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"Se hai una buona scusa... non usarla" *

Paola Locci

Fino a qualche giorno fa carta stampata, radio e TV ci hanno ossessivamente informati di ogni particolare riguardo ad un terribile fatto di cronaca: l’assassinio a Milano del medico psicoterapeuta Lorenzo Bignamini. Non è il primo e non sarà, purtroppo, l’ultimo crimine del genere, però mi ha particolarmente colpito, forse perché faccio parte della stessa associazione di cui Bignamini era presidente. Tra gli innumerevoli servizi ed interviste diffusi in quei giorni, mi è rimasto impresso il commento di una vicina di casa dell’omicida. Era una signora anziana, che raccontava come Arturo Geoffroy - l’assassino appunto - avesse degli accessi d’ira durante i quali buttava giù dalle finestre pesanti vasi di fiori. Il commento è stato: “Forse per lui era uno sfogo”. Questa frase, di per sé innocente, e pronunciata con rassegnata pacatezza, come fosse la cosa più naturale del mondo, mi ha agghiacciata. Mi sono venuti in mente tutti i commenti analoghi ascoltati a caldo dopo un fatto di cronaca più o meno grave, ma anche in circostanze decisamente meno drammatiche, come nei talk show televisivi o nei nostri domestici tranquilli salotti. Veniamo quotidianamente a conoscenza di notizie come “picchia il datore di lavoro perché gli ha negato l’aumento”; “buca le gomme all’auto del collega che gli ruba il parcheggio”; “spara al vicino perché tiene lo stereo a palla”; “strangola la moglie perché vuole lasciarlo”; “fa una strage nella scuola dove è stato bocciato”. L’agghiacciante sta nel fatto, non esplicito ma paradossalmente molto evidente anche se la comunicazione passa ad un livello subliminale, che tutti questi perché non rappresentano semplicemente una spiegazione, bensì una giustificazione. Si tratta quasi sempre di persone che hanno subìto delle ingiustizie; piccole o grandi, vere o presunte, non ha importanza. Ma passa, sempre più subdolamente e sempre più pericoloso, il messaggio che chi subisce un torto debba essere giustificato qualsiasi cosa faccia. Nel caso dell’omicida del medico milanese, si tratta è vero di una persona dichiaratamente malata, ma la maggior parte dei protagonisti di atti di violenza sono persone cosiddette “normali” e infatti quanti di noi non si sentono in dovere di manifestare umana comprensione e di attribuire facili attenuanti ad un coniuge abbandonato o tradito, ad un disoccupato o licenziato, a chiunque insomma abbia qualche motivo di sofferenza e talvolta di disperazione e per questo motivo abbia “perso la testa”? Ed è ragionevole: l’umana comprensione non andrebbe negata a nessuno, neppure al peggiore serial killer. Ma un conto è comprendere - o almeno provarci - e un conto è giustificare. “Giustificare” significa letteralmente rendere giusto e legittimo ciò che giusto e legittimo non può e non deve essere. Non può essere giusto e legittimo sfogare con la violenza il proprio dolore, non può essere giusto e legittimo ribellarsi con la violenza ad un’ingiustizia, non può essere giusto e legittimo cercare di ottenere con la violenza ciò che si ritiene ci spetti di diritto. Altrimenti è la barbarie. Forse la mia è solo una teoria, ma ho la sensazione che tutto questo cominci da bambini. Le ultime generazioni - naturalmente parlo del nostro paese, di altre realtà non so molto - sono state per un verso molto fortunate: niente guerre, niente fame, niente problemi di sopravvivenza o di libertà. Ma per un altro verso quest’assenza di problemi e di limiti non le ha vaccinate, non le ha preparate alle difficoltà, ed è sempre più dilagante quella che in termini tecnici si chiama “intolleranza alle frustrazioni”. Ai nostri bambini, negli ultimi decenni, si cerca di evitare noie, sforzi, ostacoli. Se fanno i capricci li si azzitta con le merendine, se chiedono l’ultima introvabile playstation si provvede subito a procuragliela, se vengono ripresi da un insegnante che pretende un po’ di rispetto si corre a dirgliene quattro, se vogliono okkupare la scuola si ricarica loro il cellulare e il portafogli, se sono bocciati si ricorre al TAR... E poi? Come faranno quando non otterranno subito il lavoro che desiderano? O se la fidanzata o la moglie (vale anche per fidanzati e mariti) decideranno di andarsene per la loro strada? Quando la Vita deciderà - senza guardare in faccia nessuno - di allestire per loro qualche insuccesso, o delusione, o sconfitta? Bisogna cominciare ad insegnare ai bambini a sopportare qualche smacco, e a parlare parlare parlare, ad esprimere con le parole il dolore e la rabbia, l’ira e la gelosia. E anche l’odio. Non è vero che le parole uccidono: possono “ferire”, possono essere sbagliate crudeli ingiuste, ma non uccidono e ad esse si può, si deve saper rispondere con altre parole, che possono essere giuste, pacificatrici, persino rivoluzionarie con la sola forza della coerenza e del raziocinio. E’ un lungo difficile lavoro, complicato dal fatto che la capacità di esprimersi con le parole esige il principio di reciprocità. Ma se non riusciremo a far questo, ci sarà sempre, per ciascuno di noi, una buona scusa per giustificare ogni nostra azione.

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