiettivo di evidenziare l’impossibilità di chiunque di essere totalmente e per sempre qualcosa, e secondariamente, di focalizzare dove è l’origine di valutazioni negative personali così stressanti. Un aspetto importante nella ricerca di evidenze di una valutazione "Sé-Sé" è che spesso il paziente crede che anche le altre persone lo valutino allo stesso modo come lui fa (abbiamo già affrontato il modo di criticare praticamente tale assunto). Un altro esempio di interessante deficit di evidenza il paziente lo può manifestare riguardo le cognizioni concernenti il proprio umore. Ad esempio, se egli dice che è depresso, e per questa ragione non vale niente, perché secondo il soggetto, se fosse stato OK non si sarebbe sentito depresso (questo è ciò che D.Burns (1980) chiama "ragionamento emotivo"). Le emozioni non possono essere usate come evidenza di nulla, salvo che, per una verità autoevidente, per riferire che il soggetto ha una tale emozione. Il paziente può anche ricordare che l’emozione è una conseguenza delle proprie credenze, non la causa.Il secondo aspetto della critica delle valutazioni è quello in cui il terapista espone una regola implicita, una assunzione disfunzionale, che guida un processo autovalutativo (come abbiamo visto precedentemente); ad esempio, la assunzione del tipo "valgo se ho successo, rispetto, o sono amato". Il paziente ed il terapista lavorano insieme per formulare, chiarire, ed esplorare i suoi aspetti sulle relazioni interpersonali, per tracciare le sue origini, e per valutare se essa sia coerente con altre informazioni e conoscenze che il paziente ha appreso su sé e sugli altri.Infine il paziente ed il terapista possono pianificare uno specifico tipo di test, sviluppato da Ellis e comune nella REBT, chiamato "shame-attacking" (esercizio anti-vergogna). La vergogna è una delle principali conseguenze di una autovalutazione globale di stupidità, inadeguatezza, inutilità, mancanza di valore, e così via. Questo esercizio è differente dal "risk-taking" in quanto non si chiede al soggetto di fare qualcosa per dimostrare che è capace a farlo, ad esempio, che è capace di fronteggiare qualche situazione difficile o acquisire qualcos’altro, per avere l’approvazione o il rispetto di qualcuno. L’idea è, invece, che il paziente intenzionalmente pianifica un fallimento un errore, e non certamente per avere approvazione o rispetto, ma per ricercare una brutta figura, in modo tale che possa riconoscere, emotivamente e intellettualmente, che egli può comunque sopravvivere a tali stimoli temuti e minacciosi indirizzati alla propria immagine (sia immagine sociale che autoimmagine, (De Silvestri, 1981a, 1981b; Castelfranchi, 1989; Miceli, Castelfranchi, 1992)), e che non ha alcun bisogno di vivere nella continua paura di essi. Il punto dell’esercizio è proprio la critica della assunzione disfunzionale generale che sottostà ad una valutazione globale personale - che le persone hanno valore solo se hanno successo, se sono amate, ecc.. Invece, il soggetto conferma e si confronta con la opposta convinzione, cioè che una persona ha valore anche se si comporta in modo sbagliato, non OK; e ciò semplicemente perché gli esseri umani sono fallibili. L’esercizio di "shame-attacking" ha bisogno di essere programmato con cura sia nei modi sia nei tempi, ma offre al soggetto una assicurazione emotiva potenziale più grande rispetto al "risk-taking" in quanto il paziente si confronta con le paure più direttamente.Pianificare gli homeworks, i compiti a casa, può essere una utile aggiunta alla seduta di terapia. Tutti i processi descritti possono essere organizzati in modo collaborativo con il paziente in forma di esercizi.Nella prescrizione dei compiti, deve essere per prima cosa tenuta presente la peculiare convinzione del paziente (disfunzionale), e la convinzione alternativa; inoltre, bisogna decidere se un compito è davvero un test per una certa credenza, e se è maneggevole e sicuro per il paziente; infine, organizzare la esecuzione dei compiti in una data precisa, e che sian5o possibilmente discussi nella seduta successiva.Solitamente, si usano gli homeworks con la maggior parte dei pazienti, ma alcune volte ciò non è possibile. Comunque, bisogna puntualizzare che raramente delle convinzioni vengono modificate con il lavoro intellettuale usato da solo, e che è utile il lavoro prativo dei compiti per avere informazioni e prove per testare le inferenze e le convinzioni disfunzionali, in quanto in tal modo si coinvolgono sia l’attivazione delle emozioni sia il comportamento reale del soggetto.L’ideale è che il paziente sia sinceramente motivato sia nel lavoro intellettuale che negli esercizi e nelle prove pratiche.
Conclusioni parziali
Un principio deve restare saldo: le persone si comportano in un certo modo in quanto agiscono sulla base di credenze e ragioni (Boudon, 1994; Miceli, Castelfranchi, 1995); tali ragioni appaiono ad essi perfettamente giustificate e fondate; tali informazioni, credenze e ragioni, devono essere l’obiettivo del trattamento cognitivo. La critica deve modificare il fondamento di ragioni disadattive e disfunzionali, e spingere il soggetto a formulare nuove evidenze e nuove ragioni per un comportamento alternativo.La base del cambiamento è la modificazione delle credenze, quindi ogni intervento ha come base razionale tale principio. Anche interventi tesi alla acquisizione di abitudini, svolte in base alla ripetizione, hanno lo scopo di sviluppare la formulazione, da parte del soggetto, di una buona ragione per acquisire quel comportamento, e per svolgere l’esercizio di ripetizione. In caso contrario, nulla viene mantenuto.Le persone dipendono dalle informazioni, sia dell’ambiente sia possedute da essi stessi; è di tali informazioni che il trattamento cognitivo deve occuparsi.
Parte 2
Micro-Tecniche cognitive
Le micro-tecniche non sono le "tecniche" nella psicoterapia, ma sono appunto pensate come interventi mirati alla risoluzione di problemi specifici. Sono appunto "micro" in quanto ognuno di tali interventi può essere più volte reiterato nel corso della seduta o essere usate in sequenza più micro-tecniche.Il quadro generale è il modello cognitivo ABC, dove il lavoro principale del terapista è quello di rendere le informazioni del paziente adeguate ad un trattamento. L’uso delle tecniche è visto come un aspetto particolare del più generale processo psicoterapeutico, e non facilmente pensabile al di fuori di un modello ABC (che ciò sia esplicito oppure no non ha tanta importanza).Una seduta può contenere un intervento o molti interventi diversi; questo dipende dagli scopi strategici del terapista e dagli specifici problemi trattati in seduta. Alcuni problemi sono particolarmente sensibili ad alcune tecniche o micro-tecniche specifiche, altri problemi rispondono a una varietà di interventi diversi; nella maggior parte dei casi specifici problemi sono trattati da specifici interventi.Le micro-tecniche non esauriscono gli interventi della psicoterapia, né sono di per sé l’intera psicoterapia; questi interventi sono gli strumenti operativi che il terapista usa in un contesto di psicoterapia, dove, naturalmente, vi sono altri accorgimenti necessari.Altrove (Dell’Erba, 1997a; Bergin, Garfield, 1994) sono stati discussi i cosiddetti "fattori comuni" delle psicoterapie che possiamo sintetizzare come segue:
1) Addestramento, allenamento, insegnamento, apprendimento, educazione, ....;
2) Concettualizzazione, esplorazione, chiarificazione, interpretazione, consiglio, ....;
3) Ascolto, incoraggiamento, supporto, sostegno, fiducia, dimostrazioni di affetto, ...
Le micro-tecniche non attengono ad uno specifico fattore generale (ad esempio, concettualizzazione, ecc.) ma sono distribuite variamente in tutti gli aspetti tecnici ed operativi della psicoterapia.Molti autori (Beck e collaboratori,1976, 1979, 1985, 1990;Emmelkamp, 1994; Freeman et al., 1990; Schuyler, 1991; Leahy, 1996; Norcross, Goldfried, 1992; Mahoney, 1995) dividono gli interventi, all’interno della psicoterapia cognitiva, in interventi cognitivi e interventi comportamentali; qui, non si farà questa distinzione. Ogni intervento, ogni micro-tecnica, è sia cognitiva che comportamentale, alcune volte un po’ più l’una dell’altra, e ogni intervento attiva sia processi cognitivi (inferenze, valutazioni, assunzioni disfunzionali, schemi) sia procedure comportamentali (verifica empirica, ripetizione, controllo, azioni specifiche). Ogni intervento è mirato ad un dato problema che può essere definito sia come processo mentale che come attivazione comportamentale. Ad esempio, tenere una scheda di automonitoraggio di un sintomo può essere sia descritto come comportamentale (una azione che è finalizzata) sia come cognitivo (un processo mentale che è orientato da uno scopo verso quella meta utilizzando le varie risorse attentive, mnestiche, percettive, discriminative, inferenziali, deduttive).Le micro-tecniche descritte non sono le uniche tecniche, interventi, o micro-tecniche esistenti e possibili; questo per almeno due ragioni: i modi per cambiare sono numerosi, e non tutti questi modi possono essere conosciuti alla stessa maniere da tutti i terapisti, sia cognitivi che di altri orientamenti. Le seguenti tecniche pratiche sono quelle che più sono usate da chi scrive.In generale, infine, può essere ricordato che vi sono molti modi per aiutare il paziente a modificare il proprio modo di funzionare, ad esempio nel B, e questo può essere riassunto con alcune considerazioni di Bandura (1994). Relativamente ai processi cognitivi coinvolti nel cambiamento utile al benessere, Bandura sostiene che le convinzioni di autoefficacia sono un prodotto complesso composta da autopersuasione, basato sull’elaborazione cognitiva di varie fonti di informazione acquisite attraverso l’azione, vicariamente, attraverso l’influenza degli altri, e interpretando i propri processi fisiologici. Ognuna di queste informazioni può essere oggetto di un intervento, o in altri termini, ognuna di queste variabili può essere modificata per costruire un intervento cognitivo in una psicoterapia (non solo cognitiva).
Capire i significati personali tipici
Solitamente, i termini usati dal paziente sono particolari, idiosincrasici, personali, e il terapista non può dare per scontato che un tale concetto sia padroneggiato e posseduto, o un certo termine sia usato nello stesso campo di applicazione. Spesso anche tra professionisti l’accordo sui riferimenti semantici di un termine, pur centrale o frequente o "alla moda", non è scontato. Inoltre, con pazienti aventi disturbi del pensiero, con particolari elaborazioni deliranti o subdeliranti, l’accordo sulla terminologia "tecnica" è pressoché nullo.In tale questione il terapista chiede chiarimenti su particolari termini usati dal paziente. Ad esempio un paziente può usare il termine ansioso per descrivere il proprio stato di ostilità, un altro può definire sè stesso come disgustato piuttosto che descriversi come deluso o come arrabbiato (ciò è tipico quando si ha a che fare con i termini riguardanti le emozioni).In sostanza, questo intervento ha lo scopo di aiutare il paziente ad esplicitare la propria specifica definizione del termine che usa, in modo da rendere comprensibile il modello implicito che ha per comprendere il fatto o l’evento a cui è o è stato esposto.Spesso, può essere utile soffermarsi sulla distinzione tra termini, in quanto ciò agevola sia la discriminazione successiva sia l’acquisizione di vocabolario condiviso che è un aspetto importante per il proseguimento degli interventi.Ovviamente, la richiesta di chiarificazione del terapista non deve risultare un atto di accuso o una indicazione di ignoranza, il che porterebbe il paziente a diffidare del terapista o a chiudersi "in difesa" da possibili svalutazioni.In alcuni casi, tuttavia, deve essere corso il rischio di richieste di chiarificazioni che appaiono scontate o banali ma che possono rivelarsi, ove si trascuri il chiarimento, fonte di equivoci.E’ sempre utile schematizzare o ricollegarsi al modello generale (ad esempio, il modello cognitivo ABC) in quanto il soggetto può non sapere ancora orientarsi o utilizzare concetti impiegati nel trattamento.
Analisi delle evidenze e dei dati
La richiesta di fornire la dimostrazione o l’evidenza sulla quale il paziente poggia le proprie credenze o il pensiero automatico disfunzionale è utile al terapista per verificare la consistenza dei dati e delle esperienze per poterle testare con il paziente.Tutte le persone usano certe proprie personali evidenze per mantenere o rafforzare una idea o una credenza. E’ utile insegnare al paziente ad identificare e mettere in discussione l’evidenza e i dati usati per mantenere le proprie idee inefficaci e disfunzionali. Per fare ciò deve essere identificata con chiarezza le fonte dei dati stessi e il ragionamento eventuale che il paziente effettua per dare rilevanza a essi.Porre l’accento sui dati dell’esperienza non è sempre un lavoro facile in quanto l’iniziale messa in discussione di una evidenza "sensoriale" o "percettiva" è un fatto indubitabilmente contro-intuitivo, tuttavia tramite questa tecnica il paziente può accedere alla migliore valutazione degli eventi; inoltre, il terapista può evidenziare come il soggetto abbia utilizzato determinati processi cognitivi o abbia commesso determinati errori cognitivi, e ciò è determinante per l’analisi del personale stile disfunzionale di ragionamento e quindi per l’eventuale addestramento e modificazione.Il terapista, in questa maniera, può disporre una modificazione dello stile attribuzionale del paziente e un allenamento mirante al miglioramento degli errori cognitivi.
Riattribuzione
Alcuni pazienti si prendono su di sè tutta la responsabilità degli eventi accaduti e di specifici errori o disgrazie che si sono verificate nella loro vita, altri invece non si curano affatto di analizzare la minima possibilità che in qualche circostanza possano aver giocato fortemente in senso causale sulle sorti di un qualche accadimento. Questa differenza tra le varie persone è dovuto alla differenza dello stile di attribuzione delle cause degli eventi, processo molto noto e molto importante nell’esame dei processi di ragionamento e di assunzione di responsabilità.Alcuni pazienti si lamentano profondamente sentendosi colpevoli di eventi apparentemente lontani e distanti da essi (senza un apparente legame causale ad occhio esterno), altri si lamentano per aver subito danni per colpa di altri, o per "colpa" del caso, senza alcuna attribuzione di propria responsabilità.In questi casi il terapista può aiutare il paziente a distribuire la responsabilità in modo ragionevole tra le relative parti in gioco. C’è da rilevare che, se il terapista prende una parte di troppo supporto il paziente può classificarlo come un amico o familiare che comunque, come tutti gli altri non può essergli di aiuto perché "non può capirlo in ciò che prova", se invece il terapista tende a caricare troppo i paziente di responsabilità egli si potrà sentire attaccato o criticato troppo duramente e con ciò abbandonare il rapporto terapeutico, agire contro il terapista, commettere un atto di protesta, o agire contro sè stesso sentendosi senza speranza.Il terapista può agire invece prendendo un posizione mediana aiutando il paziente a riattribuirsi le proprie responsabilità ragionevolmente senza prendersi tutte le critiche o le lamentele da parte di altri o da sè stesso.Il concetto chiave che può essere spesso riaffermato è che il soggetto è responsabile sia delle proprie attività mentali (desideri, credenze, scelte, errori, ...) sia delle proprie emozioni, come anche della propria condotta.
Esaminare le opzioni e le alternative
Questa strategia cognitiva riguarda il lavoro con il paziente teso a generare opzioni aggiuntive. Se il paziente ad esempio crede di avere una sola scelta, quella di uccidersi, e di avere esaurito le altre a disposizione, allora è molto probabile che egli potrà portare a termine l’intenzione suicida; se il terapista adotta una posizione secondo la quale il suicidio è "sbagliato", "inutile", "illogico", o altro, egli correrà il rischio di essere in diretta opposizione col paziente; il conflitto di posizione potrà portare il paziente ad un atteggiamento di sfida, oltre che alla possibile rottura del rapporto, e ovviamente al rischio di comportamenti dannosi per sè. Il compito primario del terapista è sempre quello di generare scelte possibili e credibili, non di screditare quelle possedute dal paziente, almeno in un determinato tipo di situazioni (come nel rischio di suicidio).Quando il paziente ha scelte ed alternative per pensare e nelle quali credere, egli ha una scelta più grande ed è quindi più libero. Molto spesso i pazienti ansiosi (anche quelli con attacchi di panico) o quelli depressi considerano le cose per un solo verso ed hanno presente l’aspetto più negativo delle situazioni, come pure credono di non "avere scampo", o essere "intrappolati" in varie situazioni ed in varie modalità; in queste situazioni quando il paziente inizia a considerare credibilmente altre opzioni e altri modi di vedere o considerare le cose iniziano ad assumere più controllo sul proprio pensiero e sul proprio comportamento.
Decatastrofizzare
Se il paziente vede un esperienza come potenzialmente catastrofica, il terapista può aiutare il paziente a considerare se egli non stia sovrastimando la natura catastrofica della situazione. Ad esempio il terapista può proporre "cosa può farti di male ciò?", oppure "che danno particolare ti comporta ciò?", o anche "se ciò accade come pensi che ti sentirai fra un mese (o una settimana, o altro)?" Il terapista propone degli stimoli tendenti a "forzare" una visione diversa della situazione, una prospettiva meno a senso unico, meno catastrofica. Se il paziente considera lo stimolo minacciante o il pensiero negativo o la situazione da evitare come l’aspetto centrale della propria vita allora l’ansia o la depressione o l’emozione specifica associata alla situazione sarà intensa e drammaticamente resistente, ma se il terapista riesce a decentrare o articolare l’interesse del paziente su più aspetti o parti dello stesso aspetto generale allora l’aspettativa di "rimanere senza niente" o "essere scoperto (nel senso di esposto)" o anche "perdere l’unica cosa che ..." perderà importanza. E’ importante che il terapista riesca a promuovere nel paziente una prospettiva realistica delle conseguenze associate ad una certa situazione temuta o evitata. Un aspetto non secondario è la sensibilità del terapista nell’evitare di esporre il paziente ad autovalutazioni negative, o che si senta ridicolizzato o sminuito, mentre affronta il compito di prospettarsi il danno realistico piuttosto che il danno irrazionale e catastrofico, e lo stesso vale per le conseguenze associate.Alcune volte è utile fare l’esperienza dalla situazione per ricavarne il dato realistico altre volte è utile il ricordo soltanto, ma il paziente deve essere stimolato al confronto tra le proprie aspettative riguardo allo stimolo (un pensiero, un segnale dal proprio corpo, una certa situazione sociale) e delle valutazioni più moderate e realistiche.
Fantasticare le conseguenze
In questa tecnica si chiede al paziente di esporre le fantasie e le immagini riguardo ad una certa situazione problematica. Spesso il paziente mentre descrive i dettagli a riguardo evidenzia delle credenze del tutto irrazionali ed irrealistiche. Se il paziente esprime delle fantasie realistiche il terapista ha la possibilità di addestrare il paziente a migliori strategie nel padroneggiare il pericolo temuto o la situazione problematica; se il paziente invece produce delle fantasie irrealistiche sulle conseguenze allora il terapista può confrontarlo con i suoi dati disponibili o con altre situazioni simili.L’utilità del produrre fantasie è che, insieme al materiale immaginifico, il paziente produce credenze e teorie sulle cose e sugli avvenimenti, nella forma esemplificativa di singole situazioni, e dunque il terapista può disporre di materiale potenzialmente disponibile all’analisi di distorsioni logiche o alla evidenziazione delle valutazioni personali del paziente in relazione a specifiche situazioni critiche.Infine, il tentativo di previsione effettuato dal paziente attraverso l’immaginazione è esso stesso un veicolo di costruzione o ristrutturazione dei dati in possesso, nel quale viene modificato l’assetto di dati di conoscenza implicita o tacita in dati espliciti disponibili all’analisi e alla modificazione.
Analizzare vantaggi e svantaggi
Avere una lista dei vantaggi e degli svantaggi riguardo al mantenere o cambiare alcune proprie credenze o comportamenti può aiutare il paziente a raggiungere maggiore equilibrio e prospettiva. Una tecnica di graduazione può aiutare il soggetto ad abbandonare un atteggiamento cognitivo "tutto o niente" per acquisire uno che prenda in considerazione le possibilità eventuali dell’esperienza, e quindi considerare i sentimenti, i comportamenti, o le credenze come aventi sia qualità negative che positive.Se un paziente che ha una visione assolutistica di un aspetto della propria vita acquisisce la possibilità di considerare sia l’aspetto negativo che quello positivo dell’evento (o degli eventi) allora egli può raggiungere una più ampia prospettiva nel considerare gli stessi fatti, e ovviamente concettualizzarli in modo più completo e ricco.Questa tecnica può essere usata nell’aiutare il paziente a scegliere un modo di azione piuttosto che un altro, a vedere un fatto in un modo o in modo diverso, a considerare certi sentimenti piuttosto che altri. L’aiuto fornito dal terapista consiste soprattutto nel fornire adeguati casi o stimoli concernenti le parti opposte a quelle possedute e cristallizzate dal paziente. Certo è che l’analisi di punti nuovi di osservazione, di elementi non congrui con schemi posseduti, e comunque ogni stimolo che spinga il paziente a delle accomodazioni non è una via semplice ed agevole; il terapista deve considerare continuamente lo sforzo fatto dal paziente nella modificazione delle credenze possedute per non esporre il soggetto a sentimenti di incomprensione e svalutazione.Il paziente può utilizzare una modalità molto pratica di valutare i vari punti connessi ad una questione, ponendo i vantaggi da un lato e gli svantaggi dall’altro (in colonne) e pesando ogni item, per poi valutare nell’insieme la situazione. Questa tecnica può aiutare il soggetto anche a "vedere" una situazione nell’insieme, nelle sue diverse ed opposte articolazioni, e ciò aiuta a prendere decisioni ragionevoli.
Modificare gli svantaggi in vantaggi
Ci sono delle volte in cui un fatto negativo può giocare un ruolo positivo per il paziente, e quindi una prima valutazione negativa può essere sostituita da una successiva valutazione positiva. Ci sono dei pazienti che secondo il loro umore e il loro stato possono non vedere assolutamente l’aspetto positivo della situazione, tanto da considerare il terapista un ingenuo o un inguaribile "ottimista", ma il lavoro per la ristrutturazione di una nuova prospettiva deve essere pazientemente tentato sempre poggiandosi su una base realistica. Ogni situazione è costituita da un lato positivo e da uno negativo, a secondo delle premesse e dell’umore del soggetto, ma è anche vero che ogni punto di vista può essere cambiato se il cambiamento si accorda con una buona relazione tra paziente e terapista, in modo che i dati proposti dal terapista siano considerati dal soggetto nella giusta luce e secondo la gradualità proposta dal terapista stesso. Spesso le proposte del terapista sono giudicate irrealistiche dal paziente il quale considera la propria posizione quella vera, allora può essere utile per il terapista trasformare entrambi i punti come estremi ed irrealistici e puntare in collaborazione con il paziente verso una posizione intermedia, che a volte è necessario costruire o formulare partendo da zero.
Etichettare le distorsioni
La paura dell’ignoto è frequentemente uno degli aspetti salienti nei resoconti dei pazienti ansiosi. Il terapista allora può aiutare il soggetto ad identificare ed etichettare i meccanismi del fenomeno come le proprie distorsioni cognitive, e facendo ciò molto spesso l’ansia associata diminuisce.Uno dei primi passi verso l’auto conoscenza è una identificazione degli errori del proprio pensiero. In terapia, i pazienti possono trovare utile etichettare le particolari distorsioni cognitive che essi notano ed identificano nel proprio pensiero automatico e nell’analisi delle proprie valutazioni. Può essere spesso utile fornire al paziente una lista di riferimento delle comuni distorsioni cognitive, oppure discuterla in seduta anticipatamente. Una volta apprese le comuni distorsioni, il paziente è in grado di autocorreggersi o quanto meno di auto segnalarsele, per poi eventualmente lavorare su di esse in seduta.Un’altra utilità associata a questa tecnica è quella di acquisire lo stesso linguaggio, e così procedere più speditamente e senza fraintendimenti. In questo modo il paziente, pian piano inizia a "vedere" gli eventi dal punto di vista cognitivista, essendo le etichette non meramente parti del vocabolario del terapista ma strumenti di lettura dei meccanismi cognitivi impiegati dalle persone.Un accenno deve essere fatto alla questione delle etichette delle emozioni, dove è sempre necessario chiarire non soltanto i termini associati ai singoli stati emotivi espressi (in vario modo) dal paziente ma anche dare un accenno sulla natura delle emozioni di base, del loro radicamento evolutivo, del significato che ciascuna ha per l’uomo in genere, e a quali scopi ciascuna risponde. Tali chiarimenti non devono ovviamente assumere l’aspetto di una "lezione" ciò nondimeno è utile discutere con il paziente di tali concetti.
Associazioni guidate e scoperta
Spesso con semplici domande è possibile indagare i significati personali connessi a determinate esperienze di vita del paziente. Domande come ad esempio " E allora?", "Che cosa potrebbe significare ciò?", "Che cosa potrebbe succedere se...?", "Cosa ti succederebbe nel caso che ...?", "Quale è il tuo personale danno... ?", possono evidenziare lo schema posseduto dal soggetto nella elaborazione dell’evento, e contribuire a "smontare" quello schema preconfezionato al quale il paziente fa’ continuo e generale riferimento. La esplorazione che il paziente intraprende è la concatenazione di idee secondo una logica e un percorso che guida il paziente verso un potenziamento di conoscenza e di prospettiva sia personale che ambientale.Può essere molto utile per il paziente esprimere liberamente delle associazioni riguardo un certo stimolo o situazione-stimolo proposta dal terapista in modo tale che siano accessibili nel contesto della seduta idee, credenze, immagini che contribuiscono a determinare nelle rappresentazioni del paziente stimoli di innesco di schemi emotivi e cognitivi posseduti dal paziente, che sono più vicini al contesto naturale di vita.
Paradossi ed esagerazioni
Portando un’idea al suo estremo, il terapista può aiutare il paziente ad affrontare una credenza più direttamente. Certamente, il terapista deve essere molto cauto nel non ridicolizzare, insultare, o imbarazzare il paziente. Quando il terapista accentua un atteggiamento estremo, focalizzando termini assoluti come "mai", sempre", "nessuno", "tutti", ... il paziente spesso sarà spinto a modificare il suo atteggiamento da una visione estrema ad una posizione più mediana. C’è comunque un rischio che il paziente, ad esempio depresso, possa prendere sul serio tale intervento del terapista e vedere confermato il proprio sentimento di mancanza di speranza, oppure ad esempio nel paziente fobico, vedere confermato il rischio del pericolo personale.Il terapista che usa tale intervento deve tenere sotto controllo i seguenti criteri: a) un forte relazione con il paziente, b) tempo a disposizione, c) un buon livello di sensibilità per sapere quando uscire dal paradosso, d) un buon senso dell’umorismo.
Graduazione
Spesso, per quei pazienti che vedono le cose in un modo "tutto o niente" la tecnica di graduazione, cioè il porre le cose su un continuum, può essere molto utile.La graduazione di un livello di una convinzione o di una emozione può aiutare il paziente ad utilizzare la strategia di prendere distanza e acquisire prospettiva. Siccome il paziente è ad un punto estremo nel suo pensiero e nella propria convinzione, ogni movimento verso un punto medio sarà utile.Molti terapisti hanno adottato questa tecnica semplice, ed infatti la sua utilità è proporzionale alla sua semplicità.Il paziente è spinto a valutare il proprio stato emotivo, o la gravità del proprio problema o della situazione temuta e simili; una volta assegnato un valore al dato in questione, il terapista può chiedere al paziente di assegnare un valore alla situazione più piacevole, ad esempio, che ha mai provato in assoluto, che egli ovviamente ricordi, al quale si assegnerà il valore minimo di 0 oppure di 1; una volta fissato il "fondo-scala" il terapista chiederà al paziente di assegnare un valore alla situazione o problema che più di ogni altro lo ha esposto allo stato in questione (depressione, ansia, panico, rabbia, vergogna, ....), stato al quale si assegnerà il valore di 100; fissati i due estremi della scala di riferimento personale si chiederà al paziente di valutare nuovamente la situazione o problema attuale; si osserverà, nella maggior parte dei casi che il valore iniziale è diminuito per effetto dei riferimenti personali fissati dal paziente stesso. Questo cambiamento di valutazione non solo avviene sul piano quantitativo, ma anche indica un cambiamento di prospettiva, una visione del problema sulla base di informazioni personali più immediatamente disponibili.
Sostituzione di immagini
Non tutto il pensiero automatico ha una natura verbale. Le immagini e le fantasie del paziente costituiscono anch’esse materiale proficuo ad essere trattato in terapia. Se il paziente ha immagini disfunzionali, lo si può aiutare a generare nuove immagini dove egli rappresenta capacità di affrontare più efficacemente e funzionalmente le situazioni, e a sostituirle a quelle depressogene ed ansiogene (o stimolanti altri stati emozionali).Molto spesso la generazione di immagini funzionali positive è parte degli allenamenti degli atleti, i quali in tal modo si rappresentano le capacità di riuscita nel compito, aiutandosi ad attivare lo slancio e la necessaria energia per riuscire.La sostituzioni delle immagini può avvenire sia in stato di quiete e rilassamento, sia in relazione a pensieri o a situazioni stimolo in un contesto naturale, ma anche durante la eventuale compilazione di schede di raccolta di pensieri disfunzionali dove la sostituzione delle immagini potenzia l’effetto della critica dei pensieri disfunzionali.Inoltre, l’analisi delle caratteristiche delle stesse immagini disfunzionali permette la creazione dello specifico scenario coerente con le situazioni naturali che innescano gli stati emotivi negativi, così da calibrare le nuove immagini da sostituire in maniera armonica e congruente con il resto della situazione stimolo.
Esternalizzazione di voci e pensieri
Un metodo per trattare direttamente con i pensieri disfunzionali è quello di intrattenere il paziente in una sequenza di interazione verbale, dove il terapista eventualmente recita la parte delle ideazioni disfunzionali mentre il paziente è impegnato a criticarle e rispondervi adattivamente. All’inizio, il terapista può egli stesso rispondere produttivamente mentre il paziente gli comunica "on line" le proprie ideazioni disfunzionali, come in un processo di graduale allenamento (modellamento). Successivamente, il paziente potrà egli stesso dirigere le proprie critiche alle ideazioni "ad alta voce" portate dal terapista, il quale incrementerà sempre più, ma in modo graduale, il livello delle difficoltà. Questo metodo permette di studiare sia lo stile di adattamento del paziente sia il livello di acquisizione nella modificazione delle distorsioni ideative. Quando si esternalizzano le "voci" disfunzionali, sia il paziente sia il terapista sono in una posizione migliore per modificare le "voci" o "messaggi" in una varietà di modi più utili e funzionali. Il paziente può in questo modo riconoscere le caratteristiche irrazionali e disfunzionali in modo più chiaro e pieno. Anche il terapista è facilitato focalizzando più chiaramente il dialogo interno sia nello studiare le caratteristiche dell’eloquio del paziente cioè il tono, il contenuto, il contesto, le ambiguità pragmatiche, ma anche può egli stesso fungere da modello in alcune interazioni più critiche.
Ripetizione cognitiva
Questo metodo è una applicazione consequenziale di alcune altre tecniche precedenti. Generando, ad esempio, nuove più funzionali immagini il paziente può ripeterle varie volte in mente in modo tale che esse diventino patrimonio della conoscenza del paziente stesso; inoltre, mediante la ripetizione egli può sviluppare anche delle alternative, e ciò aumenta le coping skills in situazioni critiche. La ripetizione cognitiva favorisce lo sviluppo di routine che gradualmente vengono poi usate e padroneggiate dal paziente. Alcune applicazioni della ripetizione sono usate per scopi opposti: la ripetizione di una azione o di un pensiero lo rende quasi-automatico, ma prima di diventarlo il contenuto in questione è sotto una osservazione piuttosto intensa; tale attenzione rende il contenuto della ripetizione snaturato, irreale, scollegato dalla naturale rete di associazioni di significato. Ad esempio, un nome ripetuto molte volte appare strano e "anormale". Tale aspetto della ripetizione è utile in almeno due situazioni: quando un soggetto è allarmato a causa di un pensiero intrusivo, verso il quale attribuisce valenze intense e catastrofiche; e quando un soggetto attribuisce una valenza di estraneità ad un pensiero di cui si scandalizza.
Autoistruzioni
Solitamente, ciascuno di noi parla con sè stesso. Questo vuol dire che abbiamo la naturale dote di dare a noi stessi ordini, direttive, istruzioni, o altre informazioni necessarie a risolvere i vari problemi che si presentano. Vari autori hanno sviluppato modelli per comprendere le auto-istruzioni; ad esempio, il soggetto inizia il processo di istruzione partendo da verbalizzazioni ad alta voce di istruzioni efficaci, per poi passare a verbalizzazioni subvocali, per poi giungere a auto-istruzioni verbalizzate in mente (e infine "istruzioni" routinarie senza il proprio carattere verbale). Questo processo è utile sia nell’adulto che con soggetti in età evolutiva. Una applicazione tipica è nelle istruzioni mirate all’auto-controllo in problemi di comportamento impulsivo. I soggetti praticano le istruzioni nei vari passi graduali, fino allo stadio delle autoistruzioni "cognitive".Possono applicarsi anche istruzioni contrarie o "contro-istruzioni"; in questo caso le istruzioni non hanno il valore di istruzioni di comportamenti di efficacia ma svolgono più il ruolo di pensieri distraenti, di strategie di "decompressione", di modalità di ristrutturazione dello stimolo o dell’evento scatenante.
Stop del pensiero
I pensieri disadattivi e disfunzionali hanno spesso un effetto a cascata per il soggetto. Un pensiero o una riflessione su un dato evento può partire come un qualcosa di inizialmente insignificante ma può se "lasciato libero" acquistare peso e forza. Questo vuol dire che spesso gli individui valutano i propri pensieri e le proprie considerazioni attribuendo valutazioni a catena, e generando circoli e problemi secondari. Una volta creati, questi processi disfunzionali hanno un tale impatto sull’individuo che può essere difficile bloccarli. Ad esempio, un paziente depresso può generare una catena di considerazioni sulla minaccia da parte degli altri e della durezza della vita che può condurlo velocemente al suicidio.Una tecnica utile in queste situazioni, nello stadio precoce ed iniziale del processo, è lo "stop del pensiero". Per fare questo il terapista può addestrare il soggetto a raffigurarsi in mente la parola "Stop", oppure può scriverla su un foglio e indicarla ed utilizzarla all’occorrenza nella seduta, oppure può attribuire il significato di "stop" ad un gesto che all’occorrenza può fungere da segnale per il paziente e un ausilio per lo stesso paziente a rafforzare il comando di "stop". Possono essere utili vari modi per indicare il comando di "stop", da segnali visivi, a stimoli acustici come campanelli o altri rumori, o segnali cenestesici e tattili. Ognuna di queste procedure è usata nella fase di partenza del processo, ed è molto utile nel bloccare lo sviluppo e la progressione dei pensieri.I vari segnali usati per indicare il comando di "stop" sono utili anche per il valore mnemonico che possono avere; infatti essi possono costituire un aiuto e un sussidio per il paziente, il quale avendo applicato in seduta tale comando si ricorda di esso con più efficacia. Questa tecnica ha un valore duplice: è sia distraente, in quanto si propone un segnale all’attenzione distogliendola da un certo stimolo attivo fino a quel momento, ed è anche avversiva in quanto si contrappone una intenzione ad una intenzione contraria. Lo scopo principale è quello di permettere al paziente di riacquistare il senso del controllo del proprio pensiero attraverso un modo tangibile e perciò rassicurante.Questo tipo di procedura è utile per contrastare la modalità frequente che i soggetti utilizzano nel fronteggiare un pensiero (intrusivo) non voluto, sia scandalizzante che rifiutato o ancora giudicato estraneo. Se il soggetto intenzionalmente si sforza di non pensarlo incorre nel famoso "paradosso della intenzionalità" pensandolo in realtà molto più di prima in quanto controllerà se lo sta pensando momento per momento. Una modalità adattiva consiste nell’impegnarsi in un compito selezionato che ha un valore di interesse e di utilità reale per il soggetto (non è scelto a caso.Una variante è quella di indirizzare lo "stop" non al pensiero intrusivo ma alla valutazione negativa del soggetto; lo stop ha la funzione di blocco delle valutazioni disfunzionali ma anche quello di costruire tendenzialmente una rappresentazione sempre meno convincente delle originarie valutazioni. Questa variante punta allo sviluppo di un atteggiamento di accettazione dei propri contenuti mentali.
Focalizzazione
Tutte le persone hanno un limite nella quantità di cose che possono pensare o tenere a mente contemporaneamente. Occupando la propria mente con pensieri neutri o positivi, il soggetto può bloccare il pensiero disfunzionale per un periodo di tempo. Questo processo può essere fatto attraverso il contare, il visualizzare immagini di calma o piacevoli, o porre attenzione su stimoli esterni (oggetti, luci, sensazioni tattili, ...). Sebbene esse sia una tecnica a breve termine può essere utile per permettere al paziente di avere il tempo per fare una valutazione, o un dato comportamento, o mettere in pratica qualche sequenza di una strategia terapeutica più complessa. Spesso, il paziente ansioso pone eccessiva attenzione sulle proprie sensazioni corporee e così facendo le interpreta catastroficamente; se il soggetto orienta all’esterno il proprio focus attentivo può contare maggiormente sulle proprie facoltà di ragionamento. Alcuni stimoli esterni possono servire d’aiuto: un accessorio nell’abbigliamento di chi ci sta di fronte, il muro di fondo di un ambiente, il colore di un oggetto, le sensazioni tattili delle nostre dita, ecc...La focalizzazione può essere di aiuto anche per lo scopo opposto, cioè aiutare il paziente a percepire sensazioni e segnali utili del proprio stato. Molti soggetti possono aumentare la propria consapevolezza del proprio stato emotivo e dei segnali fisiologici per orientarsi e meglio definire e categorizzare le proprie reazioni (ciò contrapposto al caos interno ed alla confusione rispetto alle proprie reazioni).
Discussione diretta
Molte volte può essere di aiuto discutere direttamente con il paziente di questioni che sono al centro della sua attenzione, in special modo quando la situazione richiede un intervento forte per evitare un comportamento impulsivo o autolesivo del paziente. Il terapista in questi casi può rapidamente e direttamente affrontare e discutere le cognizioni centrali attive del paziente, ad esempio la mancanza di opzioni e di speranza nel soggetto depresso con rischio di suicidio, anche se esso deve essere usato con molta cautela per non stimolare reazioni passivo-aggressive o oppositive del paziente. La base di interventi di discussione diretta è più efficace ed utile quando c’è una rapporto consolidato con il soggetto.Gran parte della seduta può essere impegnata nell’affrontare questioni e punti poco chiari o problematici in uno stile di diretta confrontazione, e spesso le informazioni che se ne ricavano sono utili per un riesame della base dati raccolta con schede o altri strumenti. Infatti, alcuni soggetti possono più facilmente entrare in un atteggiamento naturale e proprio in una discussione che invece in un lavoro di ricostruzione o di dialogo immaginato svolto per proprio conto. Non è raro che soggetti con scarse informazioni contenute negli strumenti come schede o diari manifestino cognizioni disfunzionali se stimolate e raccolte direttamente, "on line".
Dissonanza cognitiva
Spesso può essere utile cercare delle aree di conflitto nel soggetto al fine di creare uno stato di "ansia" o di necessità di soluzione. Questa tecnica se da un lato può apparire paradossale dall’altro permette di prendere in considerazione una sfera importante in un modo più centrato in vista della soluzione, in quanto l’attivazione determinata dalla valutazione del conflitto genera delle tendenze all’azione tesa proprio alla riduzione di questa dissonanza. Certamente, la composizione della dissonanza deve essere ben padroneggiabile dal terapista ed essere terreno familiare al soggetto, in quanto un dato materiale nuovo o sorprendente costituirebbe invece una spinta più probabilmente impulsiva e non controllabile. Soggetti che ad esempio, sottovalutano le conseguenze del proprio comportamento possono utilizzare efficacemente la dissonanza agendo in modo più utile per ridurre i conflitto una volta che è stato generato.
Compilazione di una scheda o un diario
Molto spesso, il terapista chiede al paziente di porre la propria attenzione su specifici comportamenti, sia sintomi clinici sia azioni o pensieri neutrali; questa attività di osservazione è una parte importante della terapia cognitiva in quanto mira sia alla raccolta di dati empirici sia cerca di modificare l’atteggiamento del paziente che frequentemente è rigidamente bloccato in una posizione pregiudiziale (top-down) riguardo ai propri malesseri e problemi. Il compito di raccogliere dei dati è, anche di per sé, benefico in quanto introduce un elemento di operatività che alcune volte è assente nella situazione problematica del paziente; si dice spesso che lo stesso monitorare la depressione la diminuisce: ciò, se pur esagerato, è in parte giusto, in quanto il soggetto inizia a differenziare la propria situazione, anche solo relativa al sintomo-bersaglio, da una valutazione assolutistica, globalizzata, generalizzata, dicotomica, egli tende verso una valutazione più moderata, differenziata, articolata, graduata.Le schede di auto-monitoraggio possono essere autocostruite insieme al paziente, e calibrate sullo specifico compito; alcune schede possono contenere due colonne, una per le date di ciascuna osservazione, l’altra per il tipo di dato. Il dato raccolto può essere un punteggio di intensità di quel sintomo o di quella emozione, oppure può essere un punteggio medio di una giornata, o può essere un punteggio relativo alla frequenza di un comportamento. La scheda può avere più colonne, ciascuna per una informazione diversa che è utile raccogliere: ad esempio, data, situazione, intensità del sintomo, intervento del paziente, nuova intensità del sintomo.La tipologia delle schede è varia, e viene modificata dai diversi autori in riferimento allo specifico obiettivo. E’ importante tenere presente che la scheda è uno strumento operativo indirizzato alla raccolta di informazioni e quindi sono le informazioni che devono essere l’obiettivo non la mera compilazione di una qualsiasi scheda.Anche i diari sono utili se concepiti come resoconti del paziente in risposta a specifici stimoli o situazioni concordate con il terapista. Spesso, inizialmente, il paziente produce resoconti non pertinenti a situazioni concordate o dove non è facile capire il nesso tra un A ed un C, o tra un B ed un C (nel modello ABC). Ciò deve essere un segnale per il terapista il quale deve ridiscutere con il paziente le modalità di raccolta delle informazioni al fine di accordarsi su obiettivi specifici e su situazioni mirate utili per il lavoro psicoterapeutico (non tutta la vita del paziente è utile, né tutte le sue osservazioni casuali, né tantomeno le lunghe descrizioni di qualche situazione, sebbene tutto questo sia sempre e comunque interessante e prezioso ad altri livelli).Le schede, inoltre, sono parte integrante di interventi di modificazione di processi cognitivi e di ristrutturazione.Uno degli aspetti più evidenti del carattere cognitivo del monitoraggio e uso delle schede è quello relativo alla compilazione delle attività piacevoli. Il soggetto descrive l’andamento di attività piacevoli nella giornata, la frequenza di esse, e il grado di piacevolezza. Questo compito non ha soltanto, come è evidente, un valore di raccolta di informazioni ma la stessa raccolta di tali informazioni, l’essere cioè "sotto osservazione", tende a sviluppare tali attività ed a elevare il grado di piacevolezza. Tale effetto si spiega perché il soggetto una volta centrato il focus su tali attività le nota maggiormente, e notandole le discrimina in rapporto ad altre attività della giornata; egli quindi articola e discrimina in modo più adeguato le proprie azioni e le proprie valutazioni sulle attività che intraprende.
Ristrutturazione cognitiva
In generale, le caratteristiche della ristrutturazione cognitiva sono quelle del modello ABC generale, cioè della raccolta delle informazioni su A, B e C, e della relativa discussione e modificazione del B.Descritta come uno specifico intervento, la ristrutturazione cognitiva è caratterizzata dalla raccolta delle cognizioni attraverso una scheda a colonne, e dalla modificazione delle valutazioni o delle inferenze del soggetto. Un tipico esempio può essere il seguente: il soggetto fissa un A, un evento o una situazione che lo ha colpito ( C), poi fissa un C valutando la intensità (ad esempio da 1 a 10), poi cerca di descrivere i contenuti mentali che ha attivato, nella colonna accanto descrive il proprio intervento "tecnico", ed infine rivaluta la intensità del proprio C.La tipologia degli interventi di ristrutturazione è classicamente caratterizzata da due diversi modi: una prima variante si occupa della modificazione delle cognizioni attraverso la formulazione di una spiegazione alternativa, o più spiegazioni alternative, e una seconda variante che si pone l’obiettivo di modificare il B attraverso un test empirico. In ognuna delle due varianti il soggetto rivaluta il C dopo aver prodotto l’intervento adattivo (spiegazione alternativa o verifica empirica).
Esposizione
L’esposizione è parte di una più generale strategia di trattamento, ed è una delle procedure tecniche più usate in assoluto. L’efficacia della esposizione è altamente positiva, tanto che tale tecnica è confrontata con altri pacchetti terapeutici molto complessi, o anche con altre psicoterapie di orientamento diverso.L’esposizione può essere, classicamente, sia graduata sia diretta, oppure può essere sia "in vivo" sia immaginativa; queste varianti hanno una efficacia terapeutica diversa, infatti la procedura più efficace in assoluto è l’esposizione graduata in vivo; tuttavia, i vari modi di attuare una esposizione dipendono strettamente del tipo di problema che il paziente ha esposto e sulla strategia portata avanti dal terapista. Ad esempio, un paziente può lavorare sulla esposizione ad una situazione non reale o assai rara, e quindi non potrà organizzare una esposizione in vivo. L’esposizione è un procedura che si ritrova in numerose tecniche maggiori, come ad esempio la Desensibilizzazione Sistematica di Wolpe, e contribuisce con la propria efficacia al successo di tecniche che altrimenti, forse, non avrebbero tanta popolarità.L’esposizione può essere indirizzata ad una varietà di stimoli o sintomi o situazioni problematiche in quanto il senso di questo intervento è quello di permettere al soggetto di accostarsi ad un dato concreto per verificare se esso è gestibile (se la intensità del C è gestibile, e se le valutazioni sulla propria efficacia a gestire quella situazione, nel B, sono adeguate o meno). Gli effetti della esposizione sono tali da modificare le percezioni del soggetto nei riguardi dello stimolo scelto, modificare le valutazioni disfunzionali, modificare le convinzioni di efficacia personale nel controllo e nella gestione della situazione scelta, ed infine permette al soggetto di riprendere le attività che aveva abbandonato. L’esposizione è il contrario del comportamento di evitamento, e potrebbe sembrare ingenuo che un soggetto che evita poi si esponga; in realtà tutti i soggetti che evitano sono capaci di esporsi gradualmente, se l’esposizione è concordata e definita con il paziente, e nella quale è chiaramente definito l’obiettivo di questa procedura.La natura degli stimoli che sono oggetto della esposizione possono essere tanto interni quanto esterni, possono essere sia sensazioni interne (come nelle procedure per il trattamento degli attacchi di panico, ipocondria, ossessioni) sia situazioni esterne (agorafobia, fobia sociale, depressione); la natura della procedura di esposizione è la medesima sia con stimoli esterni che con stimoli interni: il soggetto si accosta ad uno stimolo verso il quale attiva cognizioni disfunzionali sia verso l’oggetto della esposizione sia verso di sé nei rapporti con lo stimolo stesso.L’esposizione è usata come parte di altre procedura quali la verifica delle evidenze e la verifica empirica, ed usata in combinazione con le attività di raccolta di informazioni come le schede o i diari. L’uso della esposizione può rapidamente far recuperare al soggetto tutta una serie di abilità e di poteri che aveva abbandonato a causa del disturbo.
Prevenzione della risposta
La prevenzione della risposta ovvero l’astinenza nell’emettere una specifica risposta è spesso utilizzata nel trattamento delle compulsioni e dei disturbi d’impulso. Il paziente può cercare di identificare il momento in cui l’impulso a compiere un certo comportamento diventa molto intenso. La compulsione può essere qualsiasi comportamento che il soggetto si sente spinto a compiere, per una ragione di controllo, di annullamento di pensieri (intrusivi), di cerimoniali, etc. Il soggetto, mentre crede nella assoluta imprescindibilità della compulsione, può gradualmente confrontarsi con l’assenza di tale comportamento. La richiesta di astenersi dal compiere un comportamento deve essere fatto in un contesto di collaborazione e verifica empirica delle inferenze ed assunzioni del soggetto. Spesso la prevenzione totale della risposta può scoraggiare il paziente, perché troppo impegnativa; invece, può essere utilizzata la astinenza graduale, sotto la forma di un "record personale". Il soggetto può poi concedersi di ritornare all’emissione della compulsione. In un piano programmato, il paziente si espone allo stimolo che innesca la compulsione, e prova la propria resistenza, in un aumento graduale di astinenza. L’effetto è duplice: primo, il soggetto può verificare che astenersi non porta a conseguenza catastrofiche, inoltre che le proprie inferenze ed assunzioni possono essere suscettibili di modificazione. La prevenzione della risposta può essere indirizzata ad una varietà di comportamenti, cioè tutti quelli che il soggetto ritiene incontrollabili e costrittivi.
Interventi psico-retorici: le disfunzioni degli atteggiamenti intenzionali
Premessa
L’elenco che segue più sotto rappresenta un esempio, abbastanza rappresentativo, di atteggiamenti perseguiti consapevolmente che producono sofferenza in quanto irrazionali, paradossali (in quanto non possibili), implausibili.Tali atteggiamenti sono credenze che guidano scopi nella condotta, e dunque sono l’elemento causativo di sofferenza. In sostanza, la inadeguata composizione di un piano di condotta, cioè credenze e scopi pianificati, porta il soggetto a scontrarsi con delle ripetute invalidazioni del suo obiettivo: tutto ciò non è sufficiente a stimolare il soggetto a modificare i suoi scopi finali.Gli atteggiamenti inadeguati sono sovraordinati rispetto a tentativi e specifiche interazioni del soggetto, ed in conseguenza di tale dato il mantenimento di una determinata intenzione inadeguata comporta l’inefficacia dei tentativi di soluzione che il soggetto impiega; tutto questo anche prescindendo dal fatto che il soggetto si sia reso conto che il problema da risolvere riguarda la intenzione di base e non le conseguenze comportamentali e psicologiche. Un soggetto, ad esempio, può capire che insistere nelle richieste di dipendenza non porta i suoi frutti ma persevera in quanto non ha esaminato seriamente il fatto che è quello stesso scopo ad essere inadeguato, e questo in quanto non può essere padroneggiato da lui ma dipende da altri (c’è una evidente sovrastima delle attribuzioni di controllo interno su qualcosa che è palesemente controllata esternamente al soggetto, cioè i desideri degli altri); oppure il caso di un soggetto che persiste nell’irritarsi se qualcuno è stupido o squalificato, pur riconoscendo che la sua irritazione non farà certo mutare il livello di preparazione o intelligenza in qualcuno.Dunque, gli atteggiamenti intenzionali spiegano bene i paradossi della condotta e le situazioni negative che perdurano.Perché un soggetto pur valutando che una sua azione non risolve un certo problema non modifica la propria condotta? La risposta a tale questione, che in generale riguarda il problema del cambiamento o del mantenimento della sofferenza, è possibile se consideriamo il comportamento come un piano di azione, e quindi osserviamo che a monte di un tentativo di soluzione di un dato problema vi è una certa credenza il cui contenuto riguarda il valore che il soggetto attribuisce a quel tentativo, compresa la plausibilità e i criteri contestuali per metterlo in pratica. Quella stessa credenza è inserita in un piano che comprende una qualche credenza più generale il cui contenuto riguarda l’obiettivo finale, compreso il valore attribuito ad esse e la plausibilità di averlo. Come si può ben vedere, il cambiamento di un "pezzo" periferico del piano non modifica il piano stesso. Naturalmente, dobbiamo considerare che dopo un certo numero di tentativi negativi, esaurite le alternative periferiche, il piano debba essere riveduto nel livello più alto e generale (negli scopi strategici). Ma qui possiamo incontrare un fatto importante. Un soggetto può non avere una alternativa periferica o può non disporre di un contenuto alternativo al livello più alto o, infine, può non essere in grado di considerare che dovrebbe salire di livello. Questa ultima possibilità riguarderebbe, almeno teoricamente, soggetti meno sviluppati nella integrazione del proprio sistema conoscitivo (egocentrismo, infantilismo, concretismo, ...).Non voglio intendere la pianificazione della condotta come un modo iper-razionale di agire semmai la frequente inadeguata pianificazione mediante il mantenimento di atteggiamenti disfunzionali spiega le diffuse sofferenze psicologiche. Intendo per "razionale" la eliminazione dei tentativi di soluzione infruttuosi e la capacità di esaminare un problema al giusto livello di spiegazione e descrizione.Ma dove sono i problemi? Un primo aspetto è quello, come ho già accennato, di non eliminare un tentativo infruttuoso, per determinati motivi: non voler modificare una abitudine (per ragioni ulteriormente esaminabili), non avere disponibile un tentativo alternativo, non accorgersi che quel tentativo è inadeguato. Qui sorge un secondo aspetto. Il soggetto, per poter funzionare ed adattarsi, deve poter confrontare una propria risposta con il successo o meno della stessa: se non posso accorgermi che una mia risposta ha successo o no, non posso adattarmi. Per qualche ragione interessante, un soggetto potrebbe non accorgersi che un tentativo non è utile o non è adatto; ciò potrebbe accadere se le ipotesi che hanno stimolato il tentativo di soluzione, cioè le aspettative (credenze ipotetiche), sono assunte per vere ad ogni costo; o, come possibile alternative teorica, che quelle aspettative sono troppo importanti per il soggetto il quale non è pronto ad accettare un risultato alternativo. In pratica, o il soggetto riconosce una invalidazione e corregge il tiro, oppure persevera in quanto non accetta il costo da pagare di una modificazione di credenze importanti.Questa analisi della condotta spiega sufficientemente il mantenimento di condotte disfunzionali; un problema teorico però sorge se non viene risolto un punto importante: un soggetto non sceglie di credere a ciò che gli conviene (autoinganno ben chiarito da vari autori (Elster, 1989; Davidson, 1990; Castelfranchi, Miceli, 1995), e conosciuto tra gli addetti ai lavori come "legge di Pascal"). Nessun soggetto può esaminare prima i dati e dopo scegliere di credere a quel dato che più gli conviene; semmai, i soggetti credono ai dati che sono, per loro, più plausibili (cioè in sintonia con le credenze possedute che valutano come base o assunte come vere, o anche che derivano da una fonte valutata come autorevole e affidabile) oppure più verosimili (cioè derivanti dalla diretta raccolta delle informazioni, dai sensi, e coerenti con le credenze possedute). Per risolvere questo problema deve essere definito in quale modo un soggetto pur reputando di dover far qualcosa per uscire dal problema non modifica una credenza inadeguata.Una prima risposta è che un soggetto difficilmente rivede una credenza di base. Un dato può essere sovraordinato a molte altre credenze che da quello dipendono o può essere un aspetto abitudinario, una routine, e quindi potrebbe non essere affatto preso in considerazione per l’esame, come anche la eventuale modificazione; ciò nondimeno, una abitudine ha un effetto stabile e pervasivo sulla condotta del soggetto (influenza scopi e credenze).Una seconda risposta potrebbe essere quella che considera il soggetto non in possesso della scelta alternativa (che non sceglierebbe per mantenere la propria abitudine, come il caso precedente) ma che sceglie comunque di non cambiare nulla in quanto crede che sia più rischioso cambiare lo status quo che mantenerlo; in tale modo evita di apprendere. In questo ultimo caso il soggetto potrebbe apprendere qualcosa solo attraverso una via "differita", per imitazione, constatando che altri soggetti hanno acquisito qualcosa senza i rischi temuti.Nei due casi precedenti, comunque, c’è l’assunto che un soggetto cambia con difficoltà le proprie credenze importanti; ciò sembra essere in linea sia con le ricerche sul ragionamento in condizioni di incertezza sia con i dati di conoscenza provenienti dalla nostra osservazione quotidiana.
Analisi delle intenzioni disfunzionali
Quella che segue è una lista di atteggiamenti strettamente intenzionali il cui perseguimento espone il soggetto ad una empasse. Gli scopi di queste proposizioni, i contenuti, e le intenzioni, non sono realizzabili concretamente in quanto il soggetto non ha il potere per portarle a compimento. Questo deficit di potere nel raggiungere questi specifici scopi è una caratteristica generale degli esseri umani (e di tutti gli altri organismi). Non può essere raggiunto nulla che non sia in nostro potere, ma per questi scopi non è possibile acquisire questo potere. E’ possibile altresì padroneggiare questa difficoltà in due modi: o desiderando liberamente quegli scopi e facendolo sapere ad altri se essi ne sono implicati oppure accettando il fatto che non possiamo raggiungerli e dunque riducendo le implicazioni generali che quei desideri avrebbero comportato (essere assertivi o accettare; insistere o rinunciare).Gli obiettivi necessari per la modificazione di tali scopi sono i cambiamenti di valutazione attraverso una modificazione sia di inferenze sia di valutazioni sia di assunzioni disfunzionali generali (modificazione dei B, a vari livelli). La "cassetta degli attrezzi" non può che consistere che nell’uso appropriato della discussione e della verifica empirica attraverso l’analisi di alcune assunzioni (credenze e desideri) generali; esse sono:
- vorrei/ voglio (pretendo)
- devo/ è utile
- posso/ devo
- opinione/ fatto
- parte/ tutto
- qualche volta/ sempre
- responsabilità/ caso.
Queste articolazioni sono la base del lavoro di modificazione delle convinzioni, sono i mattoni che permettono di riedificare una rete di credenze e scopi più adeguata; soprattutto, però, possono criticare e sfidare le convinzioni possedute dal paziente e dirigere la modificazione a questo livello.Varie assunzioni, teorie personali e piani di condotta possono essere sintetizzati da queste proposizioni che seguono:
1) voglio X e non riesco ad averlo: in tale proposizione il soggetto si confronta con un obiettivo (X) che non può perseguire; il soggetto può recedere e rinunciare a tale scopo finale, oppure non rinunciando può insistere e restare bloccato, a volte non riuscendo a giustificare la situazione in cui pur volendo qualcosa a volte non la otteniamo.
2) voglio X e voglio Y e non riesco ad averli insieme: il soggetto non riesce o non vuole scegliere; questo vale solo per le mete incompatibili, quindi deve essere visto se due obiettivi sono in realtà incompatibili; il soggetto è bloccato in quanto non assegna una priorità.
3) non voglio sentirmi in modo X: tale proposizione si riferisce alla impossibilità di agire ad un livello diverso di quello intenzionale, in quanto pur non desiderando avere una certa sensazione di fatto l’abbiamo; il soggetto può agire in vari modi per creare le condizioni favorevoli per ridurre o impedire un certo stimolo non intenzionale ( C), ma di fatto non può farlo direttamente; spesso è non perseguendo tale scopo che lo stimolo si riduce o si risolve.
4) voglio X ma dovrei volere Y: il soggetto pur desiderando un certo obiettivo, valuta negativamente questo fatto in quanto ha delle assunzioni generali nelle quali un certo obiettivo (X) è o incompatibile o almeno indesiderabile; il soggetto si trova in conflitto tra un desiderio specifico e una teoria generale, e non riesce ad articolare né i casi particolari o eccezioni, né è in grado o desidera modificare parte della teoria.
5) Voglio X anche se non posso avere X: se il soggetto non crede all’effetto invalidante e negativo delle proprie azioni allora può insistere anche contro l’evidenza plateale che un certo X, di fatto, non lo raggiunge; è possibile che un soggetto ignori il risultato di certe proprie azioni o non desidera verificarne l’effetto, e dunque tende, per principio, a continuare nella direzione stabilita; in alcuni casi il soggetto può insistere perché non altro davanti, non può scegliere nulla ("vorrei vivere anche se so che non posso più continuare a vivere"), ma in questo caso il soggetto può desiderare liberamente X anche se conosce la propria mancanza di potere su X e quindi non punta tutto sull’insistenza.
6) non posso fare a meno di X: il soggetto crede che X sia tutto, o sia un bene indispensabile, o un mezzo insostituibile; è il caso della indispensabilità, nella quale il soggetto non vede l’alternativa; spesso il soggetto ha delle convinzioni generali, altre volte ha delle credenze specifiche che ha costruito in esperienze concrete specifiche e particolari, ed in base a tali valutazioni ed inferenze crede che quelle aspettative che ha siano l’unico volto possibile della realtà.
7) non voglio essere X (o non voglio avere un "tratto" X): il soggetto si pone lo scopo di essere in un certo modo non badando al fatto che ciò che a volte significhiamo con alcuni termini personologici e caratteriologici è in sostanza il resoconto del giudizio di altri (educato, sensibile, onesto, comprensivo, simpatico, spontaneo, ...); da alcuni è definito "effetto Stendhal", il quale, come si sa, voleva diventare completamente spontaneo in società.
8) non voglio credere X: le credenze non sono intenzionali, quindi non possono essere oggetto di scelta; tuttavia, molti pazienti rifiutano molte credenze e constatazioni sulla base delle conseguenze che queste conoscenze comporterebbero secondo proprie assunzioni e schemi; i tentativi di rifiutare conoscenze che gli stessi soggetti hanno avuto modo di percepire è sempre un problema complesso; molti autori tendono a non trattare tali rifiuti come inconsapevolezze complete ma come tentativi continui di bloccare, interferire, e deviare i processi attentivi su altre conoscenze più neutrali.
9) non voglio che S sia X: qualcuno crede che il nostro potere sia anche quello di influire direttamente sugli altri, ma ciò non è di fatto possibile; dunque, i soggetto si pone lo scopo volere che qualcun altro sia fatto in un certo modo, o si comporti in qualche particolare modo, ma resta deluso; pur potendo desiderare che qualcuno o altri siano come ci piace o come vorremmo, le persone sono tali al di là della nostra volontà e del nostro desiderio.
10) non voglio che S creda X (o voglio che S creda Y): è il più comune paradosso che le persone attivano nelle relazioni interpersonali; tale proposizione è la base di tutte le fobie sociali, di tutte le timidezze, di ogni forma di dipendenza dagli altri e di sottomissione, di tutte le subordinazioni comuni che gli individui attivano, e delle quali si lamentano sia direttamente sia riguardo i loro effetti; pur potendo desiderare un giudizio favorevole o positivo dagli altri il soggetto non può pretenderlo, pena l’effetto paradossale della bizzarria della stessa richiesta; il soggetto può attivare tutte le condizioni in suo potere che possono favorire un giudizio positivo (comportarsi simpaticamente o benevolmente, essere generosi, aiutare, sorridere, ...) ma alla fine l’effetto non è mai scontato perché il proprio comportamento non agisce direttamente sulle libere opinioni degli altri.
Conclusioni
Le micro-tecniche sono gli interventi che il terapista utilizza nella conduzione della psicoterapia cognitiva, e tali interventi possono essere utilizzati da soli o in combinazione tra loro, a seconda della strategia del terapista e degli obiettivi scelti e concordati tra paziente e terapista. La parte tecnologica della terapia non è un settore a sé stante da altri aspetti del trattamento, infatti molti autori definiscono in modo analogo, cioè come interventi specialistici, sia aspetti "tecnici" (come le micro-tecniche) sia aspetti relazionali di base; ogni aspetto della terapia può essere tecnico in quanto è una procedura per aiutare il paziente a risolvere il proprio problema psicologico (risolvere il C, tramite la modificazione dei B).Nel trattamento psicologico, "la tecnologia" può apparire un aspetto non "umano", distante dal contatto che il terapista ha con la sofferenza del paziente; in realtà, il trattamento psicologico ha un prerequisito, che è quello di essere, come terapista, una fonte credibile ed autorevole per il paziente e solo in quanto tale un trattamento psicologico è possibile. Ciò distanzia la psicoterapia da altri trattamenti di cura, ma proprio tali aspetti prerequisiti fissano il senso della psicoterapia globalmente intesa.Per quanto riguarda la questione riguardante l’opposizione (del tutto fuori posto) tra relazione terapeutica ed aspetti tecnici, la relazione terapeutica sembra veicolare i seguenti elementi terapeutici: esempio positivo e modello autorevole di riferimento; chiarificazione, educazione, apprendimento pratico di soluzioni; presa di coscienza, autoesplorazione, aumento di consapevolezza; esperienza emotiva correttiva, adattamento, figura vicariante; funzione vicariante, aiuto e supporto funzionale, co-costruzione. Tali aspetti sono, propriamente "tecnici" dato il contesto e gli scopi della interazione tra paziente e terapista.In sostanza, per poter lavorare bene paziente e terapista devono intendersi bene e collaborare l’uno con l’altro (piuttosto che effettuare interventi contro le intenzioni del soggetto sia da parte del terapista che da parte del paziente). Questa puntualizzazione definisce la relazione terapeutica più come uno stadio funzionale della psicoterapia (cioè come interventi tecnici) o, ad un livello generale di analisi, come la costruzione di un (prerequisito) clima sano, che dovrebbe essere la base di tutti i rapporti positivi e costruttivi.
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Linee guida per la psicoterapia cognitiva standard
Disturbo da attacchi di panico e agorafobia
Il DSM IV permette di porre la diagnosi di disturbo da attacchi di panico con o senza agorafobia, e agorafobia senza panico; l’agorafobia, inoltre, può essere da lieve a grave. Queste categorie possono essere caratterizzati da:
- palpitazioni, cardiopalmo, o tachicardia;
- sudorazione;
- tremori fini o grandi scosse;
- dispnea o sensazione di soffocamento;
- sensazione di asfissia;
- dolore o fastidio al petto;
- nausea o disturbi addominali;
- sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento;
- derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da sè stessi);
- paura di perdere il controllo o di impazzire;
- paura di morire;
- paraestesie (sensazioni di torpore o di formicolio) brividi o vampate di calore;
- ansia relativa all’essere in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile allontanarsi o ricevere aiuto.
Il modello cognitivo del disturbo di panico con agorafobia pone grande enfasi sulla interpretazione errata dell’ansia che il paziente elabora. Secondo questo modello, il primo attacco di panico può essere dovuto a numerosi fattori come una vulnerabilità biologica a certi stressors fisiologici oppure ad una temporanea modificazione fisiologica dovuta a fattori biologici variamente casuali. Questo attacco inaspettato viene interpretato dal paziente in modo catastrofico: "Ho un infarto", "Sto diventando pazzo". Come conseguenza di questo processo mentale, il paziente diventa ipersensibile ed allarmato su numerosi segnali interni di attivazione, arousal e sensazioni "estreme". Non appena egli focalizza questi stimoli propriocettivi (sensazioni psicofisiologiche) egli interpreta in modo errato normali sensazioni interpretando esse come pericolose: "Il mio cuore sta pulsando troppo forte" o "Mi sento debole, forse ho un collasso".Queste interpretazioni errate evolvono in sensazioni sempre crescenti di arousal, collasso, e desiderio impellente di fuga. L’agorafobia si sviluppa come risultato di un evitamento condizionato, di un apprendimento focalizzato, non appena il paziente apprende ad evitare quelle situazioni che crede possano portare a quelle situazioni minacciose e temute.L’elemento chiave, quindi, non è strettamente il sintomo acuto di una qualche causa biologica ma la paura di avere un nuovo attacco. Questa è la caratteristica della sindrome da attacchi di panico, nella quale le aspettative catastrofiche e l’ansia di anticipazione sono l’elemento emergente.Molti pazienti con agorafobia presentano, dopo un certo tempo, una diminuita quantità di attacchi di panico in quanto essi evitano sempre più le situazioni "a rischio".
Possono essere indicati i seguenti punti:
1) Nell’assessment il terapista deve informarsi di tutti i possibili modi attivati dal paziente per evitare di avere gli attacchi, e che secondo la sua prospettiva lo proteggono dall’ansia acuta. La valutazione degli evitamenti è fondamentale per la pianificazione del trattamento.
2) Il paziente deve essere informato del modello cognitivo ABC, e devono essere brevemente ma chiaramente affrontati gli eventuali punti oscuri o di dubbio. In questa fase il terapista pone in risalto il meccanismo di evitamento e illustra il suo naturale contrario, l’esposizione, privilegiando una modalità graduale di applicazione. Si illustrano, inoltre, con una certa approssimazione, alcuni tipici sintomi degli stati di stress. Al paziente viene illustrato, in particolare, il meccanismo della iperventilazione, del suo ruolo nella produzione dei principali sintomi di allarme, ed il modo per bloccare o prevenire tale atteggiamento respiratorio, anche mediante la respirazione addominale frazionata o diaframmatica.
3) Il terapista aiuta il paziente a raccogliere informazioni sulle inferenze e le altre cognizioni disfunzionali, con l’uso di diari e schede, ed inizia a guidare il soggetto verso un atteggiamento di verifica empirica e critica delle cognizioni catastrofiche. In questa fase il paziente può iniziare una attività di graduale ristrutturazione, spesso con l’uso delle spiegazioni alternative e la determinazione del grado di convinzione (anche con altre varianti). Viene particolarmente chiarito il tentativo del paziente a fuggire ed evitare come un retaggio naturale di sopravvivenza che spesso può essere errato, e che i tentativi di sfuggire alle stesse sensazioni di attivazione (lieve stress quotidiano) sono uno scopo non adeguato; si illustra la via più diretta che è l’esposizione anche alle sensazioni interne, anche per verificare che non sono catastrofiche o preliminari ad un attacco.
4) Una volta avviato il trattamento, il paziente viene motivato ad esporsi gradualmente mediante un piano gerarchico graduale di luoghi o situazioni temute o "a rischio". In questa fase è spesso opportuno che anche qualche membro della famiglia collabori o sia almeno informato del significato di tali prescrizioni, in quanto spesso le relazioni familiari sono tese o compromesse, anche sulla base della sintomatologia del paziente e delle sue richieste di appoggio e supporto (a volte nella forma di "pretese" e "doverizzazioni").
5) Il paziente viene incoraggiato a tenere bene in vista il compito graduale della esposizione, e porsi come obiettivo la crescente autonomia rispetto ai luoghi ed attività trascurate a causa del disturbo. Si incoraggia il soggetto ad effettuare letture indicate sul proprio disturbo e sul modello ABC (vi sono numerosi fascicoli scritti per questo scopo).
6) A volte, il paziente desidera porsi obiettivi più a lungo termine e che riguardano il proprio atteggiamento generale, in questo caso l’obiettivo del trattamento deve essere modificato e conseguentemente anche la pianificazione della psicoterapia assume una forma differente; il paziente, in pratica, non fa più un trattamento mirato al disturbo da panico ma intraprende una psicoterapia di modificazione degli schemi (personalità).
Disturbo ossessivo-compulsivo
Le caratteristiche del disturbo ossessivo-compulsivo sono illustrate variamente nel DSM-IV come segue:
- pensieri, impulsi o immagini vissuti come intrusivi o inappropriati, e che causano ansia;
- pensieri, impulsi o immagini che non sono preoccupazioni concrete della vita reale;
- tentativi di ignorare o sopprimere tali attività mentali;
- riconoscimento della natura "mentale" di tali produzioni del soggetto;
- comportamenti ripetitivi che il soggetto sente come impellenti o obbligatori secondo certe regole;
- comportamenti o attività mentali che il soggetto effettua allo scopo di prevenire un evento o una situazione temuta e che non hanno alcun legame concreto fattuale con esso;
- autocritica per il proprio stato;
- disagio marcato ed interferenza con le normali attività quotidiane.
Il modello cognitivo del disturbo ossessivo-compulsivo evidenzia come caratteristica centrale la presenza di pensieri intrusivi che causano ansia. Tali cognizioni possono essere sia proposizioni sia immagini sia desideri o impulsi; tali attività mentali sono giudicate dal soggetto in modo negativo ed aventi un carattere di invalidazione riguardo il proprio assetto mentale e le assunzioni riguardo se stesso.I tentativi di opporsi a queste attività mentali intrusive innescano il "paradosso della intenzionalità" in cui il soggetto non solo non può bloccare una attività non intenzionale come la propria immaginazione ma potenzia ed incrementa la propria attenzione sulla specifica cognizione, nel tentativo di controllare se è ancora presente nella propria mente. Una volta impegnato in tale proposito il soggetto è intrappolato nel paradosso.Mentre l’intensità dell’intrusione aumenta, il soggetto intraprende altri tentativi più radicali per auto-impedirsi di avere una certa cognizione, e tali attività, rituali e compulsioni, possono essere comportamenti più svariati e attività di pensiero le più impegnative e massive che il soggetto riesce ad inventare. In questa ricerca di pace il soggetto spesso scopre delle attività distraenti, e le usa intensamente mentre però controlla cognitivamente la loro efficacia; il paziente è così doppiamente impegnato in una lotta per annullare i contenuti negativi del proprio pensiero (o altro).Il modello cognitivo riconosce alla base di questo disturbo una valutazione negativa che regola la condotta del soggetto e secondo la quale lo specifico contenuto può essere, ad esempio, scandalizzante, violento, bizzarro; la conseguente inferenza catastrofica del soggetto può essere rispettivamente che egli diventerà osceno, criminale, o pazzo. A questo set cognitivo si aggiunge che il soggetto può giudicare catastrofico ed estremo l’indulgere in comportamenti scandalizzanti, violenti o bizzarri, come una prova inconfutabile della propria indegnità globale come persona.Molti soggetti iniziano precocemente nello sviluppo ad essere sensibili al giudizio sociale ed in particolare al proprio stesso giudizio, ed iniziano a manifestare una esigenza di controllo sia della condotta esterna sia del proprio pensiero. Molte volte il soggetto dubita della propria memoria o del proprio ragionamento perché stima troppo alta la temuta conseguenza di un proprio deficit; questo nella maggior parte dei casi si estende e si generalizza.La ipersensibilità è una delle caratteristiche che deve essere inserita nella pianificazione del trattamento insieme con la tendenza ad effettuare inferenze arbitrarie, e a formulare valutazioni globali negative personali.Il trattamento può essere schematizzato nei seguenti punti:
1) Il terapista illustra al paziente il modello cognitivo ABC con particolare riguardo alla distinzione tra attività mentale e sviluppo di emozioni negative, e alla distinzione tra fatti e cognizioni (caratteristica spesso variamente definita da vari autori come "pensiero magico", "onnipotenza", "egocentrismo integrale", "concretismo", "mentalità superstiziosa", ecc.).
2) Il paziente deve essere incoraggiato verso una riconcettualizzazione del processo associato alle cognizioni "intrusive" (normalizzazione) attraverso una graduale esposizione a tali contenuti, insieme ad una ristrutturazione delle assunzioni disfunzionali che mantengono l’atteggiamento negativo del paziente, ed in particolare per quel che riguarda la valutazione del contenuto cognitivo come scandalizzante, violento o bizzarro. A queste assunzioni disfunzionali sono associate altre valutazioni più generali che attengono al significato personale che tali temi hanno per il soggetto, e spesso sono un mix di valutazioni ed inferenze arbitrarie. Il paziente gradualmente riduce le generalizzazioni e le valutazioni personali negative accettando di avere sia pensieri "creativi" o "strani" sia di poter eventualmente attivare comportamenti specifici "strani" (decatastrofizzazione).
3) Il terapista spinge il paziente verso una attività di verifica delle inferenze rispetto ai contenuti inferenziali condizionati ("se non faccio X succederà Y") sia attraverso prove empiriche di lieve intensità (per non perdere la collaborazione del paziente il quale può voler evitare di fronteggiare il necessario stress), ma anche attraverso esposizioni immaginative quando, ad esempio, il contenuto "temuto" non è un evento concretamente verificabile.
4) L’obiettivo del trattamento inizia ad essere la ristrutturazione delle proprie preoccupazioni sulla cognizione intrusiva (e non la verifica della propria sicurezza, lealtà, memoria, funzionamento, onestà, ecc...) e sempre meno il tentativo di dimostrare che non c’è un reale rischio; in sostanza, gli interventi si indirizzano sempre più ad un B valutativo che inferenziale. A questo stadio il paziente utilizza schede per la formulazione di convinzioni alternative sia con il grado di convinzione iniziale e finale, sia con la formulazione multipla di spiegazioni alternative. Per i pazienti con rituali intensi può essere utilizzato la prevenzione della risposta attraverso la quale il soggetto ritarda l’impulso "anti-ansia" o di controllo, per stabilire un graduale aumento del tempo tra lo stimolo intrusivo e la risposta compulsiva; ciò deve essere spiegato al paziente come la ricerca graduale di un proprio "record personale" senza impegnarsi in compiti impossibili. Spesso i pazienti rapidamente acquisiscono più libertà dai rituali e compulsioni.
5) Il terapista, sempre più, mette in luce insieme al paziente le convinzioni di fondo attinenti al proprio valore personale, spesso legato alla convinzione di una propria diretta responsabilità in qualche fatto concreto. Il trattamento si focalizza sulla ristrutturazione di assunzioni di disvalore, generali o più specifiche a qualche evento di vita.
Depressione
La depressione come sindrome psicologica è presente nel DSM-IV in una varietà di tipologie diagnostiche come:
l’episodio depressivo maggiore, il disturbo depressivo maggiore, il disturbo distimico, il disturbo bipolare I° con episodio depressivo recente, disturbo bipolare II° con episodi depressivi ricorrenti, disturbo depressivo dovuta ad una condizione medica generale, disturbo dell’umore indotto da sostanze con manifestazioni depressive. La complessità della classificazione e la non particolare specificità del trattamento psicoterapico mirato alla depressione orienterà questa parte sul disturbo depressivo maggiore e distimia.Il disturbo depressivo è caratterizzato dalla presenza dei seguenti sintomi:- umore depresso nella maggior parte del tempo;
- diminuzione marcata degli interessi e delle attività quotidiane abituali;
- variazioni marcate nel regime alimentare sia in eccesso che in difetto;
- disturbi del sonno persistenti;
- agitazione o rallentamento sia oggettivi che soggettivi;
- anergia;
- sentimenti di svalutazione e di colpa;
- deconcentrazione;
- idee di morte.
La concettualizzazione cognitivista della depressione pone in risalto il ruolo svolto dalle ruminazioni ideative e dalle cognizioni negative arbitrarie, ed infine attribuisce un certo peso alle assunzioni disfunzionali e alle convinzioni relative al proprio valore organizzate in schemi di base.Il ruolo svolto dalle inferenze negative, sotto forma di pensieri istantanei ed automatici, è quello di filtrare le informazioni provenienti dall’esterno secondo i contenuti dei propri schemi tematici, in una direzione strettamente deduttiva (top-down), con frequenti "salti" e conclusioni indebite ed arbitrarie. L’attività cognitiva del paziente depresso non è però tutta diretta dall’alto, dai propri schemi, ma lo stesso meccanismo di ragionamento (induzioni, deduzioni, giudizi) è deficitario in quanto il soggetto riduce progressivamente l’attività creativa, esplorativa e di rischio (quindi non apprende nulla di nuovo), e gradualmente utilizza sempre più deduzioni che induzioni ipotetiche. Il risultato è una paralisi della mente, ed un impoverimento (pseudo-demenza depressiva) della capacità di ragionare e dei contenuti individuali.Il soggetto evita le situazioni stressanti ma, classicamente, non trova tale rimedio utile; mentre aumenta il ritiro sono più intense le cognizioni rigide e pseudo-deliranti, non giovando di alcun feedback da parte degli altri e del mondo esterno.Il paziente depresso svaluta tutti i tentativi di aiuto per due ragioni: è convinto di non poter essere aiutato, è convinto della scarsa qualità dell’aiuto dell’altro.L’esame delle convinzioni del soggetto è indispensabile per il terapista, e l’attenta valutazione delle assunzioni del soggetto può rivelare degli "standards" assoluti, estremi, perfezionistici, ed a volte bizzarri e irrealistici. Il soggetto depresso spesso si lamenta di condizioni negative in quanto distanti dalle proprie aspettative (spesso, irrazionali ed assolute). E’ frequente osservare un certo atteggiamento di "pretesa" che accanto alla grande sofferenza del paziente può passare inosservata.Molti autori riconoscono nella depressione un tentativo di non seguire il flusso della vita ed adattarsi, ed accettare gli eventi, ma di resistere e bloccarsi testardamente su scopi non raggiungibili. La spiegazione di ciò può essere molto complessa, ma uno degli elementi comuni sembra essere l’atteggiamento assolutista, perfezionistico, doveristico.Tra le valutazioni dei soggetti depressi il terapista può ritrovare numerose attribuzioni negative personali del tipo interno - stabile - globale, in quanto il soggetto è convinto di non avere poteri sufficienti (auto-efficacia) per risolvere le proprie questioni, ed inizia ad attribuirsi caratteristiche inverse per i propri successi (esterni - temporanei - specifici).Il soggetto depresso sembra, da alcune ricerche, più realista dei soggetti normali, ma ciò vale solo per la previsione delle difficoltà, e questa caratteristica si spiega con la ridotta efficienza prestazionale.Il trattamento, dunque, è focalizzato sui seguenti punti:
1) Socializzazione del modello cognitivo ABC, puntando sulla possibilità di comprendere meglio cosa succede nel C, ed in particolare di aiutare il paziente ad avere un riscontro ed un più adeguato metro di confronto delle proprie emozioni negative (colpa, depressione, tristezza, disperazione, senso di incapacità, ...).
2) Illustrare al paziente la necessità di organizzarsi gradualmente nelle attività della propria giornata, per avere sia un quadro più chiaro e strutturato del proprio tempo davanti a sé, sia per incrementare l’attività fisica in quanto utile per l’umore e l’anergia.Il paziente demotivato può essere invogliato mediante la contrattazione di obiettivi facili, possibili, ma non sciocchi e privi di significato (il soggetto si giudica negativamente, e potrebbe quindi confermarselo di continuo). Il modo classico è l’uso di diari giornalieri di attività con il grado di piacere e padronanza. Spesso, però, è sufficiente il solo diario delle attività svolte; può essere valutata così anche la organizzazione giornaliera.
3) Il terapista inizia, mediante il collegamento dei C con i B, a valutare le assunzioni disfunzionali e le inferenze arbitrarie del paziente; il paziente può iniziare a discutere le proprie convinzioni relative agli standars ricercati, nelle diverse situazioni di vita, come anche nel corso nel passato recente. Le convinzioni sono trattate con la discussione e l’uso di alternative, ma soprattutto deve essere chiaramente spiegato e chiarito il ruolo degli errori cognitivi e degli atteggiamenti di fondo, ed il loro ruolo nella distorsione delle aspettative su sé stesso, sugli altri, e sulla spiegazione causale degli eventi.
4) Il paziente può iniziare ad impegnarsi con gradualità in attività piacevoli ed interessanti, che ha abbandonato, e può sempre più incrementare il controllo su eventi quotidiani concreti realistici, con una pianificazione guidata in modo decrescente dal terapista.
5) Il trattamento deve dedicarsi alla discussione e modificazione di valutazioni ed assunzioni riguardanti questioni specifiche di base, come particolari relazioni affettive, o rapporti familiari, o obiettivi di autorealizzazione. In tale compito il terapista aiuta il paziente a sviluppare una maggiore elasticità ed autonomia rispetto a "bisogni indispensabili" che il soggetto ha creduto di perseguire come un diritto; inoltre, il terapista inizia a collegare il risultato delle ristrutturazioni con alternative alle vicende quotidiane.
6) Infine, il soggetto è motivato dal terapista a rivedere prospetticamente il corso del proprio passato, in modo sintetico, al fine di riconcettualizzare complessivamente l’idea che aveva di sé come frutto di valutazioni inadeguate ed estreme. Il paziente deve essere informato che il percorso futuro può presentare altri stress ed eventi di vita negativi con i quali potrà confrontarsi; in tali situazioni potrà mettere alla prova l’adeguato uso di standards concreti e realistici, e riconoscere eventualmente cognizioni intrusive relative a scopi assolutisti, perfezionistici ed estremi.
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La Valutazione
della Psicoterapia.
di Gian Luigi Dell’Erba
Riassunto
La valutazione della psicoterapia è uno dei settori di base della disciplina. Esso è costituito da almeno 3 aspetti: lo studio della valutazione concorrente dei diversi orientamenti psicoterapeutici; lo studio del processo psicoterapeutico; la ricerca sui fattori comuni. Questi settori di analisi devono, secondo l’Autore, essere subordinati ad una esigenza di definizione teorica e di omogeneizzazione dei linguaggi. Tra le principali questioni, l’Autore propone 4 punti che necessitano di una definizione esplicita da parte di ciascun approccio: modello della mente, meccanismo del disturbo, tecnica terapeutica, setting. Inoltre, vengono proposti 5 livelli di analisi, o coordinate epistemologiche, mediante le quali possono essere valutate più dettagliatamente le psicoterapie, e dalle quali è possibile costruire sistemi di valutazione: oggetto della ricerca, livello di riduzione, prospettiva, modalità di indagine, unità di indagine. Sono esaminati anche alcuni aspetti del processo della psicoterapia con alcune considerazioni su specifici tentativi di ricerca.E’ infine esaminato l’aspetto riguardante i fattori comuni, ambito che l’Autore pone come punto di arrivo nello sviluppo epistemologico-scientifico della disciplina; in tale ambito sono esaminati sia gli elementi comuni tra i diversi approcci che l’obiettivo di una loro integrazione metodologica e teorica.
Summary
The evaluation of the psychotherapy is one of the sectors of base of the discipline. It is constituted from at least 3 aspects: the study of the competing evaluation of the different psychotherapeutic orientations; the study of the therapeutic process; the search on the common factors. These sectors of analysis owe, according to the Author, be subordinate to a demand of theoretical definition and of omogeneization of the languages. Among the principal matters, the Author proposes 4 points that require an explicit definition from part of each perspective: model of the mind, mechanism of the trouble, therapeutic technique, setting. Besides, they come proposed 5 levels of analysis, or epistemological coordinates, by means of which they could be valued more in detail the psychotherapies, and from which it is possible build systems of evaluation: object of the search, level of reduction, perspective, modality of investigation, units of investigation. It is examined any also aspect of the process of the psychotherapy with any considerations on specific attempts of search. It is finally examined the matter regarding the common factors, field that the Author sets like point of arrival in the epistemologico-scientific development of the discipline; in such field it is examined both the common elements among the different approaches and the purpose of a their methodological and theoretical integration.
Introduzione
Che sia possibile valutare un qualcosa è un bene, tanto meglio se il nostro tentativo serve a migliorarlo.La psicoterapia non è sempre stata una disciplina ben identificabile così come lo è oggi; la storia della cura dei disturbi mentali lo testimonia molto bene. Tuttavia, tutti coloro che si occupano di psicoterapia in modo più preciso e formale sono d’accordo nell’indicare l’inizio di questa disciplina in quanto autonoma soltanto nel periodo contemporaneo a Freud.Già in quel periodo, i primi contributi nel settore della valutazione della psicoterapia possono essere notati in quei tentativi di critica che i vari allievi prima o poi muovevano ai loro maestri e didatti. In pratica, quelle che dovevano essere delle valutazioni interne per esigenze di chiarificazione e dibattito spesso davano luce a svolte ed orientamenti paralleli, e che dunque valutavano aspetti tecnici ed esiti in modo critico.La storia della valutazione della psicoterapia, sia della sua efficacia che del processo e dei meccanismi di funzionamento, nasce come critica concorrente; i suoi primi passi possono essere visti come il tentativo di trovare il "giusto modo" di praticare la psicoterapia. Bisognerà aspettare, nella maggioranza dei casi, i primi "strappi" alla psicanalisi per avere altre importanti scuole ed orientamenti. In questo ambito ha preso quota l’esigenza di ripensare alla psicoterapia e a come condurla per incrementare gli esiti positivi e ridurre le difficoltà del setting. In questa situazione storica emergono orientamenti sempre più distanti dalla matrice originaria, come ad esempio Karen Horney o Henry Stack Sullivan, e poco dopo Carl Rogers, e una decina di anni più tardi Wolpe ed Eysenck.L’inizio degli anni 50 è infatti il periodo durante il quale viene ripensato l’intero sistema del trattamento dei disturbi mentali. Negli USA vengono create delle commissioni specifiche per studiare il bilancio costi-benefici di alcune procedure di trattamento; vengono, inoltre, commissionati importanti studi e ricerche sia dal Governo (Joint Commission on Mental Illness and Health, 1961) sia da Enti privati ed industrie di farmaci (infatti, in questo periodo nascono i farmaci antipsicotici). Nel periodo 1950-1960, sono pubblicati i primi studi sistematici sulla valutazione delle psicoterapie, sia in modo specificamente dedicato sia insieme ad altri trattamenti. Ma lo studio che ebbe l’impatto più forte fu senza dubbio quello di Hans Eysenck.Nel 1952, Eysenck pubblicò un riesame di 24 studi e giunse alla conclusione che la psicoterapia non era granché efficace, e non superava in modo significativo la misura dei gruppi non trattati e placebo. Inoltre, secondo Eysenck, alcune psicoterapie tendevano al peggio mentre altre erano lievemente più efficaci. Naturalmente, tali posizioni stimolarono la gran parte dei ricercatori del settore, ed anche i clinici vollero vederci più chiaro. Vi furono, quindi, numerose ricerche sulla efficacia e sulla valutazione concorrente, alcune delle quali decisamente prestigiose (Bergin, 71; Garfield, 81; Bergin, Lambert, 78; Luborsky, 71; Luborsky, Chandler, Auerbach, Cohen, Bachrach, 71; Luborsky, Crits-Christoph, Mints, Auerbach, 88; Smith, Glass, Miller, 80; Rachman, Wilson, 80; Williams, Spitzer, 84).Naturalmente, dalla fine degli anni 50 ad oggi sono state prodotte migliaia di ricerche importanti, tutte in qualche modo aderenti agli standards di rigore e di metodo ma non per questo meno condizionate dai crescenti sviluppi della scienza e delle discipline interessate, come la psicologia, le neuroscienze, la farmacologia, la filosofia della mente.Oggi, affrontare il settore della valutazione della psicoterapia vuol dire occuparsi di almeno uno dei tre generali aspetti che definiscono il campo:
- a) lo studio della valutazione concorrente degli esiti; in sintesi, questo aspetto riguarda la ricerca degli orientamenti più efficaci e più efficienti, e la valutazione differenziale degli interventi specifici all’interno di ciascun approccio; inoltre, si esaminano quegli aspetti che caratterizzano il "formato" delle psicoterapie, cioè quegli aspetti legati al tempo impiegato ed al tempo necessario relativamente a ciascun approccio (la domanda chiave è "che cosa funziona meglio?").
- b) lo studio del processo della psicoterapia; questo ambito riguarda lo studio di tutti quegli aspetti che caratterizzano una psicoterapia, dagli aspetti della relazione terapeutica ai singoli comportamenti che avvengono durante il corso del trattamento (la domanda qui è "che cosa succede e perché si cambia?").
- c) lo studio dei fattori comuni; questo aspetto prende in considerazione singolarmente quegli elementi che sono giudicati efficaci per analizzare che cosa caratterizzi una psicoterapia "generica" che funzioni (la classica domanda sarebbe "da che cosa è caratterizzata una psicoterapia generica?").
Aspetti generali
Partendo dal fatto assodato che non ha senso valutare o confrontare oggetti appartenenti a classi differenti, dobbiamo in qualche maniera definire dei confini entro i quali gli elementi sotto esame sono assunti come simili. A questa delimitazione può contribuire la chiarificazione di alcuni concetti di base i quali sono anche i fondamenti teorici della disciplina ed anche gli assi entro i quali i diversi orientamenti e variazioni della psicoterapia si muovono. Potremmo anche affermare che ogni modello ed orientamento che si occupi di psicoterapia deve rispondere ad alcune domande fondamentali che riguardano gli aspetti di base, e dunque in conseguenza anche le caratteristiche del proprio orientamento.Queste domande riguardano classicamente i seguenti argomenti:
1) Modello della mente: ogni approccio deve avere una teoria su come funzionano le persone; in sostanza deve possedere un quadro di riferimento principalmente attinente alla comprensione e spiegazione dei processi mentali in senso generale. Si richiede ad un orientamento di definire a) che cosa è il sistema mentale, che cosa è la mente, come funziona, quali sono le caratteristiche e i processi che la definiscono; b) che cosa si intende per personalità e in che cosa si sostanzia questo termine; c) che cosa distingue e caratterizza questo livello di spiegazione da altri livelli di spiegazione dei fenomeni osservati (molecolare, biologico, fisico, relazionale, etologico, sociale, ...).
2) Meccanismo del disturbo: ciascun approccio deve chiedersi e rispondere su che cosa definisca un disturbo, un fatto anormale, un fenomeno interessante dal punto di vista dell’intervento. Si richiede una risposta ad alcuni aspetti quali le cause, i fattori di mantenimento, i fattori o le variabili interessate nella diminuzione o cessazione del disturbo; in sostanza, è opportuno avere una teoria sul meccanismo del disturbo in tutti i suoi aspetti del funzionamento.
3) Tecnica terapeutica: occorre, inoltre, avere delle risposte riguardo quelle azioni o quei fatti associati o connessi in senso causale alla risoluzione del disturbo o alla sua diminuzione. E’ necessario sapere che cosa fa cessare il disturbo, come si fa a farlo in concreto ed in modo valido ed affidabile.
4) Setting: in ultimo, è necessario disporre di informazioni, per ciascun approccio, riguardo le condizioni in cui è consigliato o indispensabile attenersi affinché sia possibile applicare una tecnica terapeutica. Domande in questo senso devono chiarire aspetti quali il programma di obiettivi e tempi utili o necessari per attivare efficientemente la psicoterapia, le verifiche da farsi, i luoghi dove si può fare, i modi di organizzazione logistica che comprendono anche chi ne ha a che fare e chi interviene e a quale livello dell’intero processo.
Tali questioni riguardano tutti gli psicoterapeuti, e sulla base di questi punti possono essere indirizzati i tentativi di traduzione da un lessico terapeutico ad un altro. Queste 4 domande generali fissano il campo entro cui deve essere costruita una griglia di valutazione, di qualsivoglia natura e grado di definizione. Recenti lavori hanno sottolineato questi criteri (Held, 1995; Johnson, 1996; ...).In particolare, Barbara Held ha proposto una classificazione generica minimale che permette di definire gli orientamenti della psicoterapia rispetto a tre criteri di fondo: a) teorie sulle cause dei disturbi, b) teorie sulle procedure e sulle tecniche, c) tipologie di problemi e di pazienti.Naturalmente, non tutti gli orientamenti e "scuole" sono definibili con tali criteri. Inoltre, alcuni approcci hanno contribuito più di altri alla definizione ed alla esplicitazione dei problemi, ma viceversa, altri orientamenti non possono rispondere in modo empiricamente fondato a tali quesiti. E’ il tipico caso del gioco delle sedute spiritiche dove se non ci credi non appare nulla!Gli aspetti culturali e teorici non sono stati gli unici aspetti nel ritardare l’uso di procedure di valutazione più rispettose dei criteri di adeguatezza di un confronto; anche alcuni aspetti tecnici (relativi al senso da attribuire alle stime di effetto "ES") hanno notevolmente complicato il settore. Infatti, un aspetto rilevante sia nelle valutazioni concorrenti che nella ricerca sul processo terapeutico è quello della corrispondenza delle variabili tra i diversi studi. Non solo esiste una certa difficoltà nell’accostare una approccio terapeutico ad un altro ma la stessa ricerca valutativa, spesso con procedimenti valutativi "a ritroso" come le meta-analisi, diviene priva di senso. Diversi importanti contributi meta-analitici, anche se numericamente consistenti, appaiono poveri nella capacità di confrontare una psicoterapia di un certo orientamento con una di diverso approccio sia nella valutazione delle variabili in gioco che nella valutazione del livello di analisi. Ad esempio, se confrontiamo il numero dei successi e il numero dei soggetti invariati nei campioni sperimentali e di controllo in due approcci diversi, A e B, vediamo all’atto pratico come la stessa definizione di "numero di successi" non ha molto senso; infatti, mentre per un orientamento A la fine del trattamento ha un criterio, per un orientamento B ha criteri differenti. La cosa non cambia, naturalmente, se a definire la fine della terapia sono gli psicoterapisti stessi, in quanto se per l’uno essa equivale alla scomparsa di fantasie e resoconti che vengono associate e valutate come negative (o regressive, non è qui molto importante), per l’altro il termine è la capacità autodeterminata di cavarsela senza aiuto. Dunque, non credo che qualcuno voglia seriamente mettere a confronto dati che appartengono a classi diverse. Il confronto può essere possibile allo stesso livello, e come vedremo permette ampiamente il confronto tra approcci differenti.Prima di affrontare il problema del confronto tra livelli epistemologici sarà utile definire, anche se brevemente, le procedure di valutazione più usate, cioè le meta-analisi.La metodologia delle meta-analisi consiste sinteticamente in alcuni passaggi riguardanti il trattamento statistico di informazioni tratte da una base dati che corrisponde ad una serie di ricerche empiriche. Il primo passo equivale ad una ricerca sistematica di studi empirici i quali riportano tra i risultati alcune informazioni necessarie: media e deviazione standard del gruppo sperimentale e del gruppo di controllo (come base minima). Il secondo gradino del metodo corrisponde alla normalizzazione delle misure; tutti i dati devono essere tradotti in una unità di misura unica per tutte le ricerche. L’ultimo passaggio è la suddivisione delle variabili in gruppi in relazione allo specifico ES (effect size). Le variabili possono essere diverse: tipi di psicoterapia, tipi di disturbo per singola psicoterapia, tipi di intervento specifico, dati socio-anagrafici, tipo di trattamento in generale (medico, psicologico, o altro), tratti di personalità, punteggi ad un test. Questi risultati sono confrontati attraverso l’entità delle differenze (significative o non significative). Inoltre, una meta-analisi è giudicata buona se il campione di studi è rilevante e se ciascuno studio considerato ha gruppi consistenti e contiene informazioni dettagliate riguardo i metodi di rilevazione e di misurazione (sistemi di codifica, tests, protocolli, ecc...). Ai fini di una disamina critica sono proprio i metodi di traduzione delle misure a causare confusione (a parere di chi scrive) in quanto nel tentativo di omogeneizzare i dati (tentativo ok) si ignorano le specifiche caratteristiche (risultato non ok).Un ulteriore problema derivante dalla maggior parte degli studi meta-analitici è quello della composizione dei campioni delle ricerche da esaminare: molte delle ricerche che hanno ben espliciti i parametri metodologici (media, deviazione, misure, tests, durata, chiarezza delle variabili in gioco) sono ricerche non cliniche ma studi che si basano su soggetti spesso volontari, che ottengono certi punteggi a questionari sintomatologici (MMPI, SCL90-R, MHQ, solo per fare alcuni esempi), e che per questo vengono inseriti in programmi di consulenza a tempo determinato. Tali studi sono ben lontani sia dalla realtà della psicoterapia come effettivamente viene praticata sul campo (effectiveness psicotherapy) che dai problemi che la pratica clinica deve superare ed aggirare adattandosi alle diverse circostanze concrete (Seligman, 95).
Coordinate epistemologiche
Un punto importante è quello della individuazione delle coordinate epistemologiche attraverso le quali leggere ed analizzare le ricerche sulla efficacia della PST. A partire dalla ormai famosa distinzione proposta da Bruner (Bruner, Acts of Meaning, 1990), possiamo individuare l’appartenenza di un approccio come "spiegazione paradigmatica" oppure come "approccio narrativo". Seguendo questa impostazione teorica (Toukmanian, Rennie, 1992) possono essere indicate le coordinate epistemologiche della valutazione della PST come segue.
- Oggetto della ricerca
- Livello di riduzione
- Prospettiva
- Modalità di indagine
- Unità di Indagine
Queste coordinate vengono indicate come base teorica a partire dalla quale implementare le singole specifiche ricerche sul campo ed inquadrare in modo più preciso le numerose ricerche di questi anni.Ogni approccio ha i propri scopi e le proprie metodologie congeniali, ma è necessario avere chiaro "a che livello" e di "che cosa" ci si sta occupando prima ancora di analizzare che cosa funziona di più.La prima coordinata in esame è quella relativa all’oggetto della ricerca; in questo ambito può essere presa in considerazione la distinzione tra approcci che prediligono una spiegazione paradigmatica e quelli che pongono l’accento su un approccio narrativo. L’oggetto dei primi è quello di studiare il processo di cambiamento in terapia, inteso come studio degli indici che segnalano un cambiamento. A questo livello di analisi viene focalizzato il "che cosa è cambiato" ed il "come è cambiato". L’atteggiamento generale è tendente alla descrizione ed alla analisi del fenomeno, e presume una forte assunzione di regolarità. Si pone l’accento su posizioni empiriste e razionaliste attraverso una metodologia codificata ed accettata, ed attraverso anche la costruzione di un lessico condiviso relativo agli eventi ed agli indicatori di questi eventi. L’oggetto del secondo orientamento, quello narrativo, è costituito generalmente dallo studio dell’esperienza del cliente. In questo ambito è focalizzato lo studio del significato personale del soggetto, e lo studio della relazione terapeutica ad un livello di analisi che permetta la comprensione sensata delle intenzioni dei soggetti coinvolti. L’atteggiamento teorico è prevalentemente induttivo.La seconda coordinata considerata è il livello di riduzione. Questo parametro è stato utilizzato da diversi autori con differenti unità di riduzione, ma è chiaro che l’aspetto importante è quello di individuare una scala variabile di livelli di analisi, i quali sono esplicitati chiaramente. Ad esempio possono essere considerati i seguenti livelli: il soggetto (la persona), dove i contenuti presi in esame saranno dotati di intenzionalità: credenze, desideri, bisogni, valori, ricordi, aspettative; le prestazioni: dove sono considerate le regolarità comportamentali e vi è una esplicita ricerca di un determinismo; i processi e strutture cognitive: dove sono studiati i dati sperimentali attinenti alle modalità di funzionamento del sistema mentale.La prospettiva d’esame è la terza coordinata, ed essa è classicamente considerata nelle ricerche che fanno uso di sistemi di codifica. In questo ambito possiamo indicare tre variabili: l’osservatore esterno, il cliente, il terapista. La prospettiva dell’osservatore esterno evidenzia un chiaro focus sui processi automatici che sono, in quel momento almeno, fuori dalla coscienza; inoltre, c’è un esplicito accordo sui fatti da considerare e studiare, e molto spesso si usano liste di obiettivi (che sono contenute in sistemi di codifica). La prospettiva del cliente, invece, focalizza le informazioni dirette sul processo di cambiamento; esse possono essere, come vedremo più avanti, di natura ed aspetto diverso. La prospettiva del terapista, infine, si delinea come un punto intermedio, dove esiste un personale coinvolgimento ma esso è orientato teoricamente (è inserito in una griglia di lettura personale che deriva da un aspetto della tecnica).La quarta coordinata è la modalità di indagine. Sebbene sia possibile estendere il range delle metodologie, è preferibile, almeno per gli scopi di questo scritto, indicare due generali categorie. Un primo aspetto è quello relativo ai sistemi di codifica, i quali possono essere particolari strumenti focalizzati per particolari costrutti teorici; essi hanno un dichiarato focus esterno e richiedono anche una prospettiva esterna. Nell’uso dei sistemi di codifica è preferibile l’adozione di linguaggi e metodi standard e sistematici. In questo ambito metodologico rinveniamo dei presupposti teorici espliciti ai quali abbiamo accennato prima. In questo settore possiamo incontrare alcuni problemi di misurazione relativi soprattutto all’aderenza dello strumento rispetto al fenomeno da misurare. La seconda categoria delle modalità di indagine è l’esame dei resoconti. Questa variabile si riferisce alle tipologie di raccolta di resoconti del soggetto e possono essere molto diverse tra loro; tuttavia, tutti i modi di indagine in questo ambito condividono l’aspetto di essere autodescrizioni. Queste indagini possono essere: questionari, liste di aggettivi, schede, diari, risposte orali, punteggi likert su specifici costrutti. A questo livello di indagine abbiamo i tipici problemi della falsificazione e della distorsione motivazionale. Se l’informazione è diretta e soggettiva allora può essere intenzionalmente distorta o involontariamente sfocata (ciò ha un suo senso, naturalmente, anche se non ai fini di una valutazione della psicoterapia). Infine, nell’ambito dei resoconti è possibile evidenziare una attività di co-costruzione, in particolare in quelle ricerche che utilizzano resoconti meno strutturati (diari, risposte orali, schede).L’ultima coordinata epistemologica presa in esame è l’unità di indagine. Le ricerche e le metodologie valutative si distinguono per le unità di indagine prese in esame, talvolta vediamo confrontate ricerche con unità di indagine differenti. Il formato preso in esame può essere molto ampio, e può variare da istanti al corso dell’intera vita. Possiamo classicamente ritrovare nel range dell’unità di esame le seguenti variabili: episodi o eventi, ora di terapia, periodi della terapia, corso della terapia, esito dopo un follow up. Per quanto riguarda l’analisi di episodi o eventi in terapia, i fatti presi in esame possono essere diversi tra i quali: risoluzione di conflitti, espressioni particolari, metafore, momenti più significativi indicati dal cliente, presenza di specifici indicatori nel comportamento. In questo ambito è cruciale l’incrocio con la coordinata della prospettiva in quanto a seconda della angolazione d’esame possono essere indicate variabili significative.Questa griglia di analisi evidenzia come le psicoterapie possono variare in quanto ad atteggiamenti di fondo e metodologie di raccolta dei dati. Questo può non essere un problema insormontabile se gli oggetti dello studio sono esplicitati in partenza, ma può essere un grave problema di metodo se non se ne fa alcun cenno. Una ricerca valutative deve poter disporre di informazioni disposte ad uno stesso livello di riduzione, oppure deve indagare le differenze in una coordinata ma attraverso studi che nelle altre coordinate hanno dati equivalenti. E’ il vecchio adagio della ricerca empirica: se ti interessa come si comporta una variabile, devi mantenere ferma l’altra (o le altre).Le conclusioni di questa proposta epistemologica sono che: in primo luogo, le meta-analisi devono porsi come obiettivo la ricerca di studi equivalenti; in secondo luogo, i diversi approcci possono confrontarsi tra loro solo se tengono in conto le caratteristiche distintive esistenti tra orientamenti diversi; come ultimo punto, è opportuno e possibile un linguaggio comune tra le psicoterapie di orientamento diverso.
Considerazioni su alcune ricerche
La quantità di ricerche sulla valutazione della psicoterapia è impressionante. Vi sono migliaia di studi sulla efficacia, sul processo terapeutico, sui fattori comuni, sulla valutazione concorrente di singoli interventi, e sul confronto tra approcci diversi (compreso l’approccio farmacologico). Per una rassegna ragionata e completa si rimanda al pregevole volume di Allen E. Bergin e Sol L. Garfield (Bergin A.E., Garfield S.L., 1994).Il punto cruciale, che sembra essere dimostrato dalla maggioranza delle ricerche, è che le psicoterapie facilitano la remissione dei sintomi; esse non solo promuovono il naturale processo di miglioramento e guarigione ma aggiungono strategie e strumenti di adattamento e risoluzione ai soggetti oltre a fornire abilità per affrontare i problemi simili in futuro (Lambert, Bergin, 94; Norcross J.C., Goldfried M.R, 1992; Luborsky et al., 1985; Seligman M, 1995).Alcuni parametri propri del terapista sembrano influire significativamente sull’andamento della psicoterapia: grado di abilità (possesso di una qualche forma di algoritmo), esperienza (numero di fatti e di casi disponibili alla propria memoria), presenza stabile, tratti di personalità, caratteristiche formali della teoria posseduta.Altre caratteristiche inerenti al paziente sono state isolate in quanto correlate all’andamento delle terapie: tratti di personalità, esperienze psicoterapeutiche precedenti, aspettative generali sulla psicoterapia, aspettative specifiche sul terapista.Sono state definite inoltre delle variabili correlate alla psicoterapia efficace che prendono in esame il costrutto di "relazione terapeutica": possibilità di avere ascolto, condividere gli atteggiamenti del terapista, avere incoraggiamenti, collaborazione reciproca, ed altri aspetti che esamineremo più avanti.Una delle più importanti e corpose ricerche sulla valutazione del processo psicoterapico è certamente quella di Orlinsky, Grawe, e Parks (Orlinsky, Grawe, Parks, 94). Sia la definizione delle variabili che l’analisi dei risultati propongono un quadro complesso ma sistematico del processo in psicoterapia evidenziando i punti emergenti e più rilevanti (se correlati agli esiti) e gli aspetti di interrelazione tra fattori diversi in un interessante ed ipotetico modello generico di psicoterapia. Tra i fattori presi in esame e che si sono rivelati più rilevanti vi sono i seguenti aspetti: contratto terapeutico, interventi terapeutici, relazione terapeutica, autoriferimento, impatto in seduta, sequenza. E’ interessante che tra gli interventi terapeutici, gli autori indicano alcune "euristiche terapeutiche" che pur essendo solo alcuni degli interventi descritti sono una parte importante degli interventi valutati come efficaci; essi sono: rafforzare l’alleanza terapeutica, promuovere astrazioni riflessive, approfondire il processo emotivo, potenziare le abilità adattive e la competenza; altri interventi sono: confrontazione esperenziale, intenzioni paradossali, interpretazione, esplorazione, supporto ed incoraggiamento, riflessioni e chiarificazioni, autoapertura del terapista, consigli. Un aspetto importante di questa ricerca è l’accento sulla coordinazione tra paziente e terapista (buona relazione, collaborazione, protocollo si lavoro, alleanza, ...) attraverso la quale i vari interventi possono avere successo. In sostanza, per poter lavorare bene paziente e terapista devono intendersi bene e collaborare l’uno con l’altro (piuttosto che effettuare interventi contro le intenzioni del soggetto sia da parte del terapista che da parte del paziente). Questa puntualizzazione definisce la relazione terapeutica più come uno stadio funzionale della psicoterapia (cioè come interventi tecnici) che come la costruzione di un clima sano (che dovrebbe essere la base di tutti i rapporti positivi).
Aspetti del processo della psicoterapia
La relazione terapeutica Come proposto da Semerari (1996), le teorie della relazione terapeutica si possono dividere in due principali categorie: quelle che si occupano di descrivere e spiegare gli eventi che caratterizzano la relazione tra paziente e terapeuta, e quelle che invece studiano in che modo le caratteristiche di una relazione terapeutica influenzano la cura.Sia in ambito cognitivista che in campo psicoanalitico l’interesse si è focalizzato sugli aspetti legati allo schema interno posseduto dal soggetto (schema, prototipo, internal working model, interpersonal schemata, ...) che in qualche modo possa spiegare l’andamento del processo e l’influenza particolare. L’ipotesi generale è quella che vede l’individuazione di un dato schema interpersonale nel soggetto e la costruzione in terapia di una esperienza sia correttiva che chiarificante.L’aspetto valutativo nella relazione terapeutica è ampio. Sono stati messi a punto strumenti che prendono in considerazione le interazioni tra paziente e terapista, e che in particolare possano predire o studiare le caratteristiche sia di relazioni positive che di quelle negative (interrotte o iatrogene). Gli strumenti in questione hanno approfondito vari aspetti, dalla interazione verbale, ai contenuti particolari (rifiuti, assenzi), a caratteristiche specifiche della interazione come i tempi espressivi, tono di voce, la comunicazione non verbale in generale; alcuni autori (il più esemplificativo è il gruppo di Luborsky) hanno approfondito anche la presenza di particolari interazioni, ricollegate teoricamente alla presenza di un modello interno del paziente. Su tale filone molti autori di diversi orientamenti hanno esplorato le interazioni significative (ad esempio, le interazioni conflittuali) mediante strumenti appositamente disegnati (ad esempio, il CCRT di Luborsky).Se da un punto di vista strettamente tecnico sono ampiamente acquisiti dati che indicano la relazione terapeutica come un fattore centrale nella efficacia della psicoterapia, non è ancora chiaro se lo stesso concetto di "relazione terapeutica" sia un aspetto della tecnica o una condizione di base che precede l’intervento. Per quel che riguarda il quesito inerente gli aspetti "tecnici", la relazione terapeutica sembra veicolare i seguenti elementi terapeutici: esempio positivo e modello autorevole di riferimento; chiarificazione, educazione, apprendimento pratico di soluzioni; presa di coscienza, autoesplorazione, aumento di consapevolezza; esperienza emotiva correttiva, adattamento, figura vicariante; funzione vicariante, aiuto e supporto funzionale, co-costruzione. Come vedremo più avanti, tali aspetti terapeutici sono alcuni degli elementi comuni delle psicoterapie.Alcuni autori si riferiscono alla "relazione" come ad una sorta di entità, di mente, di processo dotato di intenzioni e di scopi o capace di rappresentazioni. Se tutto questo serve ad un modello teorico allora può essere di aiuto come metafora o come esempio, ma se la costruzione di una entità deve servire a spiegare qualcosa allora l’operazione non può essere che negativa e sbagliata sul piano scientifico.Per quanto riguarda gli andamenti della terapia, molti autori hanno indicato nella valutazione della relazione terapeutica la misura degli esiti o della iatrogenicità della psicoterapia. Sembrano emergere alcuni fattori comuni nelle spiegazioni dei diversi autori, fattori sufficientemente generali per essere utilizzati come modello. Un primo fattore sembra essere quello che indica una acquisizione di un nuovo punto di vista da cui esaminare i propri problemi, punto di vista che apparterrebbe al terapeuta; quando questo punto di vista viene scambiato per la realtà in alternativa drasticamente opposta al proprio punto di vista allora il paziente può dissociarsi, confondersi, derealizzarsi, in quanto il nuovo modo di conoscere potrebbe negare o confliggere con altre credenze ed altri segmenti di conoscenza legati in qualche modo al proprio modo di vedere.Un secondo fattore sembra quello di considerare come realtà o come verità una teoria o un assunto sovraordinato ad certo intervento, che appare essere la versione riferita al terapista dell’elemento precedente. Questo atteggiamento porterebbe il soggetto alla confusione, come pure ad una ingiustificata sottomissione conoscitiva rispetto al terapista.Entrambi gli aspetti si riferirebbero ad una inclinazione di ciascuno dei due partecipanti a scambiare le indicazioni e ed il materiale di lavoro con una versione ufficiale della realtà (del paziente). Il processo sottostante sarebbe quello di impedire, o al meglio ostacolare, il processo di ricostruzione e di concettualizzazione del paziente relativamente a ciò che gli accade (e/o che gli è accaduto).
Placebo Molti autori si interrogano sul significato dell’effetto Placebo in psicologia, ed in particolare nell’ambito della valutazione delle psicoterapie. Tale metodologia, che trova un impiego utile e sensato nelle discipline mediche, biologiche e fisiche nella valutazione dell’efficacia delle terapie mediche, non sembra giustificabile in termini psicologici. Infatti, mentre l’effetto svolto dall’atto di assumere una pillola inerte può essere confrontata con l’azione svolta dalla terapia effettiva, qualsiasi intervento o condizione che caratterizza il gruppo di controllo può avere un effetto in termini di meccanismo di cambiamento psicologico. Dunque, è arduo definire placebo un intervento nullo in quanto probabilmente l’ipotetico placebo può essere efficace in termini di cambiamento psicologico. Alcuni autori sottolineano l’opportunità di prendere in considerazione il termine "inerte", ma anche esso non è definibile in modo utile ed univoco. Altri autori hanno proposto l’impiego di "fattori non specifici" per etichettare quei fattori comuni tra i diversi interventi psicoterapici, e quindi anche tra i diversi orientamenti, che sarebbero distinti da quegli interventi specifici delle diverse tecniche. Tale posizione non è priva di dubbi in quanto i fattori comuni identificati da diversi autori non sarebbero altro che gli stessi interventi specialistici delle diverse tecniche. Per risolvere il problema, specialmente da un punto di vista metodologico, è utile considerare il confronto tra gruppi diversi, dove in alcuni (controlli) sono noti i fattori attivi e le variabili indipendenti; attraverso tale tradizionale correlazione è possibile indicare il comportamento delle variabili in gioco. Alcuni problemi nascono anche nelle valutazioni tra gruppi non trattati: ad esempio, le differenze tra soggetti trattati e soggetti non trattati sono, a volte, ridotte a causa di un aumento di ES dei soggetti di controllo piuttosto che da un peggioramento dei soggetti trattati; oppure, alcune volte le misure pre- e post-trattamento non differiscono significativamente in quanto i soggetti tenderebbero a valutarsi stabilmente rispetto ai risultati effettivi del trattamento; tali eventualità naturalmente riguardano solo le valutazioni che si basano su liste di sintomi (questo vale anche per il problema, per certi aspetti diverso, del follow up, in quanto i follow up a breve termine sarebbero inutili in quanto i soggetti tenderebbero a mantenere i risultati positivi del trattamento nel breve-medio termine).
Fattori Comuni nelle Psicoterapie
Come esposto più sopra, non solo alcuni interventi tecnici sono comuni a più orientamenti teorici, ma alcuni interventi sono comuni a tutti gli orientamenti ed approcci delle psicoterapie.Questa conclusione nasce da più stimoli: un primo elemento a supporto è costituito dalla quantità di dati a disposizione dopo ormai centinaia di ricerche e metanalisi su questo aspetto; un secondo elemento deriva dagli stessi autori di diversi orientamenti i quali sempre più sentono il bisogno di tradurre nel proprio linguaggio i dati sperimentali della psicologia ed i risultati ottenuti da altri orientamenti psicoterapici; un terzo elemento è quello derivante dalle applicazioni estensive della psicoterapia (o meglio, dei fattori di cambiamento studiati dalla psicologia sperimentale e tradizionalmente attribuiti come caratteristici del campo della psicoterapia).A proposito dell’ultimo aspetto, vale a dire delle applicazioni estensive dei fattori di cambiamento, è utile ricordare che molti dei settori in voga nella psicologia applicata (psicologia della persuasione, formazione in aspetti della psicologia nel campo del lavoro, mediazione familiare, psicopedagogia del comportamento in classe, attività nei centri ascolto, attività di comunità terapeutica, interventi di gruppo per la gestione di problemi sociali specifici, e molti altri ancora) non sono altro che interventi di psicoterapia, ed in particolare sono interventi assimilabili agli elementi comuni delle psicoterapie.In sostanza, gli aspetti tecnico-psicologici delle psicoterapie possono essere individuati nei processi psicologici che sono alla base degli interventi effettuati. Inoltre, anche gli stessi interventi non sono così eterogenei come si potrebbe pensare ma al contrario possono essere raggruppati in fattori più generali: i fattori comuni delle psicoterapie.Vari autori (Frank, Frank, 91; Luborsky et al., 71, 75, 85, 90; Beutler, 83 89, 91; Lambert e Bergin, 94; Orlinsky el al., 94; Truax, Carkuff, 67; Martin J., 92; Weiss J.,1994; Stricker, Gold, 93; 97. per ricordare solo alcuni) hanno proposto fattori generali comprensivi degli elementi comuni. Queste diverse proposte sono praticamente sovrapponibili, e con le dovute cautele di ogni generalizzazione possono essere raggruppati come segue:
1) Addestramento, allenamento, insegnamento, apprendimento, educazione, ....;
2) Concettualizzazione, esplorazione, chiarificazione, interpretazione, consiglio, ....;
3) Ascolto, incoraggiamento, supporto, sostegno, fiducia, dimostrazioni di affetto, ...
Questi tre fattori sarebbero presenti, in mix differenti, in tutte le psicoterapie, anche se ciascun approccio ed orientamento ha la sua ricetta specifica nella quale vediamo accentuate certe caratteristiche piuttosto che altre. Inoltre, ciascun fattore ha una logica ed un meccanismo di spiegazione proprio in quanto permette di raggruppare (evidentemente non solo come cluster!) diverse sfumature interne.Non è semplice attribuire un nome a ciascun fattore in quanto ognuno dei raggruppamenti è composto da diverse sfumature, ma appare chiaramente che ogni fattore è una "famiglia" di interventi semanticamente correlati che presuppongono (o più precisamente, segnalano) un identico processo psicologicamente traducibile. Un esempio molto impreciso potrebbe essere il seguente: un soggetto capisce, applica, ed è sostenuto nel farlo; oppure un soggetto è rassicurato, tenta X, e comprende la origine e la meccanica del problema; o ancora, un individuo si sente valutato positivamente, rivede il giudizio su di sé, e si comporta poi di conseguenza. Questi esempi naturalmente non rendono giustizia del processo continuo e complesso della psicoterapia, ma nondimeno indicano che i fattori presenti sono proprio quelli indicati più sopra.Alcune ricerche hanno evidenziato come la componente più supportiva e legata alla relazione terapeutica sia il fattore centrale e più coinvolto nelle somiglianze delle psicoterapie efficaci (ad esempio, Luborsky et al., 85; Orlinsky et al., 94; Seligman, 95; Lambert, Bergin, 94; Stricker, Gold, 93; 97; Weinberger J.,1995; Weiss J., 1994); naturalmente ciò sembra abbastanza condivisibile in quanto la logica di un cambiamento veicolato attraverso l’accoglimento di stimoli ed informazioni provenienti dal terapista, visto come figura positiva ed autorevole, richiede che un soggetto creda qualcosa solo se la fonte è autorevole ed affidabile. Dunque, una relazione positiva è la "condizio sine qua non" di una psicoterapia valida, ma essa non è tutto.Il campo della ricerca dei fattori comuni nelle diverse psicoterapie ha stimolato diversi autori ad elaborare un modello di terapia fondato sui fattori comuni; ciò ha portato al tentativo di coniare un linguaggio di riferimento che possa accogliere i vari orientamenti. Se questo tentativo di unificazione deve presupporre un modello esplicito dei processi psicologici implicati allora deve anche selezionare quali processi sono ammessi nel campo della psicologia psicoterapeutica e quali invece ne restano fuori. E’ quasi scontato ricordare che proprio questo è il punto cruciale di confronto tra i diversi orientamenti (Weinberger, J.,1995). Infatti, se da una parte può apparire benefico un modello unico, risultato delle traduzioni dei precedenti diversi linguaggi teorici, dall’altra c’è il rischio (almeno ipotetico) di una monopolizzazione e troppo stringente omogeneità di prospettiva. D’altra parte, il percorso di una disciplina verso lo status di teoria fondata empiricamente (cioè scientifica) è lo stesso in ogni settore della conoscenza: se si cerca di costruire una scienza il prezzo deve essere il taglio di ciò che non funziona e non è verificabile (in un senso più largo); ma se invece è importante mantenere gli aspetti intuitivi ed implicitamente assunti allora si dovrà rinunciare all’aspetto di "tecnica" o di procedura empirica fondata teoricamente. La conseguenza di questa considerazione è che la psicoterapia per essere procedura "prescrivibile" per il trattamento di un disturbo psicologico deve essere una tecnica giustificata empiricamente, altrimenti la indicazione di una psicoterapia (di qualsiasi orientamento) avrebbe il carattere di un consiglio pratico generico del tipo " vai in vacanza", "leggi un libro", "frequenta qualche amico", senza capire il processo psicologico di queste pratiche pur benefiche (peraltro, gli interventi d’aiuto informali che i soggetti praticano nella vita quotidiana possono essere spiegati solo in riferimento a processi psicologici alla base degli stessi fattori comuni delle psicoterapie). In sostanza, se i fattori comuni tendono ad unificare le psicoterapie, i modelli alla base di esse ancora dividono il settore.Eclettismo e fattori comuni La psicologia generale di base può essere il criterio di inclusione, pur considerando alcune divisioni presenti anche al suo interno. Essa può essere considerata il banco di prova dove le assunzioni dei diversi orientamenti devono essere esplicitate in forma di procedure verificabili, e relativamente al numero di approcci psicoterapici ne risulterebbe un quadro più ridotto e semplificato.Alcuni autori (Bleuter, 91; Johnson, 96; Norcross, 86; Norcross, Goldfried, 92; Prochaska, Di Clemente, 92; per citarne alcuni), nonostante un atteggiamento tendente alla sistematizzazione delle procedure della psicoterapia, hanno preferito uno stile ecclettico non fondato teoricamente ma caratterizzato da un orientamento tecnico e pragmatico. Per maggiore chiarezza distinguerò un orientamento eclettico tendente alla integrazione teorica, che corrisponde alla considerazioni fin ora esposte, ed un eclettismo tendente al pragmatismo. Quest’ultimo appare caratterizzato dall’uso di procedure e tecniche che sono recepite in quanto valutate efficaci. La integrazione tra le varie e diverse tecniche viene effettuata mediante un espediente di metodo: si valuta la tecnica giusta per lo specifico disturbo, in tal modo si arriva ad avere una griglia metodologica in cui ad ogni tipo di disturbo esiste una specifica tecnica (o mix di tecniche). L’orientamento tendente all’eclettismo pragmatico non sente il bisogno di una integrazione né l’utilità di una teoria di sfondo; tutto si muove su ciò che funziona e per cosa, e la valutazione resta confinata ad un livello "caso per caso".La scommessa posta dall’eclettismo pragmatico può essere posta in questo modo: se una tecnica funziona è utilizzata, e non ha importanza come si è arrivati a costruirla. Tale approccio è evidentemente empirico ed induttivo in quanto dipende dalle verifiche sull’efficacia (dipende dalla misura), è calibrato sugli esiti, ed inoltre è scarsamente sensibile alle ipotesi sul funzionamento mentale (teoria della mente). E’ proprio per questo che l’eclettismo pragmatico può essere visto come il risultato troppo precoce di un processo di siste2matizzazione delle procedure in psicoterapia; infatti, il corso intero di tale processo di sviluppo della disciplina dovrebbe giungere alla integrazione teorica ed alla costruzione di un linguaggio condiviso sia sulle procedure che sui processi psicologici implicati.
Conclusione
La valutazione delle psicoterapie, negli aspetti di studio sistematico degli esiti concorrenti, nello studio del processo psicologico della interazione paziente-terapista, e nella indagine sui fattori comuni a tutte le tipologie ed orientamenti, non è certamente un settore recente ma è sulla ribalta per due ordini di ragioni: la prima è di natura economica, e riguarda l’aspetto del costo della psicoterapia, relativamente al paziente come pure ai servizi che la erogano; la seconda ragione si riferisce all’aspetto scientifico, ed in particolare alla fase di sintesi ed integrazione dei dati empirici che segue la fase di sperimentazione in qualunque disciplina tecnico-scientifica.Per quel che riguarda il primo aspetto, lo scenario che sempre più sembra avvicinarsi sembra essere quello della verifica e della valutazione di protocolli procedurali, con la esplicitazione di precisi obiettivi e tempi. Il seguente schema (Johnson, 96) è un tipico esempio di linee-guida per Care Managment Unit (servizi di controllo dei criteri di Quality Improvement, che negli USA corrispondono ai nostri criteri di VRQ nel Sistema Sanitario):
- diagnosi (in un sistema accreditato; ad esempio, DSM IV, o ICD 10, o altro concordato);
- chiaro e schematico piano terapeutico;
- evidenze e dati indicanti la aderenza del paziente e terapista al piano terapeutico;
- chiaro rapporto tra obiettivi e ciò che accade in psicoterapia;
- chiara giustificazione degli obiettivi;
- relazione tra l’attività del terapista e gli obiettivi;
- tempo necessario per raggiungere gli obiettivi;
- piano concordato di allungamento tra le sedute al raggiungimento degli obiettivi;
- obiettivi finali tendenti alla Indipendenza ed Attività del paziente;
- programma di sessioni riservate per i pazienti lungo-assistiti.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, la generale integrazione dei contributi della psicologia generale sperimentale e della psicologia sociale sembra una strada già intrapresa da tutti gli orientamenti. Un esempio di tale andamento è l’uso in terapia di tecniche ed accorgimenti che derivano strettamente dallo studio dei processi di ragionamento, dagli errori sistematici dei soggetti, dall’uso di euristiche di elaborazione, dallo studio del funzionamento dei "meccanismi" di rassicurazione ed analisi della fonte di informazioni (ad esempio, Mancini, 96; Beutler, Guest, 89; Turk, Salovey, 86).Questi aspetti della valutazione, e della integrazione possibile nelle diverse psicoterapie, sono a tutt’oggi aspetti incompleti, ed il quadro generale resta ancora da tracciare.
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