Sport e pianto
Dott.
Matteo SIMONE
Psicologo,
Psicoterapeuta, Terapeuta EMDR
Perché
si piange nello sport?
Per
gioia, per aver ottenuto un successo cercato da tempo forse da anni
attraverso periodi di intensi allenamenti, di sacrifici per aver fatto
anche rinunce importanti: Il tennista italiano Fabio Fognini si qualifica
con fatica ai quarti, al Roland Garros di Parigi. “Negli spogliatoi
piangevo un po’ per la gioia e un po’ per il dolore”, commenta il
vincitore riguardo i crampi che lo hanno bloccato inizialmente, rivelatisi
distrazione al muscolo femorale della gamba sinistra.[1]
Per
dispiacere, per aver subito una sconfitta: Sono rimaste impresse nella
mente dei tifosi giallorossi le lacrime in panchina del difensore francese
Mexes il 25 aprile dello scorso anno per la sconfitta contro la Samp, che
sanciva l'addio al sogno scudetto.
Per
le non ottime relazioni con lo staff sportivo di cui si fa parte.
Si
piange a tutte le età, si inizia da piccoli per diversi motivi. Perché
ci si sente obbligati a fare uno sport non scelto per gioco ma perché i
parenti o gli allenatori ritengono che puoi diventare un campione allora
già da piccoli bisogna allenarsi, adattarsi per arrivare ai mondiali alle
olimpiadi come succede per le arti circensi, si sa che per raggiungere gli
obiettivi per fare qualcosa in maniera eccellente c’è bisogna che la
persona, il fisico, i muscoli, le articolazioni debbano subire un
adattamento graduale e costante.
Si
piange da grandi perché ci si trova bloccati in qualche percorso sportivo
perché si è sperimentato la gloria, l’emozione da campione ma poi non
ci si riesce più a restare sulla vetta del mondo ed allora non avendo
investito in nient’altro non si sa che fare e ci si sente soli e a volte
anche disperati, come è successo, per esempio a Serena Williams: La ex
numero uno del mondo,
rientrata
la settimana scorsa dopo quasi un anno di stop, è tornata a giocare sul
centrale di Wimbledon dove aveva vinto la finale dell'anno scorso contro
Vera Zvonareva e, pur soffrendo un po', si è sbarazzata in tre set della
francese Aravane Rezai (6-3 3-6 6-1): poi, sciolta la tensione, ha pianto
per qualche minuto seduta sulla sedia coprendosi il viso con un
asciugamano. "E' stato un anno disastroso - ha detto ancora in
lacrime subito dopo la partita - non pensavo di riuscire a tornare, non
pensavo di poter vincere ancora. Queste sono lacrime di gioia"[2].
Si
piange perché lo sport fa anche male, da piccoli lo sport è gioco, ma da
grandi capita che si metta da parte la motivazione intrinseca che ti
permette di andare avanti per il piacere del gesto sportivo, delle
sensazioni che si sperimentano, per il piacere di competere con gli altri,
di combattere con gli altri, ed allora si può soffrire nel continuare a
fare un’attività sportiva solo perché si deve dimostrare agli altri
di essere forti, bravi, primi, imbattibili e se non si riesce senza il
piacere intrinseco si può soffrire tanto.
Lo
sportivo non è solo, è circondato dall’allenatore che dovrebbe
conoscere le sue potenzialità, i suoi punti di forza e di debolezza,
dovrebbe costruire con l’atleta un progetto di obiettivi raggiungibili,
stimolanti, da rivalutare all’occasione, dare feedback adeguati,
spiegare le sedute di allenamento, l’importanza del gesto sportivo, il
significato, raccontare aneddoti, far parte della storia sportiva
dell’atleta, condividere momenti di gioia e sofferenza, di vincite e di
sconfitte, essere disposto ad ammettere di aver fatto un errore, di aver
preteso, di aver sottovalutato, di non aver considerato.
I
famigliari contribuiscono al benessere o al malessere dell’atleta,
durante il percorso sportivo, l’atleta ha necessità di prendere
decisioni sul proseguio della sua carriera sportiva, ha bisogno di
proiettarsi sul futuro per immaginare quello che potrà essere, diventare,
fare se dovrà abdicare dal mondo sportivo per motivi vari, esempio,
infortunio, calo motivazione, impegni di allenamento diventati gravosi.
Si
piange perché a volte non si è maturi, non si è pronti a subire una
sconfitta, a volte nello sport per primeggiare c’è bisogno di grinta,
aggressività e può essere che gli avversari ne approfittino per mettere
uno sgambetto, per dare una spinta, per ostacolare uno più forte.
A
volte ci si viene a trovare in situazioni spiacevoli quali l’assunzione
cosciente di sostanze dopanti per diverse motivazioni, perché ci si sente
obbligati, perché ci si affida a qualcuno di fiducia che cura
l’alimentazione, l’integrazione, ed allora si pagano le conseguenze
con sofferenza.
Lo
sport è un mondo variegato, può essere interessante, stimolante, un
insegnamento di vita, ma va preso con le giuste dosi e con le giuste
persone altrimenti potrebbe comportare delusioni, disagi importanti,
sarebbe importante costituire gruppi di studio, di lavoro, equipe
multidisciplinari, composti da atleti, atleti, allenatori, educatori,
psicologi, sociologi, medici, antropologi che studi il fenomeno dello
sportivo nelle diverse sfaccettature per stabilire dei progetti e modalità
di intervento ad iniziare dalle scuole materne ed adatti a ai vari
contesti, scolastici, sportivi, aziendali in modo da prevedere delle
attività di Psicoeducazione sportiva che portino al benessere,
prevenzione della salute, educazione alla corretta alimentazione,
educazione all’attività fisica, educazione all’etica sportiva,
contemplando la possibilità di interessare campioni dello sport che
possano testimoniare il loro percorso sportivo ed i momenti salienti che
hanno attraversato sia positivi di successo, di soddisfazione,
realizzazione, sia quelli di sconforto, di sconfitte, di sofferenza.
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