Carl Whitaker e
l’evoluzione della psicoterapia (1)
Dott.
Matteo SIMONE
Psicologo,
Psicoterapeuta, Terapeuta EMDR
E’ passato dall’individuo,
iniziando a lavorare con la psicoterapia individuale con diverse tecniche
a partire dal biberon, la lotta, il gioco, l’addormentarsi in seduta e
continuando con la coterapia in psicoterapia individuale, fino alla
famiglia trigenerazionale.
Racconta di aver
iniziato la sua professione di medico ginecologo, durante la quale gli è
morta anche una sua paziente, poi è passato alla psichiatria
interessandosi alle famiglie con figlio schizofrenico: “Ci era ormai
chiaro che il motivo che spingeva le persone a lavorare con gli
schizofrenici era il desiderio di incontrare la propria parte psicotica
– quella che attualmente viene attribuita al nostro emisfero destro –
la parte non analitica, solistica della nostra corteccia cerebrale”.
Ha sperimentato molto
durante il suo lavoro, ha lavorato, oltre con riferimento a teorie, anche
improvvisando, lasciandosi guidare dall’istinto e apprendendo,
imparando, crescendo con i suoi pazienti, sua moglie e i suoi colleghi.
Infatti, da subito ha
capito che da solo era difficile lavorare con persone problematiche e ha
cercato aiuto sia in supervisione, sia lavorando con coterapeuti anche con
singoli pazienti.
Ha pensato di passare
alle famiglie per aver sperimentato che anche se la singola persona
migliorava con la psicoterapia, una volta tornata a casa si relazionava
con il suo sistema e quindi ricadeva nel precedente adattamento:
“spesso, dopo aver tirato fuori il paziente dalla sua psicosi e averlo
portato a un sufficiente livello di maturità, interveniva la famiglia
distruggendo i nostri tentativi terapeutici. Questa constatazione ci
indusse a cominciare dalla famiglia”, “spesso, una volta che il
paziente era guarito dalla sua componente psicotica, la famiglia, anche se
si trovava a mille miglia di distanza, trovava il modo di fargli
interrompere la terapia, facendolo precipitare nuovamente nella
psicosi”, “La coterapia con gli schizofrenici ha dato buoni risultati
… a patto che non rientrassero in famiglia. Quella sconfitta è stata
molto dolorosa, ma ha innescato la svolta successiva: il passaggio alla
terapia familiare”.
Quindi è passato al
lavoro con le famiglie, con le quali ha avuto bisogno dell’aiuto della
moglie che gli faceva da coterapeuta o di altro collega, in quanto ha
sperimentato che la famiglia era complessa ed era difficile lavorare da
soli con loro, in coterapia c’era una supervisione diretta, inoltre la
famiglia sperimentava la presenza di due figure che potevano rappresentare
la coppia genitoriale, infatti affermava che la famiglia poteva
considerarsi come un figlio, nel senso che andava seguita fino al processo
adolescenziale dove poteva decidere di poter prendere la propria strada:
“ci interessammo sempre di più alla possibilità di utilizzare due
terapeuti, un concetto assimilabile alla condizione genitoriale.
Iotizzammo che il primo contatto paziente terapeuta ricalcasse il modello
madre-figlio, e che il secondo terapeuta assumesse il ruolo di patrigno o
di padre, e fosse di conseguenza interessato alla realtà e più propenso
a instaurare un rapporto di tipo ‘io-tu’, al posto del primario,
materno ‘noi’”.
Nel testo vengono
riportati dei modi considerati assurdi nel condurre una psicoterapia, per
esempio, lavorando con bambini, usava il biberon per indurre una certa
regressione, successe per caso che pazienti psicotici vedendo il biberon
si sono attaccati sperimentando una regressione terapeutica e questo
diventò un modo di lavorare da poter provare ad emulare: “non era il
paziente ad avere bisogno di quella tecnica, ma il terapeuta. Stavo
imparando a essere materno e, una volta sviluppate consapevolezza e abilità
in questo campo, non ebbi più bisogno di ricorrere al biberon”.
Inoltre ha
sperimentato la psicoterapia con la lotta: “scoprimmo che il biberon era
un ottimo sistema per indurre la regressione e stimolare la crescita, ma
che si potevano ottenere buoni risultati anche attraverso la lotta” ed
ogni nuovo metodo lo applicava per un certo periodo fino a che ne
sperimentava uno nuovo.
Usava anche
addormentarsi in seduta, parlare dei suoi sogni: “addormentarmi in
seduta era un mezzo per entrare in rapporto con me stesso e con le mie
introiezioni del paziente e, contemporaneamente, anche una maniera di
comunicare con lui. Questo tipo di comunicazione era di solito più
efficace di qualsiasi concettualizzazione del mio emisfero sinistro”,
usciva dalla stanza e rientrando dava varie giustificazioni.
Con i suoi colleghi
usavano incontrare singolarmente una famiglia intera per la prima seduta,
mentre per la seconda si presentavano con l’intera famiglia ad un altro
collega che gli faceva da consulenza in presenza della stessa famiglia:
“Scoprimmo, e poi utilizzammo di routine, il secondo colloquio di
consulenza. Sembra che il primo terapeuta debba fare i conti con tutti i
tipici problemi di una madre: tende a perdonare tutto, ad accettare tutto
e a richiedere molto poco in cambio. Il consulente che interviene nel
secondo colloquio tende ad assumere un atteggiamento molto più paterno:
rivolto verso la realtà, esigente, intellettuale; molto meno incline ad
accettare la presentazione del problema e molto più libero di
concettualizzare la situazione in termini globali e gestaltici. Il
confronto fra di noi, a meno che il caso non fosse particolarmente grave,
avveniva di fronte alla famiglia. Il consulente formulava una diagnosi e
una proposta terapeutica. Poi ci spostavamo nel suo studio, dove io facevo
a mia volta da consulente per le sue famiglie. Il primo terapeuta aveva
principalmente la funzione di segretario. Le idee, le intuizioni, le
concettualizzazioni spettavano al consulente”.
A fine carriera è
passato a lavorare con più generazioni di una famiglia e quando lo
chiamavano per un appuntamento lui faceva una “battaglia per la
struttura”, nel senso che si assicurava se tutti i componenti della
famiglia erano disposti ad andare in terapia, comprendendo le tre
generazioni o altre persone conviventi o importanti, ed era sempre lui
l’ultimo a decidere, la persona che chiamava doveva capire che era lui
ad avere il potere, e affermava che è meglio non riuscire ad iniziare una
terapia che iniziarla e non riuscire. Altra battaglia che faceva era
quella per l’iniziativa, nel senso che dava ad intendere che la famiglia
non doveva aspettarsi che lui gli doveva risolvere il problema, ma
dovevano essere loro ad essere partecipi ed impegnarsi a fare qualcosa per
ottenere un minimo cambiamento: “La fase iniziale della terapia richiede
un colpo di stato da parte del terapeuta, che deve dimostrare di detenere
il potere e il controllo del processo terapeutico, permettendo così alla
famiglia di trovare il coraggio per cambiare il suo modello di vita”.
Affermava che con la
terapia famigliare preferiva iniziare con il far parlare il padre, per poi
passare ai figli e concludere con la madre, in quanto bisognava
coinvolgere la persona più periferica che in genere è il padre che sta
di solito più fuori la famiglia e che comunque molte volte dipendeva da
lui se continuare la psicoterapia perché poteva facilmente opporre
resistenza e quindi provocare l’interruzione della psicoterapia della
famiglia, ed ai singoli componenti la famiglia veniva chiesto come
funzionava la famiglia.
(1)
Carl A. Whitaker, CONSIDERAZIONI NOTTURNE DI UN TERAPEUTA della FAMIGLIA,
Roma, Astrolabio, 1990.
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