La
relazione terapeutica
Spesso mi viene
fatta questa domanda: "se la psicoterapia consiste nel parlare,
perché dovrei raccontare i fatti miei ad una persona sconosciuta invece
che ad un amico? che differenza c'è?" E' vero, la parola
è lo strumento principale di una psicoterapia, ma le differenze con una
chiacchierata tra amici sono numerose. Cercherò di semplificare il più
possibile un argomento piuttosto complesso e certamente non esauribile in
una paginetta.
Innanzitutto, l'estraneità.
Questa dà al terapeuta il grande vantaggio di avere la mente libera da
(quasi) tutte le idee precostituite che ogni individuo ha rispetto
ad un altro individuo. Ho detto "quasi" perché è
impossibile eliminarle del tutto. Basti pensare al diverso effetto
che può fare una stessa frase, a seconda di chi, conosciuto o
sconosciuto, la pronunci: su questo effetto influiscono il sesso, l'età,
l'abbigliamento, il luogo di provenienza, l'aspetto fisico, e tanti altri
particolari che la nostra mente è pronta a cogliere ed elaborare in modo
quasi istantaneo ogni qualvolta incontriamo qualcuno.
Conoscere a fondo una
persona, o credere di conoscerla a fondo, amplifica molto questo
meccanismo. Nell'interpretare una realtà (una frase, un fatto, una
persona), noi siamo fortemente influenzati da ciò che pensiamo di quella
realtà. Una bella canzone di Gaber sul grano immutabilmente giallo,
diceva: io come biondo, se mi vedi biondo, io come amore, se ti aspetti
l’amore, io come buono, se mi vedi buono. Per il terapeuta è
essenziale guardare alla persona che gli chiede aiuto come ad una persona
totalmente da scoprire.
Questa non-conoscenza
ha delle ovvie conseguenze a livello emotivo e qui veniamo al secondo
punto importante. La relazione terapeutica non è una relazione di
amicizia, ma è diversa dalla relazione che può avere un qualunque altro
professionista con il proprio cliente. Il lavoro psicologico si basa
infatti sul rapporto personale che si crea tra due esseri
umani, ed è quindi normale, anzi auspicabile, un certo livello di coinvolgimento
emotivo che, però, deve essere mantenuto entro quei limiti che la
preparazione e la formazione impongono allo specialista; altrimenti
può diventare un elemento negativo, se non addirittura un ostacolo.
Per questo motivo non si prendono, o non si dovrebbero prendere
in terapia - né medica né psicologica - parenti e amici.
Un terzo elemento è
dato dalla maggiore libertà che ci dà il parlare con un
estraneo, una volta superato l'iniziale riserbo. E' noto il paradosso per
cui molte persone scelgono di raccontare in televisione delle cose che non
direbbero mai in famiglia. Con un estraneo non dobbiamo salvare la faccia,
non dobbiamo sostenere un ruolo, non dobbiamo preoccuparci dei sentimenti
che suscitiamo. E' un po' come parlare ad uno specchio che però ci
rimanda un'immagine molto più precisa di quella a cui siamo abituati,
un'immagine che a volte può arrivare a sorprenderci.
Il coinvolgimento
affettivo che è presente in un rapporto di amicizia è inevitabilmente
causa di distorsioni nell'interpretazione della realtà, e non
consente quella lucidità che serve per aiutare la persona in difficoltà
a vedere le cose come dal di fuori. Nel rapporto di amicizia in fondo
cerchiamo altro: la comprensione, la partecipazione, la complicità (anche
faziosa), l'affetto. A volte cerchiamo pareri e consigli. E'
importante potersi aprire con un amico, potersi sfogare, ma questo
è molto diverso dal "lavoro" sistematico e organizzato che si
fa durante una psicoterapia. Un lavoro, o meglio un viaggio dentro se
stessi, con la guida del terapeuta, alla ricerca di quei nodi, non
così visibili in superficie, che sono alla base del disagio e della
sofferenza. E alla ricerca delle possibili soluzioni che tuttavia non
possono essere suggerite dal terapeuta. Si potrebbe dire che uno
psicoterapeuta è come un insegnante di scuola guida: insegna a guidare ma
non decide la velocità e lo stile di guida, tanto meno decide la
destinazione.
Paola
Locci
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