Peter Pan: uno stile o un problema? Paola Locci Tempo fa rivedevo delle foto di classe del ginnasio. Mi ha colpito l’abbigliamento. Delle ragazze, ma soprattutto dei ragazzi. Le ragazze: alcune con il camice nero (allora detto grembiule), altre no, ma gli abiti erano comunque “seri”, per lo più gonna e camicetta o maglioncino, calze di nylon, scarpette con tacco, qualche collana e qualche braccialetto. Trucco e capelli non particolarmente appariscenti, ma ben curati. E veniamo ai ragazzi: praticamente tutti con camicia e cravatta, giacca sportiva ma giacca, alcuni con maglione o blazer, rigorosamente sopra la camicia e cravatta. Ricordo i miei compagni di scuola con abiti eleganti in occasione di feste, e li ricordo in maglietta e jeans (c’erano, c’erano...) in occasione di gite o passeggiate. Sto parlando di adolescenti tra i 14 e i 16 anni. Età testimoniata nelle foto da sorrisi un po’ impacciati e da spruzzi di “acne giovanile” qua e là. E non ho potuto fare a meno di pensare agli adolescenti di oggi: quasi inutile descriverli, li conoscete tutti. Così “anticonformisti”, così “trasgressivi” con i loro scarponi, i loro zainetti sempre incollati alla schiena, piercing e tatuaggi esibiti come trofei. Insomma la loro divisa. Logico, le mode cambiano e i giovani di ogni generazione giocano a fare i trasgressivi, pensando sempre di essere i primi a farlo. Il punto è un altro. In molte società esistevano, ed ancora esistono, dei rituali, più o meno primitivi, più o meno elaborati, a seconda del grado di evoluzione culturale, che segnano il passaggio degli individui dall’infanzia all’età adulta. Negli anni sessanta, nel nostro paese, il passaggio cominciava con l’ingresso alle scuole superiori. Non ricordo che qualcuno ci desse delle direttive su come abbigliarci, ma era ovvio che era finito il tempo dei calzettoni e delle ginocchia sbucciate. Finite le medie o equivalenti, cominciare a vestirsi da grandi era una specie di tacita regola, così come era normale che i professori ci dessero del lei. Va da sé che non veniva più tanto naturale stravaccarsi o scalmanarsi vestiti così: ne conseguiva automaticamente anche un comportamento più posato e composto. Questo non impediva a nessuno di scatenarsi altrove, nei parchi, al mare, in discoteca (c’erano, c’erano...). Né mi sembra che ci sentissimo particolarmente repressi nel vestirci in modo adeguato alle diverse occasioni. Certo, la comodità è importante, vuoi mettere un paio di scarpe da tennis? E la libertà di una t-shirt? Che c’entra l’età? Almeno adesso ognuno si veste come gli pare... D’accordo. Ma perché a nessuno gli pare di vestirsi “da adulto”? E perché, se lo fa, gli dicono che si veste “da vecchio”? Non sto dicendo che un abito da adulto faccia diventare adulti, ma siamo sicuri che non contribuisca? E se non contribuisce, come mai viene evitato come la peste? Se non sempre la forma è sostanza, è pur vero che spesso la forma diventa sostanza. E ciò avviene quando la forma è un simbolo, quando rappresenta qualcosa. Se così non fosse, non avrebbe senso la maggior parte delle cerimonie e dei riti che contraddistinguono molti momenti importanti della nostra vita. Se al giorno d’oggi vedere un trentenne girare in tuta e zainetto non sorprende nessuno, è anche vero che sempre più frequentemente la sindrome di Peter Pan conduce i suoi portatori a chiedere aiuto agli operatori della psiche. Difficoltà ad assumersi responsabilità, rinvio all’infinito di scelte importanti, indecisione sulla rotta da seguire e sulle mete da raggiungere. E ancora disturbi dell’alimentazione, sindromi ansiose o psicosomatiche che rivelano l’insoddisfazione e la profonda insicurezza sottostanti, mascherate da atteggiamenti disinvolti o stravaganti. Cosa farò da grande? Ci sto pensando. Una famiglia? Chissà, vedremo, è presto. Andarmene da casa? Perché? con i miei sto bene. Poi, in un batter d’occhio, arrivano i quaranta. E anche l’angoscia, l’insonnia, la depressione. Quand’è che un ragazzo smette di essere un ragazzo e diventa adulto? Una volta, per le donne, c’era un limite segnato dal matrimonio: infatti si diceva “da signorina” o “da ragazza” per indicare il periodo prima del matrimonio. Fosse stata pure una diciottenne, il giorno dopo il matrimonio indossava il suo bravo tailleurino e veniva promossa al rango di “donna”, o “signora”. Per gli uomini, anno più anno meno, il diploma, l’ingresso all’università, oppure il primo lavoro per chi non studiava, erano le tappe che portavano alla patente di adultità. Come tutti ho seguito la vicenda dei tre italiani presi in ostaggio in Iraq, e come tutti sono felice per la loro ritrovata libertà. Persone di quella tempra, non proprio adolescenti, che fanno un mestiere difficile e pesante, che avevano scelto di operare in una situazione pericolosa, addestrate a una vita dura, meriterebbero l’appellativo di “uomini”. Ebbene, ogni volta, questi nostri connazionali vengono chiamati “i ragazzi”. I tre, se non erro, hanno rispettivamente 34, 35 e 36 anni, eppure tutti, dalle famiglie alle autorità, ai giornalisti, tutti li chiamano “ragazzi”. Posso capire che i familiari li chiamino così: i figli, si sa, per i genitori non crescono mai, posso capire il moto affettivo che porta a vedere piccolo e indifeso chi si trova in condizioni di sofferenza fisica o psichica, ma a me sembra comunque strano che anche tutti gli altri non usino mai la parola “uomini”. Né viene usata spesso, fateci caso, in altre circostanze meno emotivamente coinvolgenti. Quanto è responsabile la nostra società di questa infantilizzazione delle ultime generazioni? E quanti danni sta provocando? Vorrei non essere fraintesa su questo punto: non sto rimpiangendo i vecchi inutili formalismi impregnati di ipocrisia che hanno caratterizzato la nostra società in epoche lontane e meno lontane; va benissimo che la giovane signora, smesso l’abito da sposa, si rimetta i jeans o il giovane avvocato, finito il lavoro, si rimetta l’orecchino. Ma mi domando: sono davvero ininfluenti certi atteggiamenti adottati in massa e senza alcun senso critico, sulla formazione, la crescita armonica, la serena realizzazione dei giovani? E non si tratta, come qualcuno potrebbe obiettare, solo di una questione lessicale, di linguaggio che si evolve. C’è ben altro dietro. Bisogna restare giovani anzi giovanissimi, non bisogna crescere perché crescere è rischioso, non bisogna diventare adulti perché essere adulti vuol dire essere tristi e pieni di problemi... Se il messaggio è questo, perché meravigliarsi del fatto che tanti giovani non vogliano responsabilità, non vogliano emanciparsi dalla famiglia, non vogliano affrontare la vita con le proprie forze? Perché meravigliarsi se per superare la solitudine e la paura vivono attaccati al cellulare come a un respiratore, e cercano aiuto in sostanze dannose? Pensiamoci, quando vediamo un trentacinquenne travestito da ragazzino: di quanta fragilità abbiamo caricato, noi adulti, il suo zainetto?
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