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Quando è un professionista della salute a sbagliare: confini tra malpractice e negligenza nell’intervento dello psicologo clinico, un’indagine pilota.

 

Cirrincione Maria Concetta

 

 

Codice Deontologico ed etica professionale degli psicologi

Nella società italiana, soprattutto in questi ultimi decenni, il bisogno di conoscere ed utilizzare correttamente la Psicologia è apparso in costante aumento. Vi sono diversi dati oggettivi che potrebbero facilmente confermare questa affermazione: ad esempio, il numero dei Corsi di Laurea in Psicologia istituiti presso le Università italiane è aumentato dai due del 1979 ai diciassette del 1999, e, dato ad esso strettamente collegato, il numero degli studenti iscritti ad un Corso di Laurea in Psicologia nel nostro Paese è passato dalle poche migliaia dei primi anni ‘80 agli oltre 50.000 di oggi. Ma, soprattutto, la legge di Ordinamento n. 56 del 1989 ha sicuramente caratterizzato un periodo di profondo cambiamento nella “rappresentazione sociale” dello Psicologo, che da figura un po' misteriosa e spesso di incerta provenienza formativa quale era venti o trenta anni fa sta a poco a poco, anche grazie ad essa, acquistando uno “status” di “professionista” riconosciuto con alle spalle un percorso formativo di base costituito almeno da una Laurea universitaria specialistica, un tirocinio pratico annuale ad essa aggiuntivo ed un successivo Esame di Stato necessariamente sostenuto e superato. Parallelamente a tali innovazioni legislative e normative, quindi, la Società italiana nel suo complesso ha iniziato a guardare la Psicologia e gli Psicologi con occhi diversi. Così, gradualmente, questa disciplina scientifica è in un certo senso “uscita” dai laboratori di ricerca universitari e dai tutto sommato ristretti ambiti dei singoli studi professionali o delle grandi Aziende industriali o commerciali (nei quali, rispettivamente, già da alcuni decenni trovavano i propri punti di riferimento principali la Psicologia Clinica e la Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni, vale a dire le sue due Aree applicative della Psicologia tradizionalmente più sviluppate nel nostro Paese) ed ha iniziato a penetrare sempre più capillarmente nelle Istituzioni sanitarie, in quelle educative e scolastiche, in quelle penitenziarie, in quelle militari e così via. Ma tutto ciò, appare opportuno ribadirlo, soprattutto a seguito dell'istituzione dell'Albo professionale e dell'Ordine preposto a curarne la tenuta ed il continuo aggiornamento, e quindi all'inserimento a tutti gli effetti della professione di Psicologo tra quelle regolate da una Legge dello Stato e perciò obbligatoriamente dotata di precise regole deontologiche e comportamentali, oltre che di una base scientifica riconosciuta. Soltanto in tal modo, infatti, è risultato concretamente possibile tutelare il diritto dei Cittadini italiani a poter usufruire solo di Psicologi che, proprio in quanto vincolati a precise norme deontologiche, siano tenuti a garantire modalità socialmente accettate e condivise di erogazione delle proprie prestazioni professionali, nel senso sia del mantenimento nel tempo di adeguati livelli qualitativi della propria attività sia di un trattamento corretto ed onesto dei propri clienti. La parola “deontologia” è  abbastanza recente, essendo stata coniata dal filosofo J.Bentham (1748-1832) come titolo di una sua opera in cui svolse la teoria dei doveri. Oggi il termine, usato come sostantivo (“la deontologia”),è  utilizzato per indicare lo studio e l'elencazione di un particolare gruppo di doveri inerenti una determinata professione. Il termine etica è  più vasto di quello di deontologia, comprendendo non solo lo studio dei doveri, ma anche the study of the concepts involved in practical reasoning: good, right, duty, obligation, virtue, freedom, rationality, choice. (Blackburn S. 1994,). L'etica, cioè, si occupa delle scelte pratiche degli esseri umani, considerate come la risultante di un concorrere e confliggere di differenti beni, diritti, doveri, obbligazioni, cercando di dare basi razionali alle scelte che devono essere effettuate, o di mostrare le ragioni o la mancanza di ragioni di queste scelte. L'etica di conseguenza non è  direttamente interessata alle basi psicologiche del comportamento umano (anche se nell'antichità  greco-romana, e segnatamente nel pensiero aristotelico, considerazioni di tipo psicologico hanno avuto un ruolo importante). Tuttavia la domanda centrale a cui l'etica cerca di rispondere non è  quali siano le condizioni psicologiche in base alle quali si sceglie un bene piuttosto che un altro, ma se esistono fondamenti razionali al di là  delle preferenze psicologicamente determinate per scegliere un bene piuttosto che un altro. In tal senso l'etica, almeno cos’è  come si è andata configurando nella filosofia occidentale, è  impresa che necessita per fondarsi di mettere la psicologia tra parentesi. Il punto essenziale è  che il modo in cui gli individui costruiscono il loro mondo morale interno è  assolutamente irrilevante nel giudicare la validità  degli argomenti utilizzati per giustificare tale mondo morale, esattamente come i motivi psicologici per cui Newton enunciò le leggi della meccanica sono assolutamente irrilevanti nel giudicare la validità  di tali leggi. Non tutte le scelte sono naturalmente di pertinenza etica, lo sono piuttosto quelle che concernono ciò  che è  bene e ciò che è  male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Scegliere tra un gelato alla vaniglia ed uno al cioccolato può  essere, ad esempio, un'impresa ardua, ma non riguarda l'etica, quanto il gusto, cioè l'estetica. Al contrario scegliere tra dilapidare tutti i propri risparmi con le ballerine del tabarin o donarli, invece, al convento delle Sorelle del Divino Amore è una scelta etica, cioè  riguarda un giudizio morale attorno ciò  che è giusto che un essere umano faccia o non faccia. La deontologia, dunque, diviene una parte dell’Etica e  più precisamente l'Etica applicata alla pratica professionale. Secondo una definizione a mio avviso molto chiara ed efficace  che è tratta dal Codice deontologico del Collegio Nazionale dei Ragionieri e dei Periti Commerciali approvato il 15 ottobre 1983, si può definire la Deontologia come “l'insieme dei principi, delle regole e delle consuetudini che ogni gruppo professionale si dà e deve osservare, ed alle quali deve ispirarsi nell'esercizio della sua professione”. Una profonda conoscenza della propria specializzazione professionale è una condizione necessaria, dunque per gli psicologi e gli psicoterapeuti,se si vuole lavorare con onestà e competenza . Tuttavia, oggi, non è più sufficiente per un esercizio di tale specialità, è essenziale anche una conoscenza della legge. Definiamo come “Leggi” quelle norme ferme e costanti che si avverano nei fatti o che sono imposte dall'Autorità per determinare i diritti ed i doveri dei singoli appartenenti ad uno specifico gruppo sociale. Per il cosiddetto “Principio di Legalità”, il quale afferma che non vi sono “Nullum crimen nulla poèna sine lege scripta ”, si possono definire come “Norme Giuridiche” solo quelle Leggi scritte che sono stabilite dall'Autorità per determinare i diritti ed i doveri dei singoli appartenenti ad uno specifico gruppo sociale. Sulla base di tali precisazioni possiamo, inoltre, definire i “Codici” come quelle “raccolte organiche di norme giuridiche” ai quali un gruppo sociale affida la tutela del proprio sistema etico complessivo. Conseguentemente alle tre precedenti definizioni sopra riportate, appare ora possibile definire come “Norme Deontologiche” quelle Leggi scritte alle quali un gruppo professionale affida la tutela del proprio sistema etico complessivo. Da ciò discende che i “Codici Deontologici sono, più specificatamente, raccolte organiche di norme deontologiche alle quali un gruppo professionale affida la tutela del proprio sistema etico complessivo, e delle quali ogni Professione dovrebbe essere dotata al fine di poter concretamente salvaguardare e rendere operativi i principi etici da essa ritenuti fondamentali per lo svolgimento delle proprie attività. Possiamo quindi affermare che, in generale, un “Codice deontologico” è lo strumento, scritto e reso pubblico, che stabilisce e definisce le concrete regole di condotta che devono necessariamente essere rispettate nell'esercizio di una specifica attività professionale. Per quanto in particolare riguarda il Codice deontologico degli Psicologi italiani, esso è stato dapprima approvato dal Consiglio Nazionale dell'Ordine nell'adunanza del 27-28 giugno 1997, e quindi confermato con referendum dagli iscritti all'Ordine degli Psicologi in data 17 gennaio 1998. Nella stesura così approvata ed entrata in vigore, il Codice Deontologico degli Psicologi italiani è costituito da 42 articoli, suddivisi in cinque gruppi tra loro omogenei e riuniti quindi nei cinque seguenti “Capi”:

•  Capo I: “Principi generali”, comprendente 21 articoli (dall'1 al 21 compresi).

•  Capo II: “Rapporti con l'utenza e con la committenza”, comprendente 11 articoli (dal 22 al 32 compresi).

•  Capo III: “Rapporti con i colleghi”, comprendente 6 articoli (dal 33 al 38 compresi).

•  Capo IV: “Rapporti con la società”, comprendente 2 articoli (dal 39 al 40 compresi).

•  Capo V: “Norme di attuazione”, comprendente 2 articoli (dal 41 al 42 compresi).

Ad una prima ma un po' superficiale analisi, pertanto, il Codice Deontologico potrebbe essere ancor più semplicemente considerato come suddivisibile in tre parti complessive:

•  Una prima parte, introduttiva, di “principi generali” (Capo I);

•  Una parte centrale più sostanziale, applicativa, costituita dai Capi II, III e IV e comprendente quindi le norme rispettivamente regolanti i rapporti con l'utenza e la committenza, i colleghi e la società;

•  Una parte finale, il Capo V, costituita da due soli articoli aventi semplicemente il compito di definire le norme attuative del Codice, vale a dire la data della sua entrata in vigore (art.42) e gli indirizzi e gli strumenti per il suo aggiornamento (art.41). In realtà, ad un esame più profondo, è evidente che le cose non stanno affatto così. Si nota infatti immediatamente come anche il Capo I, che dal titolo potrebbe anche far ritenere di prendere in esame solo i principi generali alla base della deontologia comune a tutti gli Psicologi indipendentemente dai loro specifici settori di operatività, è già in realtà estremamente attento alla prassi quotidiana (sia essa clinica, di ricerca, di selezione, di sperimentazione e così via) e non può quindi essere affatto disgiunto né da quanto specificato nei tre Capi successivi né da quanto previsto dall'ultimo Capo. In altri termini, il Codice Deontologico degli Psicologi italiani è cioè da considerarsi come un “corpus” unico e sostanzialmente indivisibile, che cerca sin dall'inizio di affrontare il problema del rispetto dei principi giuridici ed etici che sono alla base del corretto esercizio della professione senza mai perdere di vista, nella loro enunciazione e specificazione, anche le varie modalità con le quali essi si propongono nell'esercizio concreto dell'attività professionale. Come ci spiegano Eugenio Calvi e Guglielmo Gulotta, nel loro testo “Il Codice Deontologico degli Psicologi commentato articolo per articolo” (Calvi E., Gulotta G.,  1999), sin dall'inizio dei lavori di stesura delle prime bozze del testo da parte dell'apposita Commissione di Lavoro del Consiglio Nazionale, sono state quattro le “finalità ispiratrici originarie” del Codice deontologico degli Psicologi italiani:

1) Tutela del cliente;

2) Tutela del singolo professionista nei confronti dei Colleghi;

3) Tutela del gruppo professionale complessivo degli Psicologi italiani;

4) Responsabilità degli Psicologi italiani nei confronti della Società.

Poi, nel corso della stesura del testo da parte dell'apposita Commissione e sino alla sua definitiva approvazione da parte del Consiglio Nazionale dell'Ordine, alle quattro “finalità ispiratrici originarie” si sono affiancati altrettanti “principi fondamentali” ai quali ogni Psicologo Italiano deve costantemente riferirsi nell'esercizio della propria attività, e che il testo del Codice Deontologico degli Psicologi italiani complessivamente sottolinea e ribadisce in modo particolare. Sempre secondo Calvi e Gulotta (op. cit.), essi sarebbero i seguenti:

•  Meritare la fiducia del cliente;

•  Possedere una competenza adeguata a rispondere alla domanda del cliente;

•  Usare con giustizia il proprio potere;

•  Difendere l'autonomia professionale.

I quattro suddetti “Principi generali” vengono inoltre ripresi da Calvi in un saggio successivo a quello in precedenza citato (Calvi E., 2000),descrivendoli in modo più approfondito:

•  “Meritare la fiducia del cliente” discende dalla concezione della professione come servizio, e comporta che il professionista può fare soltanto ciò che va a vantaggio del cliente (“qualsiasi cosa che sia a vantaggio dello stesso professionista, o di terzi, deve essere subordinata all'utilità che discende al cliente dall'intervento del professionista”).

•  “Possedere una competenza adeguata a rispondere alla domanda del cliente” comporta per il professionista, oltre alla necessità di formazione permanente, anche la capacità di autovalutazione delle proprie competenze, e quindi di essere consapevole dei limiti del proprio sapere e di rifiutarsi di svolgere attività per le quali non ci si sente adeguatamente preparati.

•  “Usare con giustizia il proprio potere” significa essenzialmente saper rispettare e favorire le capacità decisionali del cliente, avendo come bene supremo da rispettare oltre ogni altro il benessere e la salute psicofisica del cliente e di eventuali terzi.

•  “Difendere l'autonomia professionale” comporta il rifiuto di ogni ingerenza esterna al “corpus” professionale nel controllo dell'attività del professionista psicologo, in quanto tali ingerenze produrrebbero automaticamente un calo della fiducia che il cliente deve avere nei confronti dello psicologo a cui si è rivolto e, quindi, inevitabili scadimenti degli standard professionali.

Questi quattro principi o “imperativi” deontologici fondamentali per lo Psicologo italiano della fine del secondo millennio possono pertanto, proprio sulla base di queste ultime specificazioni di Calvi, essere rispettivamente definiti dalle seguenti quattro ancor più sintetiche formulazioni:

•  Onestà ed integrità;

•  Competenza;

•  Rispetto e tutela dell'altro;

•  Autonomia professionale.

Riassumendo, pertanto, appare a mio avviso sostenibile l'affermazione per la quale i fondamentali principi generali alla base dell'attuale codice deontologico degli psicologi italiani siano in realtà sei e non quattro, e che essi possano sinteticamente essere così definiti e descritti:

•  Rispetto della Persona Umana = Ascolto, Collaborazione, “Servizio” = Rispetto dell'Altro

•  Responsabilità = Individuale, Professionale, Sociale

•  Integrità = Onestà, Probità = Chiarezza, Franchezza, Lealtà professionale e personale

•  Autonomia Professionale = Costruzione di un proprio sistema di riferimento , Interdipendenza, Collaborazione = Identità

•  Competenza, nel senso di Possesso di conoscenze, Impegno, Flessibilità, Conoscenza di sé , e quindi di Consapevolezza ed Autoconsapevolezza insieme.

•  Promozione del benessere individuale e sociale = Tutela dell'Altro.

Infine, bisogna ricordare, che dopo dieci anni dalla sua approvazione, il Codice Deontologico degli Psicologi, è stato oggetto di revisione che ne ha modificato alcuni articoli: l’articolo 23 e l’articolo 40. Le modifiche al primo articolo, riguardano principalmente il compenso professionale dello psicologo. Si passa da una funzione prescrittivi della vecchia formulazione, con una definizione di tariffe minime e massime obbligatorie, ad una funzione di tutela della clientela dei professionisti attraverso la definizione di tariffe massime e l’abolizione di tariffe minime che si ritiene violino il principio di concorrenza. Per quanto riguarda il secondo articolo, lo psicologo non può procacciarsi la clientela, tuttavia può svolgere pubblicità informativa circa i titoli,  le specializzazioni professionali e il servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni. Le recenti modifiche hanno sottolineato come, ancor di più, il nostro Codice Deontologico, ponga sempre al centro il problema del rispetto dei principi giuridici ed etici che sono alla base del corretto esercizio della professione, tutelando innanzitutto il fruitore della prestazione.

Negligenza, cattiva pratica e responsabilità professionale

Una grande quantità di cause per cause per cattiva pratica (“malpractice”) contro i medici durante l’ultimo decennio, hanno sensibilizzato i professionisti di tutte le discipline collegate alla salute circa la necessità di una adeguata comprensione della struttura giuridica nella quale essi operano. I professionisti nel campo delle scienze comportamentali- compresi gli psicologi, gli psichiatri, gli assistenti sociali etc..- si sono resi conto della presumibile costellazione di fattori sociali che può renderli più vulnerabili che mai di fronte alle citazioni e ai reclami contro una cattiva pratica (Cohen e Mariano, 1982; Green e Cox, 1978). In linea di massima, tutti gli adulti hanno il dovere giuridico di comportarsi in modo che per lo meno corrisponda al modo in cui si comporterebbe ogni persona “normale e ragionevole” in circostanze uguali o simili. Se il comportamento non intenzionale di una persona è leggermente al di sotto dello standard di una “persona normale e ragionevole”, tale suo comportamento viene descritto come “negligente”. La negligenza viene formalmente descritta come una “condotta che cade sotto gli standard stabilità dalla legge per la protezione degli individui da un irragionevole rischio di danno” (Prosser, 1971 ). Le persone che agiscono nella loro veste professionale sono tenute a mantenere uno standard di comportamento ancora più alto di quello richiesto ad una persona qualunque. Se il comportamento del professionista ricade senza intenzione al di sotto di tale standard, si applica il termine di “cattiva pratica”: la cattiva pratica, cioè, si riferisce a negligenza nell’esecuzione dei propri doveri professionali (Clemmons P., 1997). Dorken (1990) ha sottolineato che i professionisti non sono garanti di buoni risultati: “I professionisti, compresi psicologi, medici, avvocati ed altri, non garantiscono un particolare risultato o una particolare cura. Ma una volta intrapreso il trattamento di un paziente, lo psicologo, allo stesso modo del medico o del chirurgo, è obbligato a condurre il suo esame e il trattamento in modo abile, competente e professionale. Lo psicologo offre il possesso di una abilità e di una conoscenza comunemente possedute dai membri di buona reputazione della professione di psicologo, e di conseguenza è responsabile per i danni o le lesioni inflitte e per non aver mantenuto i correnti standard professionali”. T. B. Karasu  (1990) sostiene che le responsabilità specifiche, che in una relazione  clinica possono configurare una situazione di malpractice, sono:

1) scorretta gestione del transfert

2) violazione del segreto professionale

3) non prevenzione di atti auto e/o eterolesivi

4) prassi inadeguata o scorretta

Per quanto riguarda il primo punto uno dei principali motivi di chiamata in causa dello psicoterapeuta è la eventualità di rapporti sessuali con il paziente. Questa negli USA, negli anni 1976-1986, è risultata come prima causa di azione legale nei confronti di psicologi e psicoterapeuti (Conte H.R:, Karasu T.B., 1990). Da statistiche, comunque relativamente attendibili data la delicatezza della situazione, risulterebbe che la media di rapporti sessuali all'interno di una relazione  clinica è di circa 6,5% dei casi totali. Media che è sovrapponibile a quella delle relazioni sessuali medico-paziente che avvengono nell'ambito di tutte le varie modalità di terapia medica. Questo dato sembra sfatare la credenza che i rapporti sessuali siano molto più frequenti in ambito  clinico. Piuttosto è da ritenere che la dinamica della relazione terapeutica (fiducia, potere del medico, passività del paziente, ecc.) possono favorire questa situazione. Nella terapia psicoanalitica esiste, ad esempio, un fenomeno da tutti conosciuto come quello del transfert. Il termine, derivato dal latino, significa letteralmente “trasporre” cioé  spostare qualcosa, compresi quindi anche i “rivissuti emozionali”,è  il processo con cui determinati desideri inconsci si riattualizzano nel presente su determinati oggetti nell'ambito di una relazione stabilita con essi, e soprattutto nell'ambito della relazione analitica. Il paziente scorge inconsapevolmente nell'analista un ritorno, una sorta di reincarnazione, di una persona importante della sua infanzia, del suo passato, e per questo trasferisce su di lui sentimenti e reazioni che spettavano a quel modello. Questa traslazione è ambivalente: essa comprende sia impostazioni positive ed affettuose sia negative ed ostili nei riguardi dell'analista. Quando però il transfert viene mal gestito  può essere veramente dannoso per un paziente. La relazione terapeutica dovrebbe avere come direttrici fiducia, bilanciamento di poteri e consenso: se il transfert viene usato come elemento per affermare l’ evidente posizione di preminenza del terapeuta , sfociando  in una relazione sessuale non diventa più accettabile. Ci sono comunque alcune idee circa l'eticità o meno di una relazione sessuale con il paziente che vanno esaminate. La prima, probabilmente risulta dall'ambigua dizione che è proibito avere rapporti  “durante la terapia”, fa sì che tale condotta venga ritenuta accettabile se si verifica al di fuori di una seduta terapeutica. La seconda è se il coinvolgimento sessuale al termine della terapia sia da considerarsi illegale. Intraprendere una relazione sessuale con un ex paziente è inappropriato, indipendentemente dal tempo che è passato dal termine della relazione terapeutica. Lo afferma – tra l’altro – l’edizione 2006 delle linee-guida Good Medical Practice licenziate dal General Medical Council (GMC) britannico. Nelle linee-guida si legge che la deontologia professionale vieta recisamente di avere relazioni sessuali con gli/le ex pazienti, ritenuti soggetti vulnerabili soprattutto se si tratta di pazienti con disturbi comportamentali. Un tema ampiamente dibattuto, nell’ultimo decennio,  è stato quello del segreto professionale e della confidenzialità  in ambito clinico. Il termine “confidenzialità” è  la traduzione dell'inglese confidentiality che esprime un concetto un po' più ampio di quello di segreto professionale. Il concetto di confidenzialità   implica dunque 1) la presenza di un' informazione riservata, 2) la comunicazione di questa informazione ad un soggetto, sotto vincolo che egli non la diffonda ad altri, se non dopo previa autorizzazione. La questione in psicologia e psicoterapia,  riguarda sia la natura dell'informazione (che può  essere più  delicata e “privata” che altre informazioni), sia il permesso che il detentore dell'informazione può accordare alla divulgazione. (Sherlock, R., Murphy, W., 1984). La teoria vuole che il clinico disponga delle informazioni ricevute dal paziente solo per il beneficio del paziente stesso e che non le comunichi a terzi, soprattutto quando queste possono danneggiare il paziente. Costituisce infatti esempio evidente di “malpractice”, con conseguenze anche penali, il divulgare senza “giusta causa” tali informazioni. Nello stesso Stato italiano, questo argomento attiene al diritto pubblico, in quanto il Codice penale qualifica come reato la violazione del segreto professionale, ribadendo con ciò la rilevanza sociale del diritto dei cittadini alla riservatezza di tutto ciò che riguarda la sfera di intimità della propria persona. L'art. 622 C . p. intitolato «Rivelazione di segreto professionale» recita: «Chiunque avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa.... Il delitto è punibile a querela della persona offesa». La successiva legislazione sulla «privacy», cioè la Legge n. 675 del 31-12-1996 «Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali» non ha apportato modifiche ai principi e alle norme sul segreto professionale fin qui visti, ma ha invece definito con rigore le modalità per il trattamento e l'anonimato dei dati personali, e particolarmente dei «dati sensibili» tra cui sono i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale (art. 22, L . 675/96), garantendo che il trattamento «si svolga nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità  delle persone fisiche, con particolare riferimento alla riservatezza e all'identità personale» (art. 1, L . 675/96). In questo senso diventa fondamentale il tema della “idonea informazione” nel rapporto paziente-psicologo dove il consenso informato diventa espressione del diritto di autodeterminazione in ordine a tutte le sfere ed ambiti in cui si manifesta la personalità dell’uomo. Un vero consenso informato richiede non solo che il cliente abbia compreso quale tipo di valutazione o di procedura gli si intende applicare, ma anche che egli comprenda le implicazioni e le probabili conseguenze di tali decisioni. Secondo Grisso (1986) i requisiti generali per poter dichiarare un consenso valido sono: 1) che l’individuo abbia la capacità di scegliere; 2) che l’individuo comprenda a cosa sta dando il suo consenso, come pure quali siano le alternative; 3) che il consenso sia volontario. Sfortunatamente, la ricerca ha dimostrato che, in pratica, un consenso informato viene ottenuto raramente (Lidz et alii, 1984). Il deficit informativo è ritenuto da giurisprudenza concorde, fonte di risarcimento danni in quanto il paziente è leso nella propria libertà di autodeterminazione. A questo punto, possiamo dire che l'area dei comportamenti relativi al segreto professionale è tutta quanta chiarita e risolta dalle norme sopra viste? Sicuramente no. Poiché la varietà e complessità delle situazioni concrete non permette una soluzione guidata a priori. Possono sorgere, ad ogni momento, opposizioni tra principi e valori divergenti, ugualmente difesi da norme giuridiche e deontologiche, difficilmente conciliabili. Un problema particolare si pone, ad esempio,  quando un paziente rivela al clinico nel corso del trattamento, delle intenzioni dichiaratamente ostili contro terze persone. Tali intenzioni, infatti, potrebbero trasformarsi in comportamenti eterolesivi e  lo psicologo potrebbe essere citato in giudizio per non aver preso le misure idonee a impedire l’atto. Allo stesso modo, i familiari di un paziente che commetta o tenti un suicidio, possono citare in giudizio lo psicologo, in quanto, se fossero stati al corrente del potenziale rischio del paziente, avrebbero potuto cercare di ostacolarne l’operato. Questo è ancora più valido nel caso che  il  clinico si renda conto che il paziente in terapia ha serie intenzioni di compiere azioni contro la vita di terzi. Ma a questo proposito molte sono le problematiche che si sollevano. Infatti fino a che punto lo psicologo può essere realmente in grado di prevedere dei comportamenti auto e/o eterolesivi? Di quali strumenti egli dispone per prevenire che essi si verifichino? Deve inoltre lo psicologo, nell'incertezza, intervenire ad ogni costo? Un’ altra  condizione eccezionale riguardante il dovere professionale verso una terza parte, fa riferimento alle situazioni in cui gli psicologi così come i medici, hanno l’obbligo per legge di denunciare alle autorità competenti la diagnosi di determinate malattie contagiose, i casi di abuso di minore e situazioni diagnostiche simili, che sono di interesse per la salute e la sicurezza del pubblico. Un caso emblematico di questo tipo, si ritrova nella storia di Tatiana Tarasoff. Questa donna morì per mano di Proenjit Poddar. Costui era in terapia da uno psicologo impiegato presso il Centro di Counseling della University of California ed aveva manifestato al terapista la sua intenzione di uccidere una persona, da lui non specificata, ma chiaramente identificabile (Tatiana). Come risultato della causa civile intentata dai genitori dell’uccisa, la Corte Suprema della California sentenziò che gli psicoterapisti hanno il dovere di avvisare di un eventuale pericolo terza persone; nelle parole testuali della Corte, “Il privilegio della protezione finisce dove inizia il pericolo per il pubblico”. (Yufik A.,2005).   Il metro di misura con cui il tribunale determina se un dovere giuridico sia stato o meno violato è definito lo standard di assistenza. (Furrow, 1980). Definire lo standard applicabile di assistenza nella professione di igiene mentale tende ad essere un compito non così semplice come appare in altre professioni. Detto in breve, il problema sta nel fatto che, se si chiede a due psicoterapeuti, anche di una stessa scuola, di dare la loro opinione su un determinato tipo di trattamento, si riceverà probabilmente due o più, opinioni diverse. Proprio per l'estrema complessità nello stabilire degli standard di cura oggettivamente valutabili, potrebbe essere utile, come suggerisce Montalto (1984),  tenere  “... una scheda biopsichica, nella quale dovrebbero essere annotati i dati più importanti relativi all'esame psichico effettuato prima dell'intervento terapeutico, i conseguenti tratti diagnostici nonché, gli elementi più essenziali della particolare metodica applicata. In tal. modo il medico stesso potrebbe cautelarsi da eventuali azioni legali che un paziente non soddisfatto dal tipo di cura ricevuta potrebbe intraprendere”. Una corretta diagnosi infatti non esime da una eventuale colpa, se a questa diagnosi non segue una prassi e un trattamento che sia corrispondente e scientificamente dimostrato essere utile o il più utile per quella particolare forma morbosa.

Obiettivo della ricerca

Lo psicologo non è attualmente  chiamato a praticare la propria professione in maniera totalmente libera o svincolata da parametri normativi, ma soprattutto non è ne potrebbe essere svincolato da parametri di carattere etico, deontologico e scientifico.  Il ruolo degli errori da “malpratica “viene messo sempre più in rilievo ed è accentuato dal crescente numero di contestazioni legali che occupano  il lavoro non solo dei medici, ma anche degli ,  psichiatri e psicologi, operatori sanitari e del sistema sanitario nel suo complesso. Fino alla fine degli anni ’70 le cause per cattiva pratica contro gli psicologi erano relativamente rare. Furrow (1980) ha sostenuto che, alla luce delle mutevoli aspettative del consumatore, la società è sempre più insoddisfatta dei prodotti e dei servizi e gli individui sono più consapevoli dei limiti della psicoterapia e sono quindi più propensi a ricorrere alla lite come mezzo per risolvere le proprie dispute. Hogan (1979) ha pubblicato una rassegna completa di tutte le cause per cattiva pratica intraprese contro terapisti, portati in giudizio fino a tutto il 1979. E’ questa l’unica ricerca approfondita, basata su dati oggettivi, sulle cause intentate contro la pratica psicoterapeutica. Sono stati raccolti e analizzati trecento casi concernenti cattiva pratica di psicoterapia nel trattamento, nella diagnosi, nella cura o in combinazione. Quasi i due terzi di tutte le denunce si erano avute in rapporto a servizi forniti in ospedali psichiatrici. Le cause contro professionisti privati riguardavano il 6,9 % dei casi e l’8,1% dei casi degli anni’70. Nello studio di Hogan le cause più comuni erano quelle di abuso fisico o sessuale, detenzione o dimissioni inadeguate, errata predizione di pericolosità e inadeguato controllo fisico, risultate in ferite accidentali. Hogan (1979) concluse che le “cause contro gli psicoterapisti, gli ospedali e altri enti o persone responsabili della diagnosi, del trattamento e della cura dei malati mentali erano aumentate in modo esponenziale”. Non esistono, ad oggi, nel nostro Paese studi sistematici che permettano una stima attendibile e neutrale della dimensione dell’errore in psicologia e dei costi della malpratica. L’obiettivo di questo lavoro è quello di  cercare di comprendere più approfonditamente il fenomeno di malpractice  partendo delle opinioni di un gruppo di psicologi operanti nell’ambito clinico. Si è quindi voluto  costatare quali siano per i professionisti i nodi dell’etica nella pratica psicologica.

Indagine pilota

Definendo come psicoterapia “ogni somministrazione intenzionale di tecniche psicologiche da parte di uno specialista, allo scopo di determinare modificazioni augurabili nella personalità o nel comportamento del paziente” (Korchin S.,1977), vediamo come la psicoterapia si fondi concettualmente ed operativamente nella psicologia clinica. E' questo un passaggio molto importante, che può essere riconosciuto come una conseguenza della legge 56/89, istitutiva della professione di psicologo in Italia.
Nella legge 56/89, ricordiamolo, l'art. 1 definisce la professione di psicologo, mentre l'art. 3 regolamenta l'accesso degli psicologi, assieme ai medici, all'esercizio della psicoterapia. Ragioni storiche e di tradizione della professione psicologica hanno creato, dunque,  le premesse per il perseguimento dell'abilitazione alla psicoterapia nella grande maggioranza degli psicologi italiani gravitanti entro l'area clinica.
La psicoterapia costituisce quindi una delle aree d'intervento della psicologia clinica, anche se non si esaurisce con essa. In questo senso ho scelto un  campione  costituito da 100 psicoterapeuti palermitani,  distinti per sesso e per età e occupati nel settore privato avvicinati casualmente durante alcuni Convegni, incontri e Congressi svoltisi a  Palermo tra gennaio  e  giugno 2007.

La sua struttura è riportata nella tabella 1.

Dopo aver richiesto il consenso informato,la ricerca  è proseguita con un’indagine quantitativa utilizzando come strumento di rilevazione un questionario adattato in italiano,(Pope, Tabachnick, & Keith-Spiegel, 1987)composto da una lista di 83 comportamenti che possono verificarsi nella realtà clinica. I professionisti psicologi dovevano rispondere in base al modo in cui si  sono comportati  nel momento in cui tali situazioni  sono accadute, ottenendo in tal modo un’immagine più pratica  di cosa si intende per etica professionale ed all’opposto per cattiva pratica.

Fase di studio

Soggetti

La tabella 1  riporta i dati relativi al campione preso in esame, distinto per sesso, età e orientamento terapeutico.

Tabella 1

 

Sesso

%

Maschi

46,1

Femmine

53,9

 

 

Età

19,1

< 35 anni

54,0

36 ai 50 anni

26,9

>50 anni

 

 

 

Orientamento

 

Psicodinamico

38,21

Cognitivista

30,88

Sistemico-relazionale

16,79

Comportamentista

9,92

Gestaltisti

4,20

 

Materiale

Lo strumento consiste in un questionario somministrato in forma anonima,  composto da 83 item a 6 e a 5 possibilità di risposta secondo una scala likert. A ciascun partecipante è stato chiesto di  valutare ciascuno  degli 83 comportamenti in base a due categorie. La prima fa riferimento alla liceità di un comportamento nella pratica clinica. Ogni soggetto doveva indicare se il comportamento fosse non applicabile nella pratica oppure se  gli era capitato di trovarsi in una situazione di malpratica utilizzando 5 possibili risposte: mai, raramente, qualche volta, spesso, molto spesso. La seconda categoria riguarda l’eticità di un comportamento. Anche in questo caso gli 83 comportamenti erano valutati singolarmente dai partecipanti, segnalando se fossero etici o meno attraverso 5 possibilità di risposta: discutibile, etico solo in certe circostanze, non sono sicuro, etico  in diverse circostanze, etico in modo indiscutibile.

Descrizione del questionario

La tabella 2 descrive la struttura del questionario. Nella prima colonna è riportato il numero d’ordine dell’item, la seconda colonna contiene il testo letterale dell’item e la terza colonna riporta la percentuale di risposte dei soggetti appartenenti al campione, per ciascuno degli 83  item del questionario.

Leggenda: E’ mai capitato nella pratica clinica?1= mai, 2= raramente, 3= qualche volta, 4= spesso, 5= molto spesso, 6= non applicabile

Eticità del comportamento 1= discutibile, 2= etico solo in certe circostanze 4= non sono sicuro, 5= etico in diverse circostanze, 6= etico in modo indiscutibile

Tabella 2

 

                                                    E’ mai capitato nella pratica clinica?%      Eticità del comportam%

Item

 

1

2

3

4

5

NA

1

2

3

4

5

1. 

Diventare amico di un cliente

43,1

20,8

19,2

6,5

6,5

4

5,77

53,82

15,79

23,86

0,76

2.

Prendersi cura di un cliente gratuitamente

3,2

3,1

8,1

26,3

58,4

0,9

7,29

38,81

12,93

29,17

11,8

3.

Fare terapia ad un proprio amico

47,2

19,7

18,2

5,7

5

4,2

64,9

20,53

2,98

7,2

4,39

4.

Farsi pubblicità sui giornali o attraverso i media

48,2

22,2

17

4,3

4,1

4,1

9,44

10,61

10,38

37,75

31,82

5.

Selezionare gli appunti dei  trattamenti in base a nome, data e onorari

45,2

23,1

15,2

7,3

6,9

5,4

17,13

51,38

14,39

13,68

3,42

6.

Mettere da parte una rimostranza riguardo un atteggiamento poco etico nei confronti di un collega

42,9

22,6

18,8

6,7

4,8

4,2

1,86

11,56

5,09

22,21

59,28

7.

Domandare al cliente se si è arrabbiati con lui o lei

12,7

44,6

20

9,3

7,9

5,6

10,06

30,29

10,01

39,64

9,91

8.

Interpretare un test tramite il computer

40,7

20,4

16,5

11,3

7,2

3,9

7,83

11,45

12,35

31,31

37,06

9.

Abbracciare un cliente

16,2

42,6

25,8

6,4

5,3

3,7

0,6

24,09

5,87

53,04

16,04

10.

Concludere una terapia se il cliente non può pagare

7,4

9,5

17,1

19

41

6

15,33

20,32

13,28

45,99

5,08

11.

Accettare una terapia mentendo al cliente sull’onorario

44,7

24,5

12,4

9,9

4,2

4,2

28,29

39,52

13,17

11,95

7,07

12.

Cercare di coinvolgere un altro membro della famiglia del cliente, senza il suo consenso

47,1

26,1

13

5,7

5,4

2,7

28,34

42,05

10,51

9,66

9,44

13.

Tenere i risultati dei test di un cliente nella propria casa

42,3

22,3

13,7

11,7

6,3

3,7

13,67

47,9

17,98

15,96

4,49

14.

Alterare una diagnosi per confermare un propria ipotesi

39,2

26,9

14,7

10

6,3

2,9

52,72

24,19

16,64

5,91

0,54

15.

Dire al cliente “Io sono sessualmente attratto da te”

49,1

21

14,4

6,6

5,2

3,7

59,21

22,24

11,61

5,1

1,84

16.

Rifiutarsi di permettere ai clienti di leggere gli appunti che li riguardano

42,6

26,2

12,3

8,5

6,2

4,2

11,8

38,81

7,29

29,17

12,93

17.

Farsi pagare al di sotto delle tabelle minime dettate dal codice degli psicologi

8,9

4,3

42,1

27,8

12,6

4,3

6,7

7,97

13,05

52,19

20,09

18.

Rompere il segreto professionale se il cliente è un omicida

8,9

3,1

24,2

48,3

11,2

4,3

2,32

9,77

4,8

21,52

61,59

19.

Fornire una consulenza forense senza farsi pagare

43,4

19,2

18

7,2

6,4

5,8

39,05

11,86

28,86

7,21

13,02

20.

Utilizzare la propria vita personale come tecnica di terapia

9,1

40,4

23,7

17

5,9

3,9

9,16

10,77

9,49

43,09

27,49

21.

Invitare  il cliente a casa propria

39,5

13

9,7

7,5

4,8

25,5

36,74

31,7

12,25

11,38

7,93

22.

Accettare i regali dei clienti

37,4

20,7

7,8

7,8

7

19,3

34,91

33,95

11,64

11,01

8,49

23.

Lavorare in situazione di eccessivo stress

20,7

37,4

19,3

7,8

7,8

7

41,95

25,3

13,98

12,45

6,32

24.

Accettare i clienti solo in base al genere

54,2

17,1

16

5,6

3,8

3,3

7,72

8,6

12,11

23,15

48,42

25.

Non permettere ai clienti di accedere ai verbali dei test

41,1

25,4

14,3

10,2

4,9

4,1

27,2

24,6

14,6

21,7

12

26.

Alzare l’onorario durante il corso della terapia

20,3

43,1

18,1

6,5

6,5

5,6

35,2

 33,6

11,73

11,07

8,4

27.

Rompere il segreto professionale se il cliente vuole tentare il suicidio

20,2

7,4

8,7

39,8

17,4

6,5

1,76

11,94

5,15

22,36

58,79

28.

Non permettere ai clienti di avere accesso ai punteggi grezzi dei test

31

22,2

19,8

13,1

  5,4

8,5

  8,8

15,94

17,73

23,91

33,62

29.

Permettere al cliente di non saldare un conto aperto

15,1

34,2

21,6

13,7

9,9

5,5

5,21

38,3

22,51

21,66

12,32

30.

Accettare altri beni (piuttosto che denaro) come pagamento

37,1

23,8

17,7

10,1

6,3

5,1

12,78

37,7

27,19

14,29

8,04

31.

Utilizzare surrogati sessuali con i clienti

40,6

26,4

14,8

8,2

6,4

3,7

45,26

16,55

15,05

14,92

8,22

32.

Rompere il segreto professionale se il cliente riferisce  di avere abusato di un bambino

5,5

15,1

7,8

24,5

44,22

2,9

2,95

4,41

7,32

20,57

64,75

33.

Invitare il cliente ad una festa o a mangiare fuori

43

22,4

8

7,8

5,8

13

50,92

24,73

18,04

5,14

1,18

34.

Chiamare il cliente per nome

4,1

4,9

9

11,5

26

44,6

3,12

4,3

6,64

20,31

65,63

35.

Piangere in presenza di un cliente

38,3

21,3

18,6

7,9

7

6,8

6,97

37,23

9,31

20,93

25,56

36.

Guadagnare lo stipendio attraverso una percentuale di consulenze gratuite

35,6

9,9

11,1

12,8

25,1

5,6

9,61

6,79

38,43

27,11

18,06

37.

Chiedere favori (per es essere accompagnati a casa) dai clienti

29,7

20,1

19,3

13,3

10

7,6

29,86

45,47

18,39

5,19

1,09

38.

Fornire una consulenza su una custodia, senza neanche avere visto il bambino in questione

44,6

15,5

5,9

5,1

5,1

23,8

64,09

20,77

7,32

4,41

2,95

39.

Accettare la decisione del cliente edi commettere un suicidio

41,2

21,5

7,2

6,6

6,4

16,9

40,26

36,30

14,74

5,01

3,69

40.

Rifiutarsi di comunicare la diagnosi ad un paziente.

37,2

28,3

19,1

7,5

4,1

3,9

27,75

41,87

15,13

10,47

4,78

41.

Portare in un gruppo di terapia una persona nuda per “far crescere” il gruppo.

28,4

18,8

13,5

13,7

3,7

21,9

59,38

21,19

11,48

5,08

2,87

42.

Chiedere al cliente il motivo per cui ha disdetto l’appuntamento

41,3

20,2

16,4

8

5,9

8,2

25,68

37,32

15,85

11,82

9,33

43.

Parlare dei clienti (senza fare nomi) coni propri amici

25,4

43,6

14

5,9

4,9

6,3

30,33

35,79

24,2

6,55

3,13

44.

Fare terapia ad uno studente 

32,7

32,1

7,5

3,6

2,2

21,8

43,68

35,35

6,33

11,32

3,32

45.

Ricambiare attraverso regali l’inviante

34,9

29,5

11,3

4,2

3,8

16,2

41,91

24,12

18,86

10,09

5,02

46.

Trascurare  conti non pagati e poi intentare una causa al cliente

35,5

32,9

6,9

2,9

2,2

19,6

10,37

37,16

18,34

19,84

14,29

47.

Intrattenere una relazione sessuale con un cliente

57,6

30,1

7,3

2,1

2,9

17,4

53,04

19,99

 

17,27

 

5,96

3,74

48.

Evitare certi clienti per paura di avere fatto la corte

47,3

22,5

16,9

3,9

3,7

5,6

93,1

3,66

1,98

0,77

0,49

49.

Fornire una consulenza su una custodia, senza neanche avere visto i genitori del  bambino in questione

36,4

18,3

9,6

7,9

6,7

21,1

47,83

30,01

12,17

6,95

3,04

50.

Farsi prestare dei soldi da un cliente

41,7

23,5

11,7

5,9

4,7

12,5

40,88

38,64

12,12

5,28

3,08

51.

Fare terapia ad un collega

43,8

15,1

10,1

3,8

5,2

22

55,08

25,48

11,81

4,02

3,61

52.

Prendere in terapia un cliente perchè “raccomandato”

39,5

28

16,1

5,2

2,5

8,6

2,64

4,6

6,51

23,04

63,21

53.

Mandare cartoline di auguri ai propri clienti

33,2

33

16,2

4,5

3,4

9,7

10,63

15,66

25,15

21,17

26,85

54.

Baciare un cliente

40,5

33,7

8,1

3,2

2,4

12,1

48,34

36,87

4,66

6,72

3,41

55.

Intrattenere un’attività erotica con un cliente

44,6

35,6

14,4

1,3

4,7

16,2

10,1

3,66

2,77

1,98

1,49

56.

Invadere la privacy di un cliente

39,3

17

8,7

5,9

5,1

24,1

69,12

16,53

6,53

4,98

2,84

57.

Accettare l’invito di un cliente ad una festa

43,6

18,6

11

5

4,3

17,6

24,53

46,85

10,43

10,15

8,04

58.

Aggressione o addirittura percosse ad un cliente

36,7

20,3

18,5

8,7

6,1

9,7

85,76

10,19

2,83

1,04

0,18

59.

Fare dei colloqui con un minorenne senza il consenso dei genitori

25,8

37,2

15,7

10,6

 6,9

3,9

4,84

34,24

13,81

28,76

18,35

60.

Violazione del diritto ad un consenso informato

35,1

21,1

15,8

9,7

7,3

1,1

84,02

7,5

4,15

3,54

0,79

61.

Avere diffamato un cliente

46,7

27,1

10,2

10

2,1

4

77,71

10,61

5,05

4,88

1,68  

62.

Avere un contatto sessuale con un cliente

50,4

27,5

18,1

1,6

2,4

12,2

68,20

11,4

10,14

 

6,74

 

 

3,52

 

63.

Richiedere   un ricovero in ospedale non necessario 

18,8

45,6

9,3

7,1

4,8

14,5

4,70

28,10

8,73

20,56

38,91

64.

Dire bravo ad un cliente

35

33,8

11,9

10

5,5

3,7

71,54

18,89

4,74

3,37

1,46

65.

Farsi pubblicità personale sulle radio, in tv

36,7

34,6

7,7

3,7

1,4

15,9

15,71

28,19

20,59

26,81

8,70

66.

Trattamento terapeutico inadeguato

19,5

21,7

45,1

4,3

3,9

5,5

17,12

0,55

19,80

20,33

33,20

67.

Svelare non intenzionalmente dati confidenziali

29,7

37,5

8,4

5,5

5,1

13,7

75,79

14,45

4,52

3,39

2,85

68.

Fare spogliare un cliente

45,1

21,2

8,5

8,3

3,7

13,1

81,44

10,36

3,78

2,48

1,94

69.

Richiedere un prestito da un cliente

46,8

23,8

14,4

6,6

4,3

4,1

2,81

86,56

10,14

1,39

0,1

70.

Discutere con i propri amici di un cliente dicendo il nome

42,1

26,3

14,8

6,5

2,8

7,5

94,66

3,00

1,75

0,30

0,29

71.

Fornire trattamenti al di fuori delle proprie aree di competenza

44

26

11,1

6,1

3,6

9,2

80,50

16,00

2,00

0,87

0,63

72.

Seguire una supervisione senza farsi pagare

40,5

27,1

12,5

9,1

3

7,8

92,46

6,00

1,00

0,42

0,12

73.

Trattare l’omosessualità come patologia

37,9

27,4

10,9

10,7

4,5

8,5

55,51

20,78

16,22

6,93

4,56

74.

Fare terapia sotto l’influenza dell’alcool

38,8

18,3

18,9

8,3

5,7

10

89,76

5,00

3,43

1,75

0,06

75.

Fare una fantasia sessuale su un cliente

25,5

39,5

15,4

10,1

5,5

4

18,87

15,25

26,02

13,88

25,98

76.

Effettuare una diagnosi impropria

24,8

38

12,8

11

4,3

9,1

7,38

20,52

17,08

34,48

20,54

77.

Offrire o accettare una stretta di mano da un cliente

26

36,4

15,1

9,3

9,3

3,9

0,06

1,35

3,68

31,98

72,93

78.

Spogliarsi in presenza di un cliente

41,9

30,9

9,3

7,2

2,5

8,2

94,84

3,00

1,50

0,45

0,21

79.

Dimenticarsi di un appuntamento 

9,3

41,9

30,9

2,5

8,2

7,2

2,21

6,14

7,55

38,65

45,45

80.

Fare affari con un cliente

52,6

20,4

2,1

1,9

0,2

22,8

36,39

28,38

16,40

13,61

5,22

81.

Sollecitare direttamente un cliente ad venire da voi

28,5

37

11,1

6,1

4

13,2

67,44

22,86

5,43

2,57

1,7

82.

Essere sessualmente attratto da un cliente

19,5

55

21,9

2

0,2

1,4

8,41

12,85

21,41

18,74

38,59

83.

Indurre i clienti ad esprimere le loro lamentele verso i colleghi terapeuti.

70,8

10,2

5

1,6

1,2

11,2

6,53

22,14

14,33

31,45

25,55

Procedura

Risultati

Rispetto alle variabili relative al sesso dei partecipanti e all’età sono state rilevate relazioni statisticamente  significative (p< 0,01), confermando i dati della letteratura esistente (Pope, Tabachnick, & Keith-Spiegel, 1987).

Per quanto riguarda il sesso, degli 83 comportamenti presi in esame, 30 sono stati selezionati per esaminarne la differenza rispetto al genere usando come criterio di analisi il chi quadro.

I risultati dimostrano che in alcuni item c’è una netta prevalenza del genere maschile e in altri di quello femminile. Era più probabile per gli uomini che per le donne, fare fantasie sessuali sui propri clienti (80% contro 20% rispettivamente ) χ²= 53.11. Una larga proporzione di uomini rispetto alle donne aveva provato attrazione sessuale nei confronti di un cliente (75% contro il 25% rispettivamente) χ²= 40.61

Diversamente le donne sembrano più orientate verso comportamenti quali manifestazioni di affetto verso un cliente come ad esempio abbracciarlo (60%) rispetto agli uomini (40%) χ²= 25.63 o baciare un cliente (55%) rispetto agli uomini (45%) χ²= 21.97

Per quanto concerne l’età, anche in questo caso 20 comportamenti degli 85 item, sono stati selezionati a priori, utilizzando come criterio  il chi quadro.

I dati  ricavati  mostrano come gli psicologi con un età maggiore di 50 anni sono più inclini ad “errori” legati all’identificazione con i loro clienti. Essi spesso sono così  assorbiti dalla pratica,  che vivono il lavoro e i clienti come missione, famiglia, casa e destino. In questo senso i terapeuti più maturi sono portati ad avere rapporti di amicizia con i clienti (60%) rispetto a quelli tra i 36 e i 50 anni (25%) e quelli al di sotto dei 36 anni (15%) χ²= 21.12

Gli psicoterapeuti più giovani tendono sono più disponibili ad aiutare senza considerazione dell’onorario, fornendo consulenze anche forensi gratuite o facendosi pagare al di sotto del tariffario minimo (50%) rispetto ai professionisti tra i 36 e i 50 anni (34%) e a quelli sopra i 50 anni (16%) χ²= 27.28 

Sull’insieme dei dati raccolti, desunti dal questionario,  è stata condotta un’analisi fattoriale col metodo delle componenti principali e  con rotazione Varimax dei fattori  estratti. Si è scelto di estrarre quattro fattori che spiegano il 69,24% della varianza totale.

Fattore 1 (30,51%): Onorari (item n° 2,10,11,17,19,26,29,36,46,72)

Fattore 2 (15,99%): Valutazione e riservatezza  (item n° 18,27,32,43,56,67,70)

Fattore 3 (12,39%): Adeguato consenso al trattamento (item n° 12,16,25,59,60, 28,40)

Fattore 4 (10,35%) : Contatti sessuali tra terapeuta e paziente (item n° 31, 47, 55, 62) 

Il primo fattore ha cercato di esaminare una delle denunce più frequenti di cattiva pratica professionale, ovvero la richiesta di onorari. Il pagamento degli onorari può essere considerato come una vera e propria personificazione dell’aspetto transazionale della psicoterapia, rappresenta una forma di scambio o di baratto che costituiscono il nucleo del processo relativo al trattamento. Freud(1913) pensava, ad esempio, che gli onorari fossero fondamentali per l’analista, essendo un mezzo per preservare se stessi e darsi sicurezza. Altri studiosi (Menninger e Holtzmann, 1973 ) hanno sottolineato il fatto che gli onorari sono una parte necessaria e intrinseca del processo relativo al trattamento. Per questo motivo, il modo in cui il terapeuta gestisce o non gestisce la questione onorati può avere effetti profondi sulla terapia stessa. Determinati comportamenti legati al compenso del terapeuta possono essere giudicati come indiscutibilmente scorretti e altri più connessi all’inesperienza del clinico. Alzare l’aumento dell’onorario per alcuni terapeuti  può risultare una pratica errata, soprattutto una volta che è sta decisa una determinata tariffa. Altri pensano, al contrario, credono che i terapeuti, come i barbieri, gli editori e i pediatri, siano autorizzati ad aumentare i propri onorari appena aumentano le spese. Il presente studio ha dimostrato come per il 63, 4% dei partecipanti pensano che una volta iniziata la terapia le tariffe non debbano essere aumentate ( al 20,3% dei  soggetti  non è mai successo e al 43,1% raramente). Solo il 6,5% lo usa  fare molto spesso e il 18,1% spesso. E’ tipico che una denuncia relativa agli onorari si verifiche quando il professionista permette che si accumulino molte parcelle non pagate e quando ha concluso la sua opera con un cliente, cerchi di riscuotere un conto che è divenuto molto rilevante. Nel suddetto studio l’accumulo degli onorari è attuato solamente dal 2,9% in modo frequente e dal 2,2% molto frequentemente. Permettere al cliente di non saldare un conto, invece, si verifica più spesso: il 9,9% lo fa sovente e il 13,7% spesso. Scondo Wright (1981)  “denunce di cattiva pratica professionale si vedono raramente in un contesto nel quale gli onorari risultino chiaramente strutturati o siano gestiti come un dato importante del rapporto professionale”. Diverso è il discorso di prendere in carico un paziente gratuitamente. Come sottolineato precedentemente, questo avviene solitamente nei terapeuti più giovani e inesperti. Freud (1908) si schierava contro le terapie gratuite, sia perché ciò implica un grande costo all’analista che perde parte delle sue entrate, sia perché questi trattamenti aumentano il livello di resistenza da parte dei pazienti che non sono stimolati al miglioramento. Menninger (1958) ha  evidenziato che il pagamento degli onorari deve comportare un sacrificio per il paziente, perché il processo terapeutico sia significativo. Nash e Cavenar (1976)  hanno riscontrato, in uno studio di cinque casi, che il trattamento gratuito tende ad interferire con il progresso terapeutico. Gli autori hanno considerato il fatto che i loro pazienti potevano avere dei  sensi di colpa per i miglioramenti ottenuti in terapia e hanno anche riscontrato l’insorgere di questioni particolari con pazienti con gravi problemi di identità sessuale, i quali tendevano a presupporre che l’analista volesse favori sessuali in cambio di un onorario ridotto.  Slovenko (1998) ha  considerato che gli onorati possono riflettere l’autostima del terapeuta, e che una parcella inadeguata può denigrare sia il terapeuta che il paziente. La mia indagine ha rilevato come  più dell’8’% dei terapeuti è disposto a seguire un cliente gratuitamente e il 29,7% lo considera un comportamento etico attuabile in diverse circostanze. Anche farsi pagare al di sotto del tariffario minimo è abbastanza sovente. Il 27,8% lo fa spesso e il 12,6 molto spesso e il 52,19% lo considera etico in diversi casi. Il numero di terapeuti che effettuano consulenze gratuite è leggermente inferiore: 25,1% molto frequentemente e il 12,8% frequentemente. Il motivo della difficoltà nel gestire le risorse economiche da parte di alcuni terapeuti potrebbe risiedere proprio nel loro specifico ruolo e ai pregiudizi ad esso connessi. Gli psicoterapeuti sono diversi da altri professionisti quali i medici o gli avvocati, la cui “cupidigia” è stata oggi “accettata” dalla persona comune. Come il sacerdote, il terapeuta viene invece considerato come colui che ha avuto una chiamata spirituale e, come tale, si suppone che sia sempre disponibile ad aiutare, senza considerazione dell’onorario e della convenienza personale. Questo gli causa molti problemi poiché si sente investito da un senso di colpa quando chiede un onorario. Weinberg (1984)  indica due cause tipiche che insieme contribuiscono al mancato pagamento da parte dei clienti. La prima è una sovra-identificazione con il cliente stesso; i praticanti che si sovra-identificano trovano difficile richiedere una parcella alle persone che manifestano sofferenze o particolari difficoltà. La seconda causa è un atteggiamento ancora più inconscio e disabilitante verso la pratica. Questi liberi professionisti sono pervasi da un sentimento di inadeguatezza e perdita di fede nel metodo psicoterapeutico. Weinberg rileva che quando i terapeuti dicono che il “denaro non è importante” è come se dicessero che essi non meritano di essere pagati. Il  secondo  fattore fa riferimento alla riservatezza delle informazioni acquisite nel contesto della terapia. Questo problema per i professionisti dell’igiene mentale, insorge ogni qualvolta un cliente inizia il trattamento; ogni qualvolta sia in ballo un omicidio, un suicidio o un abuso di un minore; ed ogni qualvolta che si riceva una telefonata da un familiare del paziente o da una compagnia di assicurazioni che chiedono informazioni. Non deve sorprendere che la riservatezza sia stata oggetto di considerazione persino nei primi anni dell’intervento psico-terapeutico. Freud, per esempio, si dibatte con questo problema quando discute i suoi casi: “Se le distorsioni (di materiale importante) sono lievi, esse falliscono il loro scopo per proteggere il paziente dalla curiosità indiscreta, se vanno troppo oltre, esse richiedono un sacrificio troppo grande…E’ più facile divulgare i più intimi segreti del paziente piuttosto che fatti più  innocenti e irrilevanti su di lui, poiché, mentre i primi non getterebbero alcuna luce sulla sua identità, i secondi consentirebbero a chiunque di riconoscerlo” (Freud, 1963). I professionisti che lavorano nel campo dell’igiene mentale sono stati criticati per il fatto di possedere una conoscenza meno adeguata dei loro obblighi deontologici e giuridici (Keith-Spiegel, 1985). Sfortunatamente l’evidenza pratica, almeno fino ad un trentennio fa, dimostrava la correttezza di questo giudizio. Swoboda e colleghi  (1978)  hanno riferito che una significativa proporzione di psicologi, psichiatri e assistenti sociali ignoravano le leggi relative al segreto professionale. Oggi, per fortuna, le cose sono cambiate. Jagim e colleghi  (1998) hanno riscontrato che tutti i professionisti del settore ( psicologi, psichiatri e assistenti sociali) concordavano sul fatto che la riservatezza fosse un aspetto fondamentale del rapporto terapeutico.. Il 98% dei professionisti considerava la riservatezza come essenziale al mantenimento di un rapporto terapeutico funzionale. Inoltre il 98% riteneva che fosse un obbligo morale mantenere confidenziali le informazioni relative ad un paziente. Tuttavia Jagim e colleghi hanno trovato che una maggioranza degli intervistati avrebbe “violato” la riservatezza in determinate circostanze (per esempio, pericolo per una terza parte e/o richieste delle leggi di rivelare l’informazione).. In questa ricerca sembra che ci sia massimo accordo nel riconoscere l’importanza deontologica del vincolo al segreto professionale e del ruolo del consenso informato. Solo il 4,9% dei partecipanti ha parlato di un cliente ai propri amici senza fare il nome e il 2,8% fecendone il nome, il 5,1% ha svelato non intenzionalmente dati confidenziali e solamente il 3,9% non avevano ottenuto da un cliente il consenso informato e avevano eseguito comunque una procedura di valutazione.  Si deve perciò proteggere la segretezza della comunicazione del cliente. L’obbligo al mantenimento del segreto professionale pare possa però decadere in presenza di valido o dimostrabile consenso del paziente o nel caso in cui vi sia pericolo per la vita e la salute di terzi. Il 39,8% dei campione prescelto riporta di avere rotto il segreto professionale in caso di suicidio, il 44,2% in caso di abusi su un minore e il 48,3% in caso di omicidio. Bisogna considerare comunque un fattore importante nel discutere il tema della riservatezza. A differenza dei praticanti di altre professioni- per esempio dei poliziotti- gli psicologi non hanno un codice standard di procedure e chiare limitazioni per trattare certe situazioni difficili. Noi ci dobbiamo accontentare delle nostre risorse per affrontare situazioni critiche o tutt’al più ci può venire in aiuto la supervisione fatta da un collega o da un nostro maestro. Il terzo fattore indaga gli aspetti connessi al tema del consenso informato. il Consenso Informato rappresenta l'opportunità, e anzi il diritto assoluto, per ogni utente-cliente di essere informato, nel modo più completo, chiaro, onesto, reale e costante, sui trattamenti cui viene sottoposto dal professionista così da poter acconsentire in piena coscienza, nel suo interesse e per il suo bene, ai trattamenti stessi. (Noll, J. O., Haugan, M. L. 1985). Per poter esprimere o negare il proprio consenso occorre essere opportunamente informati sulla questione in oggetto. Il compito di informare il paziente in modo chiaro e comprensibile spetta allo psicologo. Egli dovrà spiegare al paziente tutti gli aspetti principali del trattamento proposto, in particolare diagnosi, caratteristiche del trattamento, durata, rischi, benefici, costo, etc. Alcuni studi (Morrison, Morrison, & Holdridge-Crane, 1979; Pope & Vasquez, 1999,)hanno dimostrato che  dati quali i punteggi dei test, le relazioni, le cartelle cliniche e tutta la documentazione relativa ad un paziente possono interferire nella decisione del paziente di iniziare o proseguire un determinato trattamento. Simon e Sadoff (1992) esaminando un gruppo di 30 pazienti psichiatrici, trovarono che il 95% risultava contrariato al pensiero che le informazioni contenute nelle loro cartelle cliniche potessero essere rilasciate automaticamente ad estranei; l’80% dei pazienti disse che un’assicurazione di riservatezza migliorava il loro rapporto con il personale; il 67% disse che si sarebbe risentito o sarebbe stato contrariato se le informazioni fossero rilasciate senza il loro permesso, ed il 17% disse che, nel caso le informazioni su di loro fossero rilasciate senza il loro permesso, essi avrebbero interrotto il trattamento. Durante la mia ricerca ho potuto costatare come  circa ¼ dei partecipanti  avevano iniziato una terapia con un minorenne senza chiedere il consenso ai genitori. Per il 10,6% avveniva piuttosto raramente, per il 3,9% più frequentemente. Tuttavia, la maggior parte degli intervistati concorda nel ritenere giusto e doveroso informare il paziente di tutta la documentazione che gli riguarda.Un quinto dei partecipanti crede che sia scorretto rifiutarsi di comunicare la diagnosi (27,75%) o di rivelare i risultati dei test (27,2%). Pochi soggetti rifiutano di far leggere ai clienti le proprie cartelle o appunti che li riguardano (6,2%) o credono che negare al paziente l’accesso ai punteggi grezzi dei test non sia etico (8,8%). Solamente il 4,1% dei partecipanti si rifiuta di comunicare la diagnosi ad un paziente, il 4,9% non permette di accedere ai risultati dei test e il 6,2% nega al paziente informazioni circa le proprie cartelle cliniche o a leggere gli appunti che lo riguardano. Nel complesso si può affermare che lo psicologo riconosce i diritti del paziente a conoscere ciò che gli appartiene ed a utilizzare in qualunque procedura valutativa il consenso informato. Infine l’ultimo fattore  ha teso ad indagare le tematiche relative  alle relazioni sessuali tra terapeuta e paziente. Denunce di abuso sessuale sono relativamente frequenti e costituiscono una delle basi di cause ai terapisti che hanno maggior successo. Halroyd e Brodsky (1977) hanno riscontrato che il 5,5% degli psicologi maschi e lo 0,6% delle psicologhe femmine ammettono di avere avuto rapporti sessuali con i propri clienti. Studi recenti (Pope,Sonne, e Holroyd, 1993)  hanno,  al contrario, indicato un decremento della percentuale di psicologi che intrattiene relazioni sessuali con i pazienti. In realtà  i terapeuti implicati in denunce di abuso sessuale sarebbero meno numerosi di quanto si crede. (Pope,1994, 2000)  La nascita di questo “mito” secondo  Herbert (2004)  è legata al rapporto dei media con il diritto nonché alla maggiore istruzione e conoscenza del fatto che i tribunali sono una sede possibile per trattare le proprie dispute.  In questo studio i  dati sembrano confermare questa supposizione. Gli item riguardanti comportamenti sessuali- come impiegare metodi che prevedono la nudità o l’utilizzo di surrogati sessuali- risultano avere avuto poche risposte. Uno dei risultati più sorprendenti è quello per cui solo l’1,6% dei soggetti riferisce di avere avuto un contatto sessuale con un cliente, il 2,1% di avere intrattenuto una relazione sessuale e l’1,3% ammette di avere intrapreso un’attività erotica con un cliente. Inoltre sul versante etico circa la metà dei soggetti considera il rapporto sessuale con un cliente come discutibile, mentre  i punteggi relativi al contatto sessuale e alle attività erotiche con i pazienti, risultano essere significativamente bassi. Più del 70% degli psicoterapeuti crede che entrambi i comportamenti siano immorali. Un’ipotesi che possa spiegare il motivo della riduzione dei rapporti sessuali tra terapeuta e paziente potrebbe essere quella legata all’ansia, che molti psicoterapeuti hanno provato per la preoccupazione delle azioni legali. (Sell, Gottliebe, Schonfeld, Gottlieb, M.C., Sell, J.M. & Schoenfeld, L.S., 1988). Le abitudini sono cambiate da quando è cominciata la paura delle azioni legali. I tribunali hanno confermato l’autorità agli organi preposti, di revocare la licenza al clinico, qualora si dimostri che ha avuto rapporti con un paziente. Certamente i partecipanti al questionario sono consapevoli di quanto sia scorretto stabilire delle relazioni intime con un cliente e di quanto sia importante prendere delle semplici precauzioni per agire in modo che il loro lavoro sia ragionevolmente, razionalmente e professionalmente quello che dovrebbero fare. Tuttavia  per determinati professionisti che non sono stati e non sono ancora motivati da ragioni intrinseche, saranno i meccanismi sociali di potenziali azioni legali a fare ciò che dovrebbero comunque fare.

Commento

Complessivamente si delinea un quadro abbastanza chiaro e uniforme di quali implicazioni etiche e legali siano correlate al fenomeno della cattiva pratica. A prescindere dai ruoli specifici nei quali agiscono, gli psicologi sono tenuti a rispettare degli obblighi etici, che possono essere ridotti ad uno solo: la promozione del benessere umano. Nel perseguimento di questo ideale, gli psicologi assumono l’obbligo generale di essere responsabili, competenti, onesti, rispettosi verso i colleghi e consapevoli degli standards morali e giuridici della comunità. (Campbell, T. W. (1994). Dato il principio primario prima ricordato, ciò comporta che anche lo psicologo accetti la responsabilità di correggere azioni che diminuiscano il benessere umano. Ciò significa che essi non possono praticare comportamenti illeciti, discriminatori, menzogneri o ingiuriosi. Per molti professionisti del campo dell’igiene mentale, l’azione legale è percepita come un  anatema, che capita a professionisti intelligenti e ben disposti ad opera di avidi avvocati e clienti ingrati. Benché sia vero che nei processi di cattiva pratica, a volte le giurie formulano giudizi eccessivamente ampi e apparentemente non appropriati, è altrettanto vero che l’azione legale, a mio modesto parere, può essere considerata come un dono alla professione e al pubblico. Il dono consiste nel fatto che l’azione legale è un mezzo per rendere pubbliche molto azioni che sono private e problematiche. Se non fosse stato per le cause contro psicoterapisti che hanno avuto rapporti sessuali con i loro clienti durante le sedute, la nostra professione sarebbe stata molto più lenta nel condannare pesantemente questa pratica. L’azione legale, inoltre, è servita a liberarci di individui immorali che non avrebbero mai dovuto mettere in pericolo il benessere dei loro clienti nella privacy  della psicoterapia. Liberarci da quei terapisti egoisti e sconsiderati è stato un dono venutoci dai processi contro i terapisti.

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