Quando
è un professionista della salute a sbagliare: confini tra malpractice e
negligenza nell’intervento dello psicologo clinico, un’indagine
pilota.
Cirrincione
Maria Concetta
Codice Deontologico ed etica
professionale degli psicologi
Nella
società italiana, soprattutto in questi ultimi decenni, il bisogno di
conoscere ed utilizzare correttamente
la Psicologia
è apparso in costante aumento. Vi sono diversi dati oggettivi che
potrebbero facilmente confermare questa affermazione: ad esempio, il
numero dei Corsi di Laurea in Psicologia istituiti presso le Università
italiane è aumentato dai due del 1979 ai diciassette del 1999, e, dato ad
esso strettamente collegato, il numero degli studenti iscritti ad un Corso
di Laurea in Psicologia nel nostro Paese è passato dalle poche migliaia
dei primi anni ‘80 agli oltre 50.000 di oggi. Ma, soprattutto, la legge
di Ordinamento n. 56 del
1989 ha
sicuramente caratterizzato un periodo di profondo cambiamento nella
“rappresentazione sociale” dello Psicologo, che da figura un po'
misteriosa e spesso di incerta provenienza formativa quale era venti o
trenta anni fa sta a poco a poco, anche grazie ad essa, acquistando uno
“status” di “professionista” riconosciuto con alle spalle un
percorso formativo di base costituito almeno da una Laurea universitaria
specialistica, un tirocinio pratico annuale ad essa aggiuntivo ed un
successivo Esame di Stato necessariamente sostenuto e superato.
Parallelamente a tali innovazioni legislative e normative, quindi,
la Società
italiana nel suo complesso ha iniziato a guardare
la Psicologia
e gli Psicologi con occhi diversi. Così, gradualmente, questa disciplina
scientifica è in un certo senso “uscita” dai laboratori di ricerca
universitari e dai tutto sommato ristretti ambiti dei singoli studi
professionali o delle grandi Aziende industriali o commerciali (nei quali,
rispettivamente, già da alcuni decenni trovavano i propri punti di
riferimento principali
la Psicologia Clinica
e
la Psicologia
del Lavoro e delle Organizzazioni, vale a dire le sue due Aree applicative
della Psicologia tradizionalmente più sviluppate nel nostro Paese) ed ha
iniziato a penetrare sempre più capillarmente nelle Istituzioni
sanitarie, in quelle educative e scolastiche, in quelle penitenziarie, in
quelle militari e così via. Ma
tutto ciò, appare opportuno ribadirlo, soprattutto a seguito
dell'istituzione dell'Albo professionale e dell'Ordine preposto a curarne
la tenuta ed il continuo aggiornamento, e quindi all'inserimento a tutti
gli effetti della professione di Psicologo tra quelle regolate da una
Legge dello Stato e perciò obbligatoriamente dotata di precise regole
deontologiche e comportamentali, oltre che di una base scientifica
riconosciuta. Soltanto in tal modo, infatti, è risultato concretamente
possibile tutelare il diritto dei Cittadini italiani a poter usufruire
solo di Psicologi che, proprio in quanto vincolati a precise norme
deontologiche, siano tenuti a garantire modalità socialmente accettate e
condivise di erogazione delle proprie prestazioni professionali, nel senso
sia del mantenimento nel tempo di adeguati livelli qualitativi della
propria attività sia di un trattamento corretto ed onesto dei propri
clienti. La parola
“deontologia” è abbastanza
recente, essendo stata coniata dal filosofo J.Bentham (1748-1832) come
titolo di una sua opera in cui svolse la teoria dei doveri. Oggi il
termine, usato come sostantivo (“la deontologia”),è
utilizzato per indicare lo studio e l'elencazione di un particolare
gruppo di doveri inerenti una determinata professione. Il termine etica è
più vasto di quello di deontologia, comprendendo non solo lo
studio dei doveri, ma anche the study of the concepts involved in practical reasoning: good, right,
duty, obligation, virtue, freedom, rationality, choice. (Blackburn S.
1994,). L'etica,
cioè, si occupa delle scelte pratiche degli esseri umani,
considerate come la risultante di un concorrere e confliggere di
differenti beni, diritti, doveri, obbligazioni, cercando di dare basi
razionali alle scelte che devono essere effettuate, o di mostrare le
ragioni o la mancanza di ragioni di queste scelte. L'etica di conseguenza
non è direttamente
interessata alle basi psicologiche del comportamento umano (anche se
nell'antichità greco-romana,
e segnatamente nel pensiero aristotelico, considerazioni di tipo
psicologico hanno avuto un ruolo importante). Tuttavia
la domanda centrale a cui l'etica cerca di rispondere non è
quali siano le condizioni psicologiche in base alle quali si
sceglie un bene piuttosto che un altro, ma se esistono fondamenti
razionali al di là delle preferenze psicologicamente determinate
per scegliere un bene piuttosto che un altro. In tal senso l'etica, almeno
cos’è come si è andata
configurando nella filosofia occidentale, è
impresa che necessita per fondarsi di mettere la psicologia tra
parentesi. Il punto
essenziale è che il modo in
cui gli individui costruiscono il loro mondo morale interno è
assolutamente irrilevante nel giudicare la validità degli
argomenti utilizzati per giustificare tale mondo morale, esattamente come
i motivi psicologici per cui Newton enunciò le leggi della meccanica sono
assolutamente irrilevanti nel giudicare la validità
di tali leggi. Non tutte le scelte sono naturalmente di pertinenza
etica, lo sono piuttosto quelle che concernono ciò
che è bene e ciò che
è male, ciò che è giusto e
ciò che è sbagliato. Scegliere tra un gelato alla vaniglia ed uno al
cioccolato può essere, ad
esempio, un'impresa ardua, ma non riguarda l'etica, quanto il gusto, cioè
l'estetica. Al contrario scegliere tra dilapidare tutti i propri risparmi
con le ballerine del tabarin o donarli, invece, al convento delle Sorelle
del Divino Amore è una scelta etica, cioè
riguarda un giudizio morale attorno ciò
che è giusto che un essere umano faccia o non faccia. La
deontologia, dunque, diviene una parte dell’Etica e più
precisamente l'Etica applicata alla pratica professionale. Secondo una
definizione a mio avviso molto chiara ed efficace che
è tratta dal Codice deontologico del Collegio Nazionale dei Ragionieri e
dei Periti Commerciali approvato il 15 ottobre 1983, si può definire
la Deontologia
come “l'insieme dei principi, delle regole e delle consuetudini che ogni
gruppo professionale si dà e deve osservare, ed alle quali deve ispirarsi
nell'esercizio della sua professione”. Una
profonda conoscenza della propria specializzazione professionale è una
condizione necessaria, dunque per gli psicologi e gli psicoterapeuti,se si
vuole lavorare con onestà e competenza . Tuttavia, oggi, non è più
sufficiente per un esercizio di tale specialità, è essenziale anche una
conoscenza della legge. Definiamo
come “Leggi” quelle norme ferme e costanti che si avverano nei fatti o
che sono imposte dall'Autorità per determinare i diritti ed i doveri dei
singoli appartenenti ad uno specifico gruppo sociale. Per il cosiddetto
“Principio di Legalità”, il quale afferma che non vi sono “Nullum
crimen nulla poèna sine lege scripta ”, si possono definire come
“Norme Giuridiche” solo quelle Leggi scritte che sono stabilite
dall'Autorità per determinare i diritti ed i doveri dei singoli
appartenenti ad uno specifico gruppo sociale. Sulla
base di tali precisazioni possiamo, inoltre, definire i “Codici” come
quelle “raccolte organiche di norme giuridiche” ai quali un gruppo
sociale affida la tutela del proprio sistema etico complessivo. Conseguentemente
alle tre precedenti definizioni sopra riportate, appare ora possibile
definire come “Norme Deontologiche” quelle Leggi scritte alle quali un
gruppo professionale affida la tutela del proprio sistema etico
complessivo. Da ciò discende che i “Codici Deontologici ” sono,
più specificatamente, raccolte organiche di norme deontologiche alle
quali un gruppo professionale affida la tutela del proprio sistema etico
complessivo, e delle quali ogni Professione dovrebbe essere dotata al fine
di poter concretamente salvaguardare e rendere operativi i principi etici
da essa ritenuti fondamentali per lo svolgimento delle proprie attività.
Possiamo quindi affermare che, in generale, un “Codice deontologico”
è lo strumento, scritto e reso pubblico, che stabilisce e definisce le
concrete regole di condotta che devono necessariamente essere rispettate
nell'esercizio di una specifica attività professionale. Per
quanto in particolare riguarda il Codice deontologico degli Psicologi
italiani, esso è stato dapprima approvato dal Consiglio Nazionale
dell'Ordine nell'adunanza del 27-28 giugno 1997, e quindi confermato con
referendum dagli iscritti all'Ordine degli Psicologi in data 17 gennaio
1998. Nella stesura così
approvata ed entrata in vigore, il Codice Deontologico degli Psicologi
italiani è costituito da 42 articoli, suddivisi in cinque gruppi tra loro
omogenei e riuniti quindi nei cinque seguenti “Capi”:
•
Capo I: “Principi generali”, comprendente 21 articoli (dall'1 al 21
compresi).
•
Capo II: “Rapporti con l'utenza e con la committenza”, comprendente 11
articoli (dal 22 al 32 compresi).
•
Capo III: “Rapporti con i colleghi”, comprendente 6 articoli (dal 33
al 38 compresi).
•
Capo IV: “Rapporti con la società”, comprendente 2 articoli (dal 39
al 40 compresi).
•
Capo V: “Norme di attuazione”, comprendente 2 articoli (dal 41 al 42
compresi).
Ad
una prima ma un po' superficiale analisi, pertanto, il Codice Deontologico
potrebbe essere ancor più semplicemente considerato come suddivisibile in
tre parti complessive:
•
Una prima parte, introduttiva, di “principi generali” (Capo I);
•
Una parte centrale più sostanziale, applicativa, costituita dai Capi II,
III e IV e comprendente quindi le norme rispettivamente regolanti i
rapporti con l'utenza e la committenza, i colleghi e la società;
•
Una parte finale, il Capo V, costituita da due soli articoli aventi
semplicemente il compito di definire le norme attuative del Codice, vale a
dire la data della sua entrata in vigore (art.42) e gli indirizzi e gli
strumenti per il suo aggiornamento (art.41). In
realtà, ad un esame più profondo, è evidente che le cose non stanno
affatto così. Si nota infatti immediatamente come anche il Capo I, che
dal titolo potrebbe anche far ritenere di prendere in esame solo i
principi generali alla base della deontologia comune a tutti gli Psicologi
indipendentemente dai loro specifici settori di operatività, è già in
realtà estremamente attento alla prassi quotidiana (sia essa clinica, di
ricerca, di selezione, di sperimentazione e così via) e non può quindi
essere affatto disgiunto né da quanto specificato nei tre Capi successivi
né da quanto previsto dall'ultimo Capo. In altri termini, il Codice
Deontologico degli Psicologi italiani è cioè da considerarsi come un
“corpus” unico e sostanzialmente indivisibile, che cerca sin
dall'inizio di affrontare il problema del rispetto dei principi giuridici
ed etici che sono alla base del corretto esercizio della professione senza
mai perdere di vista, nella loro enunciazione e specificazione, anche le
varie modalità con le quali essi si propongono nell'esercizio concreto
dell'attività professionale. Come
ci spiegano Eugenio Calvi e Guglielmo Gulotta, nel loro testo “Il Codice
Deontologico degli Psicologi commentato articolo per articolo” (Calvi
E., Gulotta G., 1999), sin
dall'inizio dei lavori di stesura delle prime bozze del testo da parte
dell'apposita Commissione di Lavoro del Consiglio Nazionale, sono state
quattro le “finalità ispiratrici originarie” del Codice deontologico
degli Psicologi italiani:
1)
Tutela del cliente;
2)
Tutela del singolo professionista nei confronti dei Colleghi;
3)
Tutela del gruppo professionale complessivo degli Psicologi italiani;
4)
Responsabilità degli Psicologi italiani nei confronti della Società.
Poi,
nel corso della stesura del testo da parte dell'apposita Commissione e
sino alla sua definitiva approvazione da parte del Consiglio Nazionale
dell'Ordine, alle quattro “finalità ispiratrici originarie” si sono
affiancati altrettanti “principi fondamentali” ai quali ogni Psicologo
Italiano deve costantemente riferirsi nell'esercizio della propria attività,
e che il testo del Codice Deontologico degli Psicologi italiani
complessivamente sottolinea e ribadisce in modo particolare. Sempre
secondo Calvi e Gulotta (op. cit.), essi sarebbero i seguenti:
•
Meritare la fiducia del cliente;
•
Possedere una competenza adeguata a rispondere alla domanda del cliente;
•
Usare con giustizia il proprio potere;
•
Difendere l'autonomia professionale.
I
quattro suddetti “Principi generali” vengono inoltre ripresi da Calvi
in un saggio successivo a quello in precedenza citato (Calvi E.,
2000),descrivendoli in modo più approfondito:
•
“Meritare la fiducia del cliente” discende dalla concezione della
professione come servizio, e comporta che il professionista può fare
soltanto ciò che va a vantaggio del cliente (“qualsiasi cosa che sia a
vantaggio dello stesso professionista, o di terzi, deve essere subordinata
all'utilità che discende al cliente dall'intervento del
professionista”).
•
“Possedere una competenza adeguata a rispondere alla domanda del
cliente” comporta per il professionista, oltre alla necessità di
formazione permanente, anche la capacità di autovalutazione delle proprie
competenze, e quindi di essere consapevole dei limiti del proprio sapere e
di rifiutarsi di svolgere attività per le quali non ci si sente
adeguatamente preparati.
•
“Usare con giustizia il proprio potere” significa essenzialmente saper
rispettare e favorire le capacità decisionali del cliente, avendo come
bene supremo da rispettare oltre ogni altro il benessere e la salute
psicofisica del cliente e di eventuali terzi.
•
“Difendere l'autonomia professionale” comporta il rifiuto di ogni
ingerenza esterna al “corpus” professionale nel controllo dell'attività
del professionista psicologo, in quanto tali ingerenze produrrebbero
automaticamente un calo della fiducia che il cliente deve avere nei
confronti dello psicologo a cui si è rivolto e, quindi, inevitabili
scadimenti degli standard professionali.
Questi
quattro principi o “imperativi” deontologici fondamentali per lo
Psicologo italiano della fine del secondo millennio possono pertanto,
proprio sulla base di queste ultime specificazioni di Calvi, essere
rispettivamente definiti dalle seguenti quattro ancor più sintetiche
formulazioni:
•
Onestà ed integrità;
•
Competenza;
•
Rispetto e tutela dell'altro;
•
Autonomia professionale.
Riassumendo,
pertanto, appare a mio avviso sostenibile l'affermazione per la quale i
fondamentali principi generali alla base dell'attuale codice deontologico
degli psicologi italiani siano in realtà sei e non quattro, e che essi
possano sinteticamente essere così definiti e descritti:
•
Rispetto della Persona Umana = Ascolto, Collaborazione, “Servizio” =
Rispetto dell'Altro
•
Responsabilità = Individuale, Professionale, Sociale
•
Integrità = Onestà, Probità = Chiarezza, Franchezza, Lealtà
professionale e personale
•
Autonomia Professionale = Costruzione di un proprio sistema di riferimento
, Interdipendenza, Collaborazione = Identità
•
Competenza, nel senso di Possesso di conoscenze, Impegno, Flessibilità,
Conoscenza di sé , e quindi di Consapevolezza ed Autoconsapevolezza
insieme.
•
Promozione del benessere individuale e sociale = Tutela dell'Altro.
Infine,
bisogna ricordare, che dopo dieci anni dalla sua approvazione, il Codice
Deontologico degli Psicologi, è stato oggetto di revisione che ne ha
modificato alcuni articoli: l’articolo 23 e l’articolo 40. Le
modifiche al primo articolo, riguardano principalmente il compenso
professionale dello psicologo. Si passa da una funzione prescrittivi della
vecchia formulazione, con una definizione di tariffe minime e massime
obbligatorie, ad una funzione di tutela della clientela dei professionisti
attraverso la definizione di tariffe massime e l’abolizione di tariffe
minime che si ritiene violino il principio di concorrenza. Per
quanto riguarda il secondo articolo, lo psicologo non può procacciarsi la
clientela, tuttavia può svolgere pubblicità informativa circa i titoli,
le specializzazioni professionali e il servizio offerto, nonché il
prezzo e i costi complessivi delle prestazioni. Le
recenti modifiche hanno sottolineato come, ancor di più, il nostro Codice
Deontologico, ponga sempre al centro il problema del rispetto dei principi
giuridici ed etici che sono alla base del corretto esercizio della
professione, tutelando innanzitutto il fruitore della prestazione.
Negligenza, cattiva pratica e responsabilità professionale
Una grande
quantità di cause per cause per cattiva pratica (“malpractice”)
contro i medici durante l’ultimo decennio, hanno sensibilizzato i
professionisti di tutte le discipline collegate alla salute circa la
necessità di una adeguata comprensione della struttura giuridica nella
quale essi operano. I professionisti nel campo delle scienze
comportamentali- compresi gli psicologi, gli psichiatri, gli assistenti
sociali etc..- si sono resi conto della presumibile costellazione di
fattori sociali che può renderli più vulnerabili che mai di fronte alle
citazioni e ai reclami contro una cattiva pratica (Cohen e Mariano, 1982;
Green e Cox, 1978). In
linea di massima, tutti gli adulti hanno il dovere giuridico di
comportarsi in modo che per lo meno corrisponda al modo in cui si
comporterebbe ogni persona “normale e ragionevole” in circostanze
uguali o simili. Se il comportamento non intenzionale di una persona è
leggermente al di sotto dello standard di una “persona normale e
ragionevole”, tale suo comportamento viene descritto come
“negligente”. La negligenza viene formalmente descritta come una
“condotta che cade sotto gli standard stabilità dalla legge per la
protezione degli individui da un irragionevole rischio di danno” (Prosser,
1971 ). Le persone che
agiscono nella loro veste professionale sono tenute a mantenere uno
standard di comportamento ancora più alto di quello richiesto ad una
persona qualunque. Se il comportamento del professionista ricade senza
intenzione al di sotto di tale standard, si applica il termine di
“cattiva pratica”: la cattiva pratica, cioè, si riferisce a
negligenza nell’esecuzione dei propri doveri professionali (Clemmons P.,
1997). Dorken (1990) ha
sottolineato che i professionisti non sono garanti di buoni risultati:
“I professionisti, compresi psicologi, medici, avvocati ed altri,
non garantiscono un particolare risultato o una particolare cura. Ma una
volta intrapreso il trattamento di un paziente, lo psicologo, allo stesso
modo del medico o del chirurgo, è obbligato a condurre il suo esame e il
trattamento in modo abile, competente e professionale. Lo psicologo offre
il possesso di una abilità e di una conoscenza comunemente possedute dai
membri di buona reputazione della professione di psicologo, e di
conseguenza è responsabile per i danni o le lesioni inflitte e per non
aver mantenuto i correnti standard professionali”.
T. B. Karasu (1990)
sostiene che le responsabilità specifiche, che in una relazione clinica
possono configurare una situazione di malpractice, sono:
1)
scorretta gestione del transfert
2)
violazione del segreto professionale
3)
non prevenzione di atti auto e/o eterolesivi
4)
prassi inadeguata o scorretta
Per
quanto riguarda il primo punto uno dei principali motivi di chiamata in
causa dello psicoterapeuta è la eventualità di rapporti sessuali con il
paziente. Questa negli USA, negli anni 1976-1986, è risultata come prima
causa di azione legale nei confronti di psicologi e psicoterapeuti (Conte
H.R:, Karasu T.B., 1990). Da
statistiche, comunque relativamente attendibili data la delicatezza della
situazione, risulterebbe che la media di rapporti sessuali all'interno di
una relazione clinica è di
circa 6,5% dei casi totali. Media che è sovrapponibile a quella delle
relazioni sessuali medico-paziente che avvengono nell'ambito di tutte le
varie modalità di terapia medica. Questo dato sembra sfatare la credenza
che i rapporti sessuali siano molto più frequenti in ambito clinico.
Piuttosto è da ritenere che la dinamica della relazione terapeutica
(fiducia, potere del medico, passività del paziente, ecc.) possono
favorire questa situazione. Nella
terapia psicoanalitica esiste, ad esempio, un fenomeno da tutti conosciuto
come quello del transfert. Il termine, derivato dal latino, significa
letteralmente “trasporre” cioé spostare qualcosa, compresi quindi anche i “rivissuti
emozionali”,è il processo
con cui determinati desideri inconsci si riattualizzano nel presente su
determinati oggetti nell'ambito di una relazione stabilita con essi, e
soprattutto nell'ambito della relazione analitica. Il paziente scorge
inconsapevolmente nell'analista un ritorno, una sorta di reincarnazione,
di una persona importante della sua infanzia, del suo passato, e per
questo trasferisce su di lui sentimenti e reazioni che spettavano a quel
modello. Questa traslazione è ambivalente: essa comprende sia
impostazioni positive ed affettuose sia negative ed ostili nei riguardi
dell'analista. Quando
però il transfert viene mal gestito può
essere veramente dannoso per un paziente. La
relazione terapeutica dovrebbe avere come direttrici fiducia,
bilanciamento di poteri e consenso: se il transfert viene usato come
elemento per affermare l’ evidente posizione di preminenza del terapeuta
, sfociando in una relazione
sessuale non diventa più accettabile. Ci
sono comunque alcune idee circa l'eticità o meno di una relazione
sessuale con il paziente che vanno esaminate. La
prima, probabilmente risulta dall'ambigua dizione che è proibito avere
rapporti “durante la
terapia”, fa sì che tale condotta venga ritenuta accettabile se si
verifica al di fuori di una seduta terapeutica. La seconda è se il
coinvolgimento sessuale al termine della terapia sia da considerarsi
illegale. Intraprendere
una relazione sessuale con un ex paziente è inappropriato,
indipendentemente dal tempo che è passato dal termine della relazione
terapeutica. Lo afferma – tra l’altro – l’edizione 2006 delle
linee-guida Good Medical Practice licenziate dal General Medical Council (GMC)
britannico. Nelle linee-guida si legge che la deontologia professionale
vieta recisamente di avere relazioni sessuali con gli/le ex pazienti,
ritenuti soggetti vulnerabili soprattutto se si tratta di pazienti con
disturbi comportamentali. Un
tema ampiamente dibattuto, nell’ultimo decennio, è
stato quello del segreto professionale e della confidenzialità in
ambito clinico. Il
termine “confidenzialità” è la
traduzione dell'inglese confidentiality
che esprime un concetto un po' più ampio di quello di segreto
professionale. Il
concetto di confidenzialità implica dunque 1) la presenza di
un' informazione riservata, 2) la comunicazione di questa informazione ad
un soggetto, sotto vincolo che egli non la diffonda ad altri, se non dopo
previa autorizzazione. La questione in psicologia e psicoterapia,
riguarda sia la natura dell'informazione (che può
essere più delicata e
“privata” che altre informazioni), sia il permesso che il detentore
dell'informazione può accordare alla divulgazione.
(Sherlock, R.,
Murphy, W., 1984).
La teoria vuole
che il clinico disponga delle informazioni ricevute dal paziente solo per
il beneficio del paziente stesso e che non le comunichi a terzi,
soprattutto quando queste possono danneggiare il paziente. Costituisce
infatti esempio evidente di “malpractice”, con conseguenze anche
penali, il divulgare senza “giusta causa” tali informazioni. Nello
stesso Stato italiano, questo argomento attiene al diritto pubblico, in
quanto il Codice penale qualifica come reato la violazione del segreto
professionale, ribadendo con ciò la rilevanza sociale del diritto dei
cittadini alla riservatezza di tutto ciò che riguarda la sfera di intimità
della propria persona. L'art.
622 C
. p. intitolato «Rivelazione di segreto professionale» recita: «Chiunque
avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria
professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero
lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può
derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa.... Il
delitto è punibile a querela della persona offesa». La
successiva legislazione sulla «privacy», cioè
la Legge
n. 675 del 31-12-1996 «Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto
al trattamento dei dati personali» non ha apportato modifiche ai principi
e alle norme sul segreto professionale fin qui visti, ma ha invece
definito con rigore le modalità per il trattamento e l'anonimato dei dati
personali, e particolarmente dei «dati sensibili» tra cui sono i dati
personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale (art.
22, L
. 675/96), garantendo che il trattamento «si svolga nel rispetto dei
diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità
delle persone fisiche, con particolare riferimento alla
riservatezza e all'identità personale» (art.
1, L
. 675/96). In questo
senso diventa fondamentale il tema della “idonea informazione” nel
rapporto paziente-psicologo dove il consenso informato diventa espressione
del diritto di autodeterminazione in ordine a tutte le sfere ed ambiti in
cui si manifesta la personalità dell’uomo. Un
vero consenso informato richiede non solo che il cliente abbia compreso
quale tipo di valutazione o di procedura gli si intende applicare, ma
anche che egli comprenda le implicazioni e le probabili conseguenze di
tali decisioni. Secondo Grisso (1986) i requisiti generali per poter
dichiarare un consenso valido sono: 1) che l’individuo abbia la capacità
di scegliere; 2) che l’individuo comprenda a cosa sta dando il suo
consenso, come pure quali siano le alternative; 3) che il consenso sia
volontario. Sfortunatamente, la ricerca ha dimostrato che, in pratica, un
consenso informato viene ottenuto raramente (Lidz et alii, 1984). Il
deficit informativo è ritenuto da giurisprudenza concorde, fonte di
risarcimento danni in quanto il paziente è leso nella propria libertà di
autodeterminazione. A
questo punto, possiamo dire che l'area dei comportamenti relativi al
segreto professionale è tutta quanta chiarita e risolta dalle norme sopra
viste? Sicuramente no. Poiché la varietà e complessità delle situazioni
concrete non permette una soluzione guidata a priori. Possono sorgere, ad
ogni momento, opposizioni tra principi e valori divergenti, ugualmente
difesi da norme giuridiche e deontologiche, difficilmente conciliabili.
Un problema particolare si
pone, ad esempio, quando un
paziente rivela al clinico nel corso del trattamento, delle intenzioni
dichiaratamente ostili contro terze persone. Tali intenzioni, infatti,
potrebbero trasformarsi in comportamenti eterolesivi e lo
psicologo potrebbe essere citato in giudizio per non aver preso le misure
idonee a impedire l’atto. Allo
stesso modo, i familiari di un paziente che commetta o tenti un suicidio,
possono citare in giudizio lo psicologo, in quanto, se fossero stati al
corrente del potenziale rischio del paziente, avrebbero potuto cercare di
ostacolarne l’operato. Questo è ancora più valido nel caso che
il clinico si renda
conto che il paziente in terapia ha serie intenzioni di compiere azioni
contro la vita di terzi. Ma
a questo proposito molte sono le problematiche che si sollevano. Infatti
fino a che punto lo psicologo può essere realmente in grado di prevedere
dei comportamenti auto e/o eterolesivi? Di quali strumenti egli dispone
per prevenire che essi si verifichino? Deve inoltre lo psicologo,
nell'incertezza, intervenire ad ogni costo? Un’
altra condizione eccezionale
riguardante il dovere professionale verso una terza parte, fa riferimento
alle situazioni in cui gli psicologi così come i medici, hanno
l’obbligo per legge di denunciare alle autorità competenti la diagnosi
di determinate malattie contagiose, i casi di abuso di minore e situazioni
diagnostiche simili, che sono di interesse per la salute e la sicurezza
del pubblico. Un caso
emblematico di questo tipo, si ritrova nella storia di Tatiana Tarasoff.
Questa donna morì per mano di Proenjit Poddar. Costui era in terapia da
uno psicologo impiegato presso il Centro di Counseling della University of
California ed aveva manifestato al terapista la sua intenzione di uccidere
una persona, da lui non specificata, ma chiaramente identificabile
(Tatiana). Come risultato della causa civile intentata dai genitori
dell’uccisa,
la Corte
Suprema
della California sentenziò che gli psicoterapisti hanno il dovere di
avvisare di un eventuale pericolo terza persone; nelle parole testuali
della Corte, “Il privilegio della protezione finisce dove inizia il
pericolo per il pubblico”. (Yufik
A.,2005).
Il metro di misura con cui il tribunale determina se un dovere
giuridico sia stato o meno violato è definito lo standard di assistenza.
(Furrow, 1980).
Definire lo
standard applicabile di assistenza nella professione di igiene mentale
tende ad essere un compito non così semplice come appare in altre
professioni. Detto in breve, il problema sta nel fatto che, se si chiede a
due psicoterapeuti, anche di una stessa scuola, di dare la loro opinione
su un determinato tipo di trattamento, si riceverà probabilmente due o più,
opinioni diverse. Proprio
per l'estrema complessità nello stabilire degli standard di cura
oggettivamente valutabili, potrebbe
essere utile, come suggerisce Montalto (1984), tenere
“... una scheda biopsichica,
nella quale dovrebbero essere annotati i dati più importanti relativi
all'esame psichico effettuato prima dell'intervento terapeutico, i
conseguenti tratti diagnostici nonché, gli elementi più essenziali della
particolare metodica applicata. In tal. modo il medico stesso potrebbe
cautelarsi da eventuali azioni legali che un paziente non soddisfatto dal
tipo di cura ricevuta potrebbe intraprendere”.
Una corretta diagnosi infatti non esime da una eventuale colpa, se
a questa diagnosi non segue una prassi e un trattamento che sia
corrispondente e scientificamente dimostrato essere utile o il più utile
per quella particolare forma morbosa.
Obiettivo
della ricerca
Lo psicologo
non è attualmente chiamato a praticare la propria professione in
maniera totalmente libera o svincolata da parametri normativi, ma
soprattutto non è ne potrebbe essere svincolato da parametri di carattere
etico, deontologico e scientifico. Il
ruolo degli errori da “malpratica “viene messo sempre più in rilievo
ed è accentuato dal crescente numero di contestazioni legali che occupano
il lavoro non solo dei medici, ma anche degli ,
psichiatri e psicologi, operatori sanitari e del sistema sanitario
nel suo complesso. Fino
alla fine degli anni ’70 le cause per cattiva pratica contro gli
psicologi erano relativamente rare. Furrow (1980) ha sostenuto che, alla
luce delle mutevoli aspettative del consumatore, la società è sempre più
insoddisfatta dei prodotti e dei servizi e gli individui sono più
consapevoli dei limiti della psicoterapia e sono quindi più propensi a
ricorrere alla lite come mezzo per risolvere le proprie dispute. Hogan
(1979) ha pubblicato una rassegna completa di tutte le cause
per cattiva pratica intraprese contro terapisti, portati in giudizio fino
a tutto il 1979. E’ questa l’unica ricerca approfondita, basata su
dati oggettivi, sulle cause intentate contro la pratica psicoterapeutica.
Sono stati raccolti e analizzati trecento casi concernenti cattiva pratica
di psicoterapia nel trattamento, nella diagnosi, nella cura o in
combinazione. Quasi i
due terzi di tutte le denunce si erano avute in rapporto a servizi forniti
in ospedali psichiatrici. Le cause contro professionisti privati
riguardavano il 6,9 % dei casi e l’8,1% dei casi degli anni’70.
Nello studio di Hogan le cause
più comuni erano quelle di abuso fisico o sessuale, detenzione o
dimissioni inadeguate, errata predizione di pericolosità e inadeguato
controllo fisico, risultate in ferite accidentali. Hogan (1979) concluse
che le “cause contro gli psicoterapisti, gli ospedali e altri enti o
persone responsabili della diagnosi, del trattamento e della cura dei
malati mentali erano aumentate in modo esponenziale”. Non
esistono, ad oggi, nel nostro Paese studi sistematici che permettano una
stima attendibile e neutrale della dimensione dell’errore in psicologia
e dei costi della malpratica. L’obiettivo
di questo lavoro è quello di cercare
di comprendere più approfonditamente il fenomeno di malpractice partendo
delle opinioni di un gruppo di psicologi operanti nell’ambito clinico.
Si è quindi voluto
costatare quali siano per i professionisti i nodi dell’etica
nella pratica psicologica.
Indagine pilota
Definendo come
psicoterapia “ogni somministrazione intenzionale di tecniche
psicologiche da parte di uno specialista, allo scopo di determinare
modificazioni augurabili nella personalità o nel comportamento del
paziente” (Korchin S.,1977), vediamo
come la psicoterapia si fondi concettualmente ed operativamente nella
psicologia clinica.
E' questo un
passaggio molto importante, che può essere riconosciuto come una
conseguenza della legge 56/89, istitutiva della professione di psicologo
in Italia.
Nella legge 56/89, ricordiamolo, l'art. 1 definisce la professione di
psicologo, mentre l'art. 3 regolamenta l'accesso degli psicologi, assieme
ai medici, all'esercizio della psicoterapia. Ragioni storiche e di
tradizione della professione psicologica hanno creato, dunque, le
premesse per il perseguimento dell'abilitazione alla psicoterapia nella
grande maggioranza degli psicologi italiani gravitanti entro l'area
clinica. La
psicoterapia costituisce quindi una delle aree d'intervento della
psicologia clinica, anche se non si esaurisce con essa. In
questo senso ho scelto un campione
costituito da 100
psicoterapeuti palermitani, distinti
per sesso e per età e occupati nel settore privato avvicinati casualmente
durante alcuni Convegni, incontri e Congressi svoltisi a
Palermo tra gennaio e
giugno 2007.
La
sua struttura è riportata nella tabella 1.
Dopo
aver richiesto il consenso informato,la ricerca è
proseguita con un’indagine quantitativa utilizzando come strumento di
rilevazione un questionario adattato in italiano,(Pope, Tabachnick, &
Keith-Spiegel, 1987)composto da una lista di 83 comportamenti che possono
verificarsi nella realtà clinica. I professionisti psicologi dovevano
rispondere in base al modo in cui si sono
comportati nel momento in cui
tali situazioni sono accadute,
ottenendo in tal modo un’immagine più pratica
di cosa si intende per etica professionale ed all’opposto per
cattiva pratica.
Fase di studio
Soggetti
La tabella 1
riporta i dati relativi al
campione preso in esame, distinto per sesso, età e orientamento
terapeutico.
Tabella 1
Sesso
|
%
|
Maschi
|
46,1
|
Femmine
|
53,9
|
|
|
Età
|
19,1
|
<
35 anni
|
54,0
|
36
ai 50 anni
|
26,9
|
>50
anni
|
|
|
|
Orientamento
|
|
Psicodinamico
|
38,21
|
Cognitivista
|
30,88
|
Sistemico-relazionale
|
16,79
|
Comportamentista
|
9,92
|
Gestaltisti
|
4,20
|
Materiale
Lo strumento
consiste in un questionario somministrato in forma anonima,
composto da 83 item a 6 e a 5 possibilità di risposta secondo una
scala likert. A ciascun partecipante è stato chiesto di
valutare ciascuno degli
83 comportamenti in base a due categorie. La
prima fa riferimento alla liceità di un comportamento nella pratica
clinica. Ogni soggetto doveva indicare se il comportamento fosse non
applicabile nella pratica oppure se
gli era capitato di trovarsi in una situazione di malpratica
utilizzando 5 possibili risposte: mai, raramente, qualche volta, spesso, molto spesso. La
seconda categoria riguarda l’eticità di un comportamento. Anche in
questo caso gli 83 comportamenti erano valutati singolarmente dai
partecipanti, segnalando se fossero etici o meno attraverso 5 possibilità
di risposta: discutibile, etico solo in certe circostanze, non sono
sicuro, etico in diverse
circostanze, etico in modo indiscutibile.
Descrizione del
questionario
La tabella 2
descrive la struttura del questionario. Nella prima colonna è riportato
il numero d’ordine dell’item, la seconda colonna contiene il testo
letterale dell’item e la terza colonna riporta
la percentuale di risposte dei soggetti appartenenti al campione, per
ciascuno degli 83 item del
questionario.
Leggenda:
E’
mai capitato nella pratica clinica?1= mai, 2= raramente, 3= qualche
volta, 4= spesso, 5= molto spesso, 6= non applicabile
Eticità
del comportamento 1= discutibile, 2= etico solo in certe circostanze
4= non sono sicuro, 5= etico in diverse circostanze, 6= etico in modo
indiscutibile
Tabella 2
E’
mai capitato nella pratica clinica?%
Eticità del comportam%
Item
|
|
1
|
2
|
3
|
4
|
5
|
NA
|
1
|
2
|
3
|
4
|
5
|
1.
|
Diventare
amico di un cliente
|
43,1
|
20,8
|
19,2
|
6,5
|
6,5
|
4
|
5,77
|
53,82
|
15,79
|
23,86
|
0,76
|
2.
|
Prendersi
cura di un cliente gratuitamente
|
3,2
|
3,1
|
8,1
|
26,3
|
58,4
|
0,9
|
7,29
|
38,81
|
12,93
|
29,17
|
11,8
|
3.
|
Fare
terapia ad un proprio amico
|
47,2
|
19,7
|
18,2
|
5,7
|
5
|
4,2
|
64,9
|
20,53
|
2,98
|
7,2
|
4,39
|
4.
|
Farsi
pubblicità sui giornali o attraverso i media
|
48,2
|
22,2
|
17
|
4,3
|
4,1
|
4,1
|
9,44
|
10,61
|
10,38
|
37,75
|
31,82
|
5.
|
Selezionare
gli appunti dei trattamenti
in base a nome, data e onorari
|
45,2
|
23,1
|
15,2
|
7,3
|
6,9
|
5,4
|
17,13
|
51,38
|
14,39
|
13,68
|
3,42
|
6.
|
Mettere
da parte una rimostranza riguardo un atteggiamento poco etico nei
confronti di un collega
|
42,9
|
22,6
|
18,8
|
6,7
|
4,8
|
4,2
|
1,86
|
11,56
|
5,09
|
22,21
|
59,28
|
7.
|
Domandare
al cliente se si è arrabbiati con lui o lei
|
12,7
|
44,6
|
20
|
9,3
|
7,9
|
5,6
|
10,06
|
30,29
|
10,01
|
39,64
|
9,91
|
8.
|
Interpretare
un test tramite il computer
|
40,7
|
20,4
|
16,5
|
11,3
|
7,2
|
3,9
|
7,83
|
11,45
|
12,35
|
31,31
|
37,06
|
9.
|
Abbracciare
un cliente
|
16,2
|
42,6
|
25,8
|
6,4
|
5,3
|
3,7
|
0,6
|
24,09
|
5,87
|
53,04
|
16,04
|
10.
|
Concludere
una terapia se il cliente non può pagare
|
7,4
|
9,5
|
17,1
|
19
|
41
|
6
|
15,33
|
20,32
|
13,28
|
45,99
|
5,08
|
11.
|
Accettare
una terapia mentendo al cliente sull’onorario
|
44,7
|
24,5
|
12,4
|
9,9
|
4,2
|
4,2
|
28,29
|
39,52
|
13,17
|
11,95
|
7,07
|
12.
|
Cercare
di coinvolgere un altro membro della famiglia del cliente, senza il
suo consenso
|
47,1
|
26,1
|
13
|
5,7
|
5,4
|
2,7
|
28,34
|
42,05
|
10,51
|
9,66
|
9,44
|
13.
|
Tenere
i risultati dei test di un cliente nella propria casa
|
42,3
|
22,3
|
13,7
|
11,7
|
6,3
|
3,7
|
13,67
|
47,9
|
17,98
|
15,96
|
4,49
|
14.
|
Alterare
una diagnosi per confermare un propria ipotesi
|
39,2
|
26,9
|
14,7
|
10
|
6,3
|
2,9
|
52,72
|
24,19
|
16,64
|
5,91
|
0,54
|
15.
|
Dire
al cliente “Io sono sessualmente attratto da te”
|
49,1
|
21
|
14,4
|
6,6
|
5,2
|
3,7
|
59,21
|
22,24
|
11,61
|
5,1
|
1,84
|
16.
|
Rifiutarsi
di permettere ai clienti di leggere gli appunti che li riguardano
|
42,6
|
26,2
|
12,3
|
8,5
|
6,2
|
4,2
|
11,8
|
38,81
|
7,29
|
29,17
|
12,93
|
17.
|
Farsi
pagare al di sotto delle tabelle minime dettate dal codice degli
psicologi
|
8,9
|
4,3
|
42,1
|
27,8
|
12,6
|
4,3
|
6,7
|
7,97
|
13,05
|
52,19
|
20,09
|
18.
|
Rompere
il segreto professionale se il cliente è un omicida
|
8,9
|
3,1
|
24,2
|
48,3
|
11,2
|
4,3
|
2,32
|
9,77
|
4,8
|
21,52
|
61,59
|
19.
|
Fornire
una consulenza forense senza farsi pagare
|
43,4
|
19,2
|
18
|
7,2
|
6,4
|
5,8
|
39,05
|
11,86
|
28,86
|
7,21
|
13,02
|
20.
|
Utilizzare
la propria vita personale come tecnica di terapia
|
9,1
|
40,4
|
23,7
|
17
|
5,9
|
3,9
|
9,16
|
10,77
|
9,49
|
43,09
|
27,49
|
21.
|
Invitare
il cliente a casa propria
|
39,5
|
13
|
9,7
|
7,5
|
4,8
|
25,5
|
36,74
|
31,7
|
12,25
|
11,38
|
7,93
|
22.
|
Accettare
i regali dei clienti
|
37,4
|
20,7
|
7,8
|
7,8
|
7
|
19,3
|
34,91
|
33,95
|
11,64
|
11,01
|
8,49
|
23.
|
Lavorare
in situazione di eccessivo stress
|
20,7
|
37,4
|
19,3
|
7,8
|
7,8
|
7
|
41,95
|
25,3
|
13,98
|
12,45
|
6,32
|
24.
|
Accettare
i clienti solo in base al genere
|
54,2
|
17,1
|
16
|
5,6
|
3,8
|
3,3
|
7,72
|
8,6
|
12,11
|
23,15
|
48,42
|
25.
|
Non
permettere ai clienti di accedere ai verbali dei test
|
41,1
|
25,4
|
14,3
|
10,2
|
4,9
|
4,1
|
27,2
|
24,6
|
14,6
|
21,7
|
12
|
26.
|
Alzare
l’onorario durante il corso della terapia
|
20,3
|
43,1
|
18,1
|
6,5
|
6,5
|
5,6
|
35,2
|
33,6
|
11,73
|
11,07
|
8,4
|
27.
|
Rompere
il segreto professionale se il cliente vuole tentare il suicidio
|
20,2
|
7,4
|
8,7
|
39,8
|
17,4
|
6,5
|
1,76
|
11,94
|
5,15
|
22,36
|
58,79
|
28.
|
Non
permettere ai clienti di avere accesso ai punteggi grezzi dei test
|
31
|
22,2
|
19,8
|
13,1
|
5,4
|
8,5
|
8,8
|
15,94
|
17,73
|
23,91
|
33,62
|
29.
|
Permettere
al cliente di non saldare un conto aperto
|
15,1
|
34,2
|
21,6
|
13,7
|
9,9
|
5,5
|
5,21
|
38,3
|
22,51
|
21,66
|
12,32
|
30.
|
Accettare
altri beni (piuttosto che denaro) come pagamento
|
37,1
|
23,8
|
17,7
|
10,1
|
6,3
|
5,1
|
12,78
|
37,7
|
27,19
|
14,29
|
8,04
|
31.
|
Utilizzare
surrogati sessuali con i clienti
|
40,6
|
26,4
|
14,8
|
8,2
|
6,4
|
3,7
|
45,26
|
16,55
|
15,05
|
14,92
|
8,22
|
32.
|
Rompere
il segreto professionale se il cliente riferisce di avere abusato di un bambino
|
5,5
|
15,1
|
7,8
|
24,5
|
44,22
|
2,9
|
2,95
|
4,41
|
7,32
|
20,57
|
64,75
|
33.
|
Invitare
il cliente ad una festa o a mangiare fuori
|
43
|
22,4
|
8
|
7,8
|
5,8
|
13
|
50,92
|
24,73
|
18,04
|
5,14
|
1,18
|
34.
|
Chiamare
il cliente per nome
|
4,1
|
4,9
|
9
|
11,5
|
26
|
44,6
|
3,12
|
4,3
|
6,64
|
20,31
|
65,63
|
35.
|
Piangere
in presenza di un cliente
|
38,3
|
21,3
|
18,6
|
7,9
|
7
|
6,8
|
6,97
|
37,23
|
9,31
|
20,93
|
25,56
|
36.
|
Guadagnare
lo stipendio attraverso una percentuale di consulenze gratuite
|
35,6
|
9,9
|
11,1
|
12,8
|
25,1
|
5,6
|
9,61
|
6,79
|
38,43
|
27,11
|
18,06
|
37.
|
Chiedere
favori (per es essere accompagnati a casa) dai clienti
|
29,7
|
20,1
|
19,3
|
13,3
|
10
|
7,6
|
29,86
|
45,47
|
18,39
|
5,19
|
1,09
|
38.
|
Fornire
una consulenza su una custodia, senza neanche avere visto il bambino
in questione
|
44,6
|
15,5
|
5,9
|
5,1
|
5,1
|
23,8
|
64,09
|
20,77
|
7,32
|
4,41
|
2,95
|
39.
|
Accettare
la decisione del cliente edi commettere un suicidio
|
41,2
|
21,5
|
7,2
|
6,6
|
6,4
|
16,9
|
40,26
|
36,30
|
14,74
|
5,01
|
3,69
|
40.
|
Rifiutarsi
di comunicare la diagnosi ad un paziente.
|
37,2
|
28,3
|
19,1
|
7,5
|
4,1
|
3,9
|
27,75
|
41,87
|
15,13
|
10,47
|
4,78
|
41.
|
Portare
in un gruppo di terapia una persona nuda per “far crescere” il
gruppo.
|
28,4
|
18,8
|
13,5
|
13,7
|
3,7
|
21,9
|
59,38
|
21,19
|
11,48
|
5,08
|
2,87
|
42.
|
Chiedere
al cliente il motivo per cui ha disdetto l’appuntamento
|
41,3
|
20,2
|
16,4
|
8
|
5,9
|
8,2
|
25,68
|
37,32
|
15,85
|
11,82
|
9,33
|
43.
|
Parlare
dei clienti (senza fare nomi) coni propri amici
|
25,4
|
43,6
|
14
|
5,9
|
4,9
|
6,3
|
30,33
|
35,79
|
24,2
|
6,55
|
3,13
|
44.
|
Fare
terapia ad uno studente
|
32,7
|
32,1
|
7,5
|
3,6
|
2,2
|
21,8
|
43,68
|
35,35
|
6,33
|
11,32
|
3,32
|
45.
|
Ricambiare
attraverso regali l’inviante
|
34,9
|
29,5
|
11,3
|
4,2
|
3,8
|
16,2
|
41,91
|
24,12
|
18,86
|
10,09
|
5,02
|
46.
|
Trascurare
conti non pagati e poi intentare una causa al cliente
|
35,5
|
32,9
|
6,9
|
2,9
|
2,2
|
19,6
|
10,37
|
37,16
|
18,34
|
19,84
|
14,29
|
47.
|
Intrattenere
una relazione sessuale con un cliente
|
57,6
|
30,1
|
7,3
|
2,1
|
2,9
|
17,4
|
53,04
|
19,99
|
17,27
|
5,96
|
3,74
|
48.
|
Evitare
certi clienti per paura di avere fatto la corte
|
47,3
|
22,5
|
16,9
|
3,9
|
3,7
|
5,6
|
93,1
|
3,66
|
1,98
|
0,77
|
0,49
|
49.
|
Fornire
una consulenza su una custodia, senza neanche avere visto i genitori
del bambino in questione
|
36,4
|
18,3
|
9,6
|
7,9
|
6,7
|
21,1
|
47,83
|
30,01
|
12,17
|
6,95
|
3,04
|
50.
|
Farsi
prestare dei soldi da un cliente
|
41,7
|
23,5
|
11,7
|
5,9
|
4,7
|
12,5
|
40,88
|
38,64
|
12,12
|
5,28
|
3,08
|
51.
|
Fare
terapia ad un collega
|
43,8
|
15,1
|
10,1
|
3,8
|
5,2
|
22
|
55,08
|
25,48
|
11,81
|
4,02
|
3,61
|
52.
|
Prendere
in terapia un cliente perchè “raccomandato”
|
39,5
|
28
|
16,1
|
5,2
|
2,5
|
8,6
|
2,64
|
4,6
|
6,51
|
23,04
|
63,21
|
53.
|
Mandare
cartoline di auguri ai propri clienti
|
33,2
|
33
|
16,2
|
4,5
|
3,4
|
9,7
|
10,63
|
15,66
|
25,15
|
21,17
|
26,85
|
54.
|
Baciare
un cliente
|
40,5
|
33,7
|
8,1
|
3,2
|
2,4
|
12,1
|
48,34
|
36,87
|
4,66
|
6,72
|
3,41
|
55.
|
Intrattenere
un’attività erotica con un cliente
|
44,6
|
35,6
|
14,4
|
1,3
|
4,7
|
16,2
|
10,1
|
3,66
|
2,77
|
1,98
|
1,49
|
56.
|
Invadere
la privacy di un cliente
|
39,3
|
17
|
8,7
|
5,9
|
5,1
|
24,1
|
69,12
|
16,53
|
6,53
|
4,98
|
2,84
|
57.
|
Accettare
l’invito di un cliente ad una festa
|
43,6
|
18,6
|
11
|
5
|
4,3
|
17,6
|
24,53
|
46,85
|
10,43
|
10,15
|
8,04
|
58.
|
Aggressione
o addirittura percosse ad un cliente
|
36,7
|
20,3
|
18,5
|
8,7
|
6,1
|
9,7
|
85,76
|
10,19
|
2,83
|
1,04
|
0,18
|
59.
|
Fare
dei colloqui con un minorenne senza il consenso dei genitori
|
25,8
|
37,2
|
15,7
|
10,6
|
6,9
|
3,9
|
4,84
|
34,24
|
13,81
|
28,76
|
18,35
|
60.
|
Violazione
del diritto ad un consenso informato
|
35,1
|
21,1
|
15,8
|
9,7
|
7,3
|
1,1
|
84,02
|
7,5
|
4,15
|
3,54
|
0,79
|
61.
|
Avere
diffamato un cliente
|
46,7
|
27,1
|
10,2
|
10
|
2,1
|
4
|
77,71
|
10,61
|
5,05
|
4,88
|
1,68
|
62.
|
Avere
un contatto sessuale con un cliente
|
50,4
|
27,5
|
18,1
|
1,6
|
2,4
|
12,2
|
68,20
|
11,4
|
10,14
|
6,74
|
3,52
|
63.
|
Richiedere
un ricovero in ospedale non necessario
|
18,8
|
45,6
|
9,3
|
7,1
|
4,8
|
14,5
|
4,70
|
28,10
|
8,73
|
20,56
|
38,91
|
64.
|
Dire
bravo ad un cliente
|
35
|
33,8
|
11,9
|
10
|
5,5
|
3,7
|
71,54
|
18,89
|
4,74
|
3,37
|
1,46
|
65.
|
Farsi
pubblicità personale sulle radio, in tv
|
36,7
|
34,6
|
7,7
|
3,7
|
1,4
|
15,9
|
15,71
|
28,19
|
20,59
|
26,81
|
8,70
|
66.
|
Trattamento
terapeutico inadeguato
|
19,5
|
21,7
|
45,1
|
4,3
|
3,9
|
5,5
|
17,12
|
0,55
|
19,80
|
20,33
|
33,20
|
67.
|
Svelare
non intenzionalmente dati confidenziali
|
29,7
|
37,5
|
8,4
|
5,5
|
5,1
|
13,7
|
75,79
|
14,45
|
4,52
|
3,39
|
2,85
|
68.
|
Fare
spogliare un cliente
|
45,1
|
21,2
|
8,5
|
8,3
|
3,7
|
13,1
|
81,44
|
10,36
|
3,78
|
2,48
|
1,94
|
69.
|
Richiedere
un prestito da un cliente
|
46,8
|
23,8
|
14,4
|
6,6
|
4,3
|
4,1
|
2,81
|
86,56
|
10,14
|
1,39
|
0,1
|
70.
|
Discutere
con i propri amici di un cliente dicendo il nome
|
42,1
|
26,3
|
14,8
|
6,5
|
2,8
|
7,5
|
94,66
|
3,00
|
1,75
|
0,30
|
0,29
|
71.
|
Fornire
trattamenti al di fuori delle proprie aree di competenza
|
44
|
26
|
11,1
|
6,1
|
3,6
|
9,2
|
80,50
|
16,00
|
2,00
|
0,87
|
0,63
|
72.
|
Seguire
una supervisione senza farsi pagare
|
40,5
|
27,1
|
12,5
|
9,1
|
3
|
7,8
|
92,46
|
6,00
|
1,00
|
0,42
|
0,12
|
73.
|
Trattare
l’omosessualità come patologia
|
37,9
|
27,4
|
10,9
|
10,7
|
4,5
|
8,5
|
55,51
|
20,78
|
16,22
|
6,93
|
4,56
|
74.
|
Fare
terapia sotto l’influenza dell’alcool
|
38,8
|
18,3
|
18,9
|
8,3
|
5,7
|
10
|
89,76
|
5,00
|
3,43
|
1,75
|
0,06
|
75.
|
Fare
una fantasia sessuale su un cliente
|
25,5
|
39,5
|
15,4
|
10,1
|
5,5
|
4
|
18,87
|
15,25
|
26,02
|
13,88
|
25,98
|
76.
|
Effettuare
una diagnosi impropria
|
24,8
|
38
|
12,8
|
11
|
4,3
|
9,1
|
7,38
|
20,52
|
17,08
|
34,48
|
20,54
|
77.
|
Offrire
o accettare una stretta di mano da un cliente
|
26
|
36,4
|
15,1
|
9,3
|
9,3
|
3,9
|
0,06
|
1,35
|
3,68
|
31,98
|
72,93
|
78.
|
Spogliarsi
in presenza di un cliente
|
41,9
|
30,9
|
9,3
|
7,2
|
2,5
|
8,2
|
94,84
|
3,00
|
1,50
|
0,45
|
0,21
|
79.
|
Dimenticarsi
di un appuntamento
|
9,3
|
41,9
|
30,9
|
2,5
|
8,2
|
7,2
|
2,21
|
6,14
|
7,55
|
38,65
|
45,45
|
80.
|
Fare
affari con un cliente
|
52,6
|
20,4
|
2,1
|
1,9
|
0,2
|
22,8
|
36,39
|
28,38
|
16,40
|
13,61
|
5,22
|
81.
|
Sollecitare
direttamente un cliente ad venire da voi
|
28,5
|
37
|
11,1
|
6,1
|
4
|
13,2
|
67,44
|
22,86
|
5,43
|
2,57
|
1,7
|
82.
|
Essere
sessualmente attratto da un cliente
|
19,5
|
55
|
21,9
|
2
|
0,2
|
1,4
|
8,41
|
12,85
|
21,41
|
18,74
|
38,59
|
83.
|
Indurre
i clienti ad esprimere le loro lamentele verso i colleghi terapeuti.
|
70,8
|
10,2
|
5
|
1,6
|
1,2
|
11,2
|
6,53
|
22,14
|
14,33
|
31,45
|
25,55
|
Procedura
Risultati
Rispetto
alle variabili relative al sesso dei partecipanti e all’età sono state
rilevate relazioni statisticamente significative
(p< 0,01), confermando i dati della letteratura esistente (Pope,
Tabachnick, & Keith-Spiegel, 1987).
Per
quanto riguarda il sesso, degli 83 comportamenti presi in esame, 30 sono
stati selezionati per esaminarne la differenza rispetto al genere usando
come criterio di analisi il chi quadro.
I
risultati dimostrano che in alcuni item c’è una netta prevalenza del
genere maschile e in altri di quello femminile. Era più probabile per gli
uomini che per le donne, fare fantasie sessuali sui propri clienti (80%
contro 20% rispettivamente ) χ²= 53.11. Una larga proporzione di
uomini rispetto alle donne aveva provato attrazione sessuale nei confronti
di un cliente (75% contro il 25% rispettivamente) χ²= 40.61
Diversamente
le donne sembrano più orientate verso comportamenti quali manifestazioni
di affetto verso un cliente come ad esempio abbracciarlo (60%) rispetto
agli uomini (40%) χ²= 25.63 o baciare un cliente (55%) rispetto agli
uomini (45%) χ²= 21.97
Per
quanto concerne l’età, anche in questo caso 20 comportamenti degli 85
item, sono stati selezionati a priori, utilizzando come criterio il
chi quadro.
I
dati ricavati mostrano
come gli psicologi con un età maggiore di 50 anni sono più inclini ad
“errori” legati all’identificazione con i loro clienti. Essi spesso
sono così assorbiti dalla
pratica, che vivono il lavoro
e i clienti come missione, famiglia, casa e destino. In questo senso i
terapeuti più maturi sono portati ad avere rapporti di amicizia con i
clienti (60%) rispetto a quelli tra i 36 e i 50 anni (25%) e quelli al di
sotto dei 36 anni (15%) χ²= 21.12
Gli
psicoterapeuti più giovani tendono sono più disponibili ad aiutare senza
considerazione dell’onorario, fornendo consulenze anche forensi gratuite
o facendosi pagare al di sotto del tariffario minimo (50%) rispetto ai
professionisti tra i 36 e i 50 anni (34%) e a quelli sopra i 50 anni (16%)
χ²= 27.28
Sull’insieme
dei dati raccolti, desunti dal questionario, è
stata condotta un’analisi fattoriale col metodo delle componenti
principali e con rotazione
Varimax dei fattori estratti.
Si è scelto di estrarre quattro fattori che spiegano il 69,24% della
varianza totale.
Fattore
1 (30,51%): Onorari (item n° 2,10,11,17,19,26,29,36,46,72)
Fattore
2 (15,99%): Valutazione e riservatezza
(item n° 18,27,32,43,56,67,70)
Fattore
3 (12,39%): Adeguato consenso al trattamento (item n° 12,16,25,59,60,
28,40)
Fattore
4 (10,35%) : Contatti sessuali tra terapeuta e paziente (item n° 31, 47,
55, 62)
Il
primo fattore ha cercato di esaminare una delle denunce più frequenti di
cattiva pratica professionale, ovvero la richiesta di onorari. Il
pagamento degli onorari può essere considerato come una vera e propria
personificazione dell’aspetto transazionale della psicoterapia,
rappresenta una forma di scambio o di baratto che costituiscono il nucleo
del processo relativo al trattamento. Freud(1913)
pensava, ad esempio, che gli onorari fossero fondamentali per
l’analista, essendo un mezzo per preservare se stessi e darsi sicurezza.
Altri studiosi (Menninger e
Holtzmann, 1973 ) hanno sottolineato
il fatto che gli onorari sono una parte necessaria e intrinseca del
processo relativo al trattamento. Per
questo motivo, il modo in cui il terapeuta gestisce o non gestisce la
questione onorati può avere effetti profondi sulla terapia stessa.
Determinati comportamenti legati al compenso del terapeuta possono essere
giudicati come indiscutibilmente scorretti e altri più connessi
all’inesperienza del clinico. Alzare
l’aumento dell’onorario per alcuni terapeuti
può risultare una pratica errata, soprattutto una volta che è sta
decisa una determinata tariffa. Altri pensano, al contrario, credono che i
terapeuti, come i barbieri, gli editori e i pediatri, siano autorizzati ad
aumentare i propri onorari appena aumentano le spese. Il
presente studio ha dimostrato come per il 63, 4% dei partecipanti pensano
che una volta iniziata la terapia le tariffe non debbano essere aumentate
( al 20,3% dei soggetti
non è mai successo e al 43,1% raramente). Solo il 6,5% lo usa
fare molto spesso e il 18,1% spesso. E’
tipico che una denuncia relativa agli onorari si verifiche quando il
professionista permette che si accumulino molte parcelle non pagate e
quando ha concluso la sua opera con un cliente, cerchi di riscuotere un
conto che è divenuto molto rilevante. Nel
suddetto studio l’accumulo degli onorari è attuato solamente dal 2,9%
in modo frequente e dal 2,2% molto frequentemente. Permettere al cliente
di non saldare un conto, invece, si verifica più spesso: il 9,9% lo fa
sovente e il 13,7% spesso. Scondo
Wright (1981) “denunce
di cattiva pratica professionale si vedono raramente in un contesto nel
quale gli onorari risultino chiaramente strutturati o siano gestiti come
un dato importante del rapporto professionale”. Diverso
è il discorso di prendere in carico un paziente gratuitamente. Come
sottolineato precedentemente, questo avviene solitamente nei terapeuti più
giovani e inesperti. Freud
(1908) si schierava contro le terapie gratuite, sia perché ciò implica
un grande costo all’analista che perde parte delle sue entrate, sia
perché questi trattamenti aumentano il livello di resistenza da parte dei
pazienti che non sono stimolati al miglioramento. Menninger
(1958) ha
evidenziato che il pagamento degli onorari deve comportare un
sacrificio per il paziente, perché il processo terapeutico sia
significativo. Nash e
Cavenar (1976) hanno
riscontrato, in uno studio di cinque casi, che il trattamento gratuito
tende ad interferire con il progresso terapeutico. Gli autori hanno
considerato il fatto che i loro pazienti potevano avere dei
sensi di colpa per i miglioramenti ottenuti in terapia e hanno
anche riscontrato l’insorgere di questioni particolari con pazienti con
gravi problemi di identità sessuale, i quali tendevano a presupporre che
l’analista volesse favori sessuali in cambio di un onorario ridotto. Slovenko
(1998) ha considerato che gli
onorati possono riflettere l’autostima del terapeuta, e che una parcella
inadeguata può denigrare sia il terapeuta che il paziente.
La mia indagine ha rilevato come
più dell’8’% dei terapeuti è disposto a seguire un cliente
gratuitamente e il 29,7% lo considera un comportamento etico attuabile in
diverse circostanze. Anche
farsi pagare al di sotto del tariffario minimo è abbastanza sovente. Il
27,8% lo fa spesso e il 12,6 molto spesso e il 52,19% lo considera etico
in diversi casi. Il
numero di terapeuti che effettuano consulenze gratuite è leggermente
inferiore: 25,1% molto frequentemente e il 12,8% frequentemente. Il
motivo della difficoltà nel gestire le risorse economiche da parte di
alcuni terapeuti potrebbe risiedere proprio nel loro specifico ruolo e ai
pregiudizi ad esso connessi. Gli
psicoterapeuti sono diversi da altri professionisti quali i medici o gli
avvocati, la cui “cupidigia” è stata oggi “accettata” dalla
persona comune. Come il sacerdote, il terapeuta viene invece considerato
come colui che ha avuto una chiamata spirituale e, come tale, si suppone
che sia sempre disponibile ad aiutare, senza considerazione
dell’onorario e della convenienza personale. Questo gli causa molti
problemi poiché si sente investito da un senso di colpa quando chiede un
onorario. Weinberg
(1984) indica
due cause tipiche che insieme contribuiscono al mancato pagamento da parte
dei clienti. La prima è una sovra-identificazione con il cliente stesso;
i praticanti che si sovra-identificano trovano difficile richiedere una
parcella alle persone che manifestano sofferenze o particolari difficoltà.
La seconda causa è un atteggiamento ancora più inconscio e disabilitante
verso la pratica. Questi liberi professionisti sono pervasi da un
sentimento di inadeguatezza e perdita di fede nel metodo psicoterapeutico.
Weinberg rileva che quando i terapeuti dicono che il “denaro non è
importante” è come se dicessero che essi non meritano di essere pagati.
Il
secondo fattore fa
riferimento alla riservatezza delle informazioni acquisite nel contesto
della terapia. Questo problema per i professionisti dell’igiene mentale,
insorge ogni qualvolta un cliente inizia il trattamento; ogni qualvolta
sia in ballo un omicidio, un suicidio o un abuso di un minore; ed ogni
qualvolta che si riceva una telefonata da un familiare del paziente o da
una compagnia di assicurazioni che chiedono informazioni. Non deve
sorprendere che la riservatezza sia stata oggetto di considerazione
persino nei primi anni dell’intervento psico-terapeutico. Freud, per
esempio, si dibatte con questo problema quando discute i suoi casi:
“Se le distorsioni (di
materiale importante) sono lievi, esse falliscono il loro scopo per
proteggere il paziente dalla curiosità indiscreta, se vanno troppo oltre,
esse richiedono un sacrificio troppo grande…E’ più facile divulgare i
più intimi segreti del paziente piuttosto che fatti più
innocenti e irrilevanti su di lui, poiché, mentre i primi non
getterebbero alcuna luce sulla sua identità, i secondi consentirebbero a
chiunque di riconoscerlo” (Freud, 1963). I
professionisti che lavorano nel campo dell’igiene mentale sono stati
criticati per il fatto di possedere una conoscenza meno adeguata dei loro
obblighi deontologici e giuridici (Keith-Spiegel, 1985). Sfortunatamente
l’evidenza pratica, almeno fino ad un trentennio fa, dimostrava la
correttezza di questo giudizio. Swoboda e colleghi
(1978) hanno
riferito che una significativa proporzione di psicologi, psichiatri e
assistenti sociali ignoravano le leggi relative al segreto professionale.
Oggi, per fortuna, le cose
sono cambiate. Jagim e colleghi (1998) hanno riscontrato che
tutti i professionisti del settore ( psicologi, psichiatri e assistenti
sociali) concordavano sul fatto che la riservatezza fosse un aspetto
fondamentale del rapporto terapeutico.. Il 98% dei professionisti
considerava la riservatezza come essenziale al mantenimento di un rapporto
terapeutico funzionale. Inoltre il 98% riteneva che fosse un obbligo
morale mantenere confidenziali le informazioni relative ad un paziente.
Tuttavia Jagim e colleghi hanno trovato che una maggioranza degli
intervistati avrebbe “violato” la riservatezza in determinate
circostanze (per esempio, pericolo per una terza parte e/o richieste delle
leggi di rivelare l’informazione).. In
questa ricerca sembra che ci sia massimo accordo nel riconoscere
l’importanza deontologica del vincolo al segreto professionale e del
ruolo del consenso informato. Solo
il 4,9% dei partecipanti ha parlato di un cliente ai propri amici senza
fare il nome e il 2,8% fecendone il nome, il 5,1% ha svelato non
intenzionalmente dati confidenziali e solamente il 3,9% non avevano
ottenuto da un cliente il consenso informato e avevano eseguito comunque
una procedura di valutazione. Si
deve perciò proteggere la segretezza della comunicazione del cliente.
L’obbligo al mantenimento
del segreto professionale pare possa però decadere in presenza di valido
o dimostrabile consenso del paziente o nel caso in cui vi sia pericolo per
la vita e la salute di terzi. Il
39,8% dei campione prescelto riporta di avere rotto il segreto
professionale in caso di suicidio, il 44,2% in caso di abusi su un minore
e il 48,3% in caso di omicidio. Bisogna
considerare comunque un fattore importante nel discutere il tema della
riservatezza. A differenza dei praticanti di altre professioni- per
esempio dei poliziotti- gli psicologi non hanno un codice standard di
procedure e chiare limitazioni per trattare certe situazioni difficili.
Noi ci dobbiamo accontentare delle nostre risorse per affrontare
situazioni critiche o tutt’al più ci può venire in aiuto la
supervisione fatta da un collega o da un nostro maestro. Il
terzo fattore indaga gli aspetti connessi al tema del consenso informato.
il Consenso Informato rappresenta l'opportunità, e anzi il diritto
assoluto, per ogni utente-cliente di essere informato, nel modo più
completo, chiaro, onesto, reale e costante, sui trattamenti cui viene
sottoposto dal professionista così da poter acconsentire in piena
coscienza, nel suo interesse e per il suo bene, ai trattamenti stessi. (Noll,
J. O., Haugan, M. L. 1985). Per
poter esprimere o negare il proprio consenso occorre essere opportunamente
informati sulla questione in oggetto. Il compito di informare il paziente
in modo chiaro e comprensibile spetta allo psicologo. Egli dovrà spiegare
al paziente tutti gli aspetti principali del trattamento proposto, in
particolare diagnosi, caratteristiche del trattamento, durata, rischi,
benefici, costo, etc. Alcuni
studi (Morrison, Morrison, & Holdridge-Crane, 1979;
Pope & Vasquez, 1999,)hanno dimostrato che dati
quali i punteggi dei test, le relazioni, le cartelle cliniche e tutta la
documentazione relativa ad un paziente possono interferire nella decisione
del paziente di iniziare o proseguire un determinato trattamento. Simon
e Sadoff (1992) esaminando un gruppo di 30 pazienti psichiatrici,
trovarono che il 95% risultava contrariato al pensiero che le informazioni
contenute nelle loro cartelle cliniche potessero essere rilasciate
automaticamente ad estranei; l’80% dei pazienti disse che
un’assicurazione di riservatezza migliorava il loro rapporto con il
personale; il 67% disse che si sarebbe risentito o sarebbe stato
contrariato se le informazioni fossero rilasciate senza il loro permesso,
ed il 17% disse che, nel caso le informazioni su di loro fossero
rilasciate senza il loro permesso, essi avrebbero interrotto il
trattamento. Durante la
mia ricerca ho potuto costatare come circa
¼ dei partecipanti avevano
iniziato una terapia con un minorenne senza chiedere il consenso ai
genitori. Per il 10,6% avveniva piuttosto raramente, per il 3,9% più
frequentemente. Tuttavia,
la maggior parte degli intervistati concorda nel ritenere giusto e
doveroso informare il paziente di tutta la documentazione che gli
riguarda.Un quinto dei partecipanti crede che sia scorretto rifiutarsi di
comunicare la diagnosi (27,75%) o di rivelare i risultati dei test
(27,2%). Pochi soggetti rifiutano di far leggere ai clienti le proprie
cartelle o appunti che li riguardano (6,2%) o credono che negare al
paziente l’accesso ai punteggi grezzi dei test non sia etico (8,8%).
Solamente il 4,1% dei
partecipanti si rifiuta di comunicare la diagnosi ad un paziente, il 4,9%
non permette di accedere ai risultati dei test e il 6,2% nega al paziente
informazioni circa le proprie cartelle cliniche o a leggere gli appunti
che lo riguardano. Nel
complesso si può affermare che lo psicologo riconosce i diritti del
paziente a conoscere ciò che gli appartiene ed a utilizzare in qualunque
procedura valutativa il consenso informato. Infine
l’ultimo fattore ha teso ad
indagare le tematiche relative alle
relazioni sessuali tra terapeuta e paziente. Denunce
di abuso sessuale sono relativamente frequenti e costituiscono una delle
basi di cause ai terapisti che hanno maggior successo. Halroyd
e Brodsky (1977) hanno riscontrato che il 5,5% degli psicologi maschi e lo
0,6% delle psicologhe femmine ammettono di avere avuto rapporti sessuali
con i propri clienti. Studi
recenti (Pope,Sonne, e Holroyd, 1993) hanno,
al contrario, indicato un decremento della percentuale di psicologi
che intrattiene relazioni sessuali con i pazienti. In
realtà i terapeuti implicati
in denunce di abuso sessuale sarebbero meno numerosi di quanto si crede.
(Pope,1994, 2000) La nascita
di questo “mito” secondo Herbert
(2004) è legata al rapporto
dei media con il diritto nonché alla maggiore istruzione e conoscenza del
fatto che i tribunali sono una sede possibile per trattare le proprie
dispute. In
questo studio i dati sembrano
confermare questa supposizione. Gli item riguardanti comportamenti
sessuali- come impiegare metodi che prevedono la nudità o l’utilizzo di
surrogati sessuali- risultano avere avuto poche risposte. Uno
dei risultati più sorprendenti è quello per cui solo l’1,6% dei
soggetti riferisce di avere avuto un contatto sessuale con un cliente, il
2,1% di avere intrattenuto una relazione sessuale e l’1,3% ammette di
avere intrapreso un’attività erotica con un cliente. Inoltre
sul versante etico circa la metà dei soggetti considera il rapporto
sessuale con un cliente come discutibile, mentre
i punteggi relativi al contatto sessuale e alle attività erotiche
con i pazienti, risultano essere significativamente bassi. Più del 70%
degli psicoterapeuti crede che entrambi i comportamenti siano immorali.
Un’ipotesi che possa
spiegare il motivo della riduzione dei rapporti sessuali tra terapeuta e
paziente potrebbe
essere quella legata all’ansia, che molti psicoterapeuti hanno provato
per la preoccupazione delle azioni legali. (Sell, Gottliebe, Schonfeld, Gottlieb, M.C., Sell, J.M. & Schoenfeld,
L.S., 1988). Le
abitudini sono cambiate da quando è cominciata la paura delle azioni
legali. I tribunali hanno confermato l’autorità agli organi preposti,
di revocare la licenza al clinico, qualora si dimostri che ha avuto
rapporti con un paziente. Certamente
i partecipanti al questionario sono consapevoli di quanto sia scorretto
stabilire delle relazioni intime con un cliente e di quanto sia importante
prendere delle semplici precauzioni per agire in modo che il loro lavoro
sia ragionevolmente, razionalmente e professionalmente quello che
dovrebbero fare. Tuttavia
per determinati professionisti
che non sono stati e non sono ancora motivati da ragioni intrinseche,
saranno i meccanismi sociali di potenziali azioni legali a fare ciò che
dovrebbero comunque fare.
Commento
Complessivamente
si delinea un quadro abbastanza chiaro e uniforme di quali implicazioni
etiche e legali siano correlate al fenomeno della cattiva pratica. A
prescindere dai ruoli specifici nei quali agiscono, gli psicologi sono
tenuti a rispettare degli obblighi etici, che possono essere ridotti ad
uno solo: la promozione del benessere umano. Nel perseguimento di questo
ideale, gli psicologi assumono l’obbligo generale di essere
responsabili, competenti, onesti, rispettosi verso i colleghi e
consapevoli degli standards morali e giuridici della comunità. (Campbell,
T. W. (1994). Dato
il principio primario prima ricordato, ciò comporta che anche lo
psicologo accetti la responsabilità di correggere azioni che diminuiscano
il benessere umano. Ciò significa che essi non possono praticare
comportamenti illeciti, discriminatori, menzogneri o ingiuriosi. Per
molti professionisti del campo dell’igiene mentale, l’azione legale è
percepita come un anatema, che
capita a professionisti intelligenti e ben disposti ad opera di avidi
avvocati e clienti ingrati. Benché
sia vero che nei processi di cattiva pratica, a volte le giurie formulano
giudizi eccessivamente ampi e apparentemente non appropriati, è
altrettanto vero che l’azione legale, a mio modesto parere, può essere
considerata come un dono alla professione e al pubblico. Il dono consiste
nel fatto che l’azione legale è un mezzo per rendere pubbliche molto
azioni che sono private e problematiche. Se non fosse stato per le cause
contro psicoterapisti che hanno avuto rapporti sessuali con i loro clienti
durante le sedute, la nostra professione sarebbe stata molto più lenta
nel condannare pesantemente questa pratica. L’azione
legale, inoltre, è servita a liberarci di individui immorali che non
avrebbero mai dovuto mettere in pericolo il benessere dei loro clienti
nella privacy della
psicoterapia. Liberarci da quei terapisti egoisti e sconsiderati è stato
un dono venutoci dai processi contro i terapisti.
Bibliografia
Bentham
J , (1838-1843). The Works, a cura di John Bowring, 11 voll., Tait,
Edinburgh,
Blackburn
S. The
Oxford
Dictionary of
Philosophy
Oxford
University
Press 1994, 126.
Campbell,
T. W. (1994). Psychotherapy and malpractice exposure. American
Journal of Forensic Psychology, 12(1). 5-41)
Calvi
E., Guglielmo Gulotta G.,
(1999.
Il Codice Deontologico degli Psicologi commentato articolo per
articolo, Giuffrè
Editore, Milano
Calvi
E,(2000). Etica e deontologia
per lo psicologo e lo psico-terapeuta, in C. Parmentola, Il
soggetto psicologo e l'oggetto della psicologia nel codice deontologico
degli psicologi italiani, pagg.
49-61, Giuffrè Editore, Milano
Clemmons
P., (1997). Malpractice the psychologist s nightmare- what every
psychologist should know, Psychology
Tape
Conte
H.R., Karasu T.B. (1990). Malpractice in Psychotherapy: An Overview in
American
Journal of Psychotherapy,
vol. XLIV, N. 1, pag. 232-245
Cohen
R.J. ,
Mariano E.W.(1982). Legal
Guidebook in Mental Health, Free Press,
New York
Dorken,
H. (1990).
Malpractice claims experience of psychologists:
Policy issues, cost comparisons with psychiatrists, and
prescription privilege implications. Professional
Psychology: Research and Practice, 21, 150-152.
Freud
S. Opere complete, volume 5 (1905-1908). Boringhieri, Torino,
1970
Furrow,
B. R. (1980). Malpractice in psychotherapy.
Lexington
,
MA
Green
R.K., Cox G. (1978) Social
work and malpractice: a converging course, .
Soc Work.23
(2):100-5
Grisso,
T. (1986) Evaluating competencies: Forensic
assessments and instruments.
New York
: Plenum
Herbert
B., (2004). Malpractice Myths, The New York Times, June 21
Holroyd,
J, Brodsky A., (1977). Psychologists'
attitudes and practices regarding erotic and nonerotic physical contact
with clients. American Psychologist, 32, 843-849
Hogan,
D.B. (1979). The regulation of psychotherapists. Vol. 3: A review of malpractice
suits in the
United States
. Cambridge, MA: Ballinger
Jagim,
R. et al. (1998). Mental health professionals’ attitudes toward
confidentiality, privilege, and third-party disclosure. Professional
Psychology 9: 458-459.
Keith-Spiegel,
P., Koocher, G. P. (1985). Ethics in psychology. Random House,
New York
Korchin
S.,(1977). Psicologia
Clinica Moderna, Borla, Roma,
Lidz
CW, Meisel A, Zerubavel E, Carter M, Sestak R and Roth LH (1984). Informed
Consent: A Study of Psychiatric Decision-making,
Guilford
Press,
New York
.
Menninger,
K., Holzman, P. (1973).
Theory of Psychoanalytic
Technique, Basic Books,
New York
,
Menninger,
K. (1958). Theory of psychoanalytic technique. Basic
Books,
New York
Montalto
B. (1984). Primi
lineamenti della responsabilità professionale degli psicoterapeuti ad
indirizzo psicoanalitico. in Riv.
It. Med. Leg., VI, pag. 1050-1069.
Morrison
K., Morrison JK., Holdridge-Crane
S. (1979). The child’s right to give informed consent to psychiatric
treatment . Journal
Clinical Child
Psychologic 8: 43-47
Nash,
J. L. and Cavenar, J.O. (1976). Free Psychotherapy: An inquiry into
resistance, American Journal of Psychiatry, 133, 1066-1069
Noll,
J. O. and Haugan, M. L. (1985). Informed consent to psychotherapy:
current practices at university-affiliated psychology training clinics.
Law and Psychology Review 9: 57-66.
Pope,
K. S., Tabachnick, B. G., & Keith-Spiegel, P. (1987). Ethics
of practice: The beliefs and behaviors of psychologists as therapists. American Psychologist,42, 993-1006
Pope,
K. S., Sonne, J. L., Holroyd, J. (1993). Sexual feelings in psychotherapy: Explorations for
therapists and therapists-in-training.
Washington
,
DC
: American Psychological Association
Pope
K., Vasquez Melba J.T., (1999). Ethics
in Psychotherapy and Counseling: Practical
Guide 3rd edition
Prosser,
W. (1971). The law of torts.
St. Paul
,
MN
: West
Sell,
Gottliebe, Schonfeld, Gottlieb, M.C., Sell, J.M. & Schoenfeld, L.S.
(1988) Social/romantic
relationships between present and former clients:
State licensing board actions.
Professional Psychology:
Research and Practice, 19, 459-462.
Sherlock,
R., Murphy, W. (1984). Confidentiality and therapy: An agency approach.
General Psychiatry, 25, 85-95.
Simon,
R. I., Sadoff, R.L. (1992). Psychiatric
Malpractice: Cases and Comments for Clinicians, Amer Psychiatric Press.,
105-110
Slovenko
R (1998). Psychotherapy and
Confidentiality: Testimonial Privileged Communication, Breach of
Confidentiality, and Reporting Duties.
Springfield
Ill.
: Charles C. Thomas Publisher, Ltd.
Swoboda,
J. S., Elwork, A., Sales, B. D., & Levine, D. (1978). Knowledge of and
compliance with privileged communication and child-abuse-reporting laws.
Professional Psychology, 9(3), 448-457.
Wright,
R. H. (1981). What to Do Until the Malpractice Lawyer Comes: A. Survivor's Manual. American
Psychologist. 36(12), 1535-1541
Weinberg
G., (1984). The Therapist-Patient
Relationship, Chapter 5 from The Heart of Psychotherapy, Basic
Books,
New York
Yufik
A., (2005.) Revisiting the
Tarasoff decision: Risk assessment and liability in clinical and forensic
practice, AM. Journal. Forensic
Psychologic, , 23/4 5-21
P
S I C T V
La Web Tv per la
Psicologia e La Psicoterapia |
|