Benvenuti! Telefonateci ai n. 0622796355 - 3473157728.  Siamo a ROMA in Piazza Sempronio Asellio 7 (metro A Giulio Agricola/Tuscolana/Don Bosco/Cinecittà)

 

CRONACHE DA UN’ISTITUZIONE PSICHIATRICA

Rossella Battaglia (*)   Maria Rosaria De Micco (*)   Alfredo Rubino (**)

 

La letteratura scientifica sul funzionamento delle istituzioni, pur nella diversità dei diversi approcci teorici, concorda sull’ipotesi che queste strutture complesse rispecchino il funzionamento dell’organizzazione psichica, considerando come preponderante l’azione di una dimensione soggettiva ed emozionale in ciascuno dei membri che la compongono. (Quaglino, 1996) Ogni individuo inserito in un gruppo di lavoro ricerca una gratificazione personale, al di là dell’incentivo costituito dal compenso economico e, parallelamente, sviluppando un senso di appartenenza, concorre ai bisogni dell’istituzione garantendo la sua integrità e difendendola dai possibili attacchi esterni che ne potrebbero pregiudicare l’esistenza.  L’approccio psicosociologico (Carli, 1981) che analizza la vita istituzionale in termini di efficienza ed efficacia è comunque consapevole che i suoi strumenti di indagine partono dal presupposto solo ipotetico di una relazione di reciprocità tra i membri dell’istituzione e che quindi un gruppo di lavoro funziona “come se” i suoi membri fossero razionali e aderissero consensualmente agli obiettivi individuati esplicitamente.   L’approccio socioanalitico (Correale, 1991) invece considera come ogni istituzione presenti, oltre alla funzione e agli obiettivi di lavoro espliciti, una sottostante finalità inconscia che è quella di sostegno e difesa dei propri membri contro l’emergere di angosce primitive. Infatti uno dei più importanti elementi di coesione che lega gli individui in una istituzione sarebbe proprio la difesa contro l’ansia psicotica; i singoli possono esteriorizzare quei contenuti di indifferenziazione, persecutorietà, distruttività,  che altrimenti invaderebbero il loro spazio psichico, facendoli confluire negli spazi e nei momenti che costituiscono la vita istituzionale. (Jacques, 1966)   Tale meccanismo che è comune a tutti i tipi di istituzione sociale sicuramente è più evidente nelle istituzioni demandate alla cura e all’assistenza di pazienti psichiatrici gravi che inevitabilmente, grazie al meccanismo dell’identificazione proiettiva, rimandano e stimolano negli operatori emozioni legate alle loro parti più arcaiche. (Correale, 1997) Non a caso, l’analisi socioanalitica delle istituzioni nasce negli anni sessanta proprio con lo studio delle dinamiche osservabili nelle strutture di cura psichiatriche.   Questo lavoro è una descrizione e una riflessione su un intervento istituzionale realizzato in due comunità residenziali per pazienti psichiatrici gravi per la cui realizzazione si sono dovute affrontare rilevanti difficoltà, con l’ipotesi che un qualsiasi intervento di modifica di un assetto istituzionale consolidato nel tempo è destinato a fallire se gli operatori non tengono conto delle dinamiche che esprimono la resistenza del gruppo al cambiamento e non assicurano ai pazienti coinvolti un adeguato spazio di ascolto, al fine di evitare il rischio di proporre soluzioni consone alle esigenze dell’istituzione e non ai bisogni dei pazienti stessi.   Le Comunità dove è avvenuta questa esperienza sono due Strutture Intermedie Riabilitative aperte nell’ambito della dismissione degli ospedali psichiatrici promossa dalla Legge 180. (1)   La prima (Comunità Santa Rosa) ospita diciotto pazienti le cui diagnosi  indicano i più gravi quadri dell’ambito psicotico. Essi sono in gran parte anziani e tali quadri psicopatologici sono in fase residuale con una sempre maggiore preponderanza di elementi di decadimento senile. Di conseguenza, la organizzazione comunitaria prevede un alto livello di protezione,  con una assistenza sanitaria garantita costantemente nell’arco delle 24 ore.  La seconda Comunità (di via Disney) ospita invece solo quattro pazienti, ha caratteristiche più simili ad una civile abitazione e su alcuni aspetti è organizzata sul modello di una “casa famiglia”, con un più basso grado di protezione.  Il reinserimento di queste persone nel tessuto sociale, che pure almeno nominalmente è l’obiettivo istituzionale, è una prospettiva illusoria visto il carattere residuale delle capacità e delle potenzialità dei pazienti. Infatti la storia di queste strutture si può leggere come il continuo tentativo da parte degli operatori di contraddire il carattere immutabile dell’istituzione, trasformandolo da luogo di custodia  a luogo di accoglienza e di appartenenza, mitigando quel senso di separazione (scissione), di sospettosa chiusura (paranoia), di fredda immobilità (depressione) e di rigida ripetitività (compulsività) che contraddistingue  istituzioni di questa natura. (Rubino, 2005) Nel corso degli anni, agli ospiti provenienti dall’ospedale psichiatrico, sono sopraggiunti quattro nuovi pazienti, di età più giovane, che quindi non hanno conosciuto la realtà manicomiale. E’ evidente la differenza con i pazienti ex-manicomiali, sia in termini di autonomia personale ed abilità sociale, sia nel diverso senso di appartenenza all’istituzione, molto meno passivo e più critico, sia nel rapporto più complesso e  personalizzato con la realtà extraistituzionale. Nonostante ciò, la pressione all’omologazione dell’istituzione nel corso del tempo è risultata inesorabile con un progressivo appiattimento al funzionamento istituzionale, per cui anche per questi quattro pazienti, il “ricovero” all’inizio presentato come una soluzione provvisoria in attesa di risolvere le questioni abitative, è divenuta l’unica soluzione possibile senza alcuna concreta alternativa.   L’intervento proposto, una volta che si erano resi disponibili due posti letto nella Comunità più piccola,  è stato quello di trasferire in essa i quattro pazienti “non manicomiali”, concentrando così nella struttura a maggior grado assistenziale i pazienti più anziani e più bisognosi di assistenza; si poteva così consentire nella struttura di via Disney condizioni appropriate per poter realizzare più compiutamente una casa-famiglia, con la prospettiva futura per qualcuna di queste persone anche di una sistemazione  al di fuori del circuito sanitario.   Si potrebbe considerare un intervento di questo tipo un qualcosa di molto semplice, quasi dettato dal comune buon senso. In realtà, si è assistito all’attivazione di dinamiche istituzionali che hanno bloccato la sua realizzazione per alcuni mesi, con diversi momenti dove si è rischiato di non poterlo portare a termine.   Gli operatori che avevano ipotizzato questo intervento, prima di presentarlo formalmente al Responsabile del servizio, hanno intrattenuto una serie di confronti informali con gli operatori che maggiormente ne sarebbero stati coinvolti al fine di raccogliere preventivamente la loro opinione. In questi contatti nessuno si  dichiarava contrario, molti esprimevano perplessità ma con l’atteggiamento di rimandare ad un futuro confronto più ampio la possibilità di ritrovare nell’opinione generale i propri dubbi. Considerato il sostanziale consenso alla proposta, pur con diversi distinguo rispetto alle modalità di realizzazione, il progetto viene formalmente presentato. Immediatamente si attiva un acting-out probabilmente come difesa nei confronti di un cambiamento vissuto come minaccioso. I pazienti vengono allarmati da alcuni operatori, alcuni con comunicazioni “confidenziali”, altri con messaggi più drammatici, provocando facilmente la loro reazione angosciata.   E’ inevitabile che persone che hanno conosciuto il carattere catastrofico e destrutturante della psicosi diffidino di qualsiasi cambiamento, anche se prospettato come benefico, temendo di essere privati anche di quel poco che gli rimane. La fantasia comune in cui tutti sembrano riconoscersi è la difesa dell’esistente evitando che dall’esterno penetrino elementi minacciosi  in quanto inattesi ed incomprensibili. Questi stessi operatori si rivolgono al Responsabile stigmatizzando la “strumentalizzazione” dei pazienti e chiedendo conto delle “voci di corridoio” da loro stessi alimentate. Il risultato è l’immediato congelamento del progetto. E’ così possibile descrivere in questo frangente il manifestarsi di una sorta di isomorfismo tra la reazione dell’istituzione e quella dei pazienti. Chi manifesta uno stato di dissociazione o frammentazione del Sé provoca negli altri intense reazioni di allarme indotte dalla pervasività delle emozioni trasmesse. Se la possibilità di uno spazio di elaborazione mentale che manca al loro apparato psichico non è compensato da un adeguato e corrispondente spazio di elaborazione da parte dell’istituzione curante, allora diviene molto forte il rischio di un acting-out, che può essere agito indifferentemente dal paziente stesso o dall’istituzione attraverso interventi inopportuni o inadeguati, oppure espresso da una rilevante conflittualità tra gli operatori.  (Racamier, 1972)   Segue una lunga fase di contenimento delle ansie dei pazienti. Probabilmente per lo stesso meccanismo di isomorfismo e di pervasività emozionale, il mitigarsi delle ansie dei pazienti si riflette in un parallelo mitigarsi delle ansie degli operatori. I due sottosistemi istituzionali condivideranno la stessa definizione della situazione attraverso la medesima operazione difensiva di distanziamento: il cambiamento prospettato è possibile ma solo se viene rimandato indefinitivamente nel tempo.   A questo punto una nuova situazione rende possibile riconsiderare la questione in sospeso: un avvicendamento nella leadership del Servizio. Il nuovo Responsabile riprende i passi istituzionali previsti per la realizzazione del progetto (riunioni di equipe, informazione ai familiari, preparazione dei bagagli, momenti di commiato e accoglienza), gli operatori ne sono coinvolti ma sempre con la convinzione che il cambiamento verrà infine rimandato a chissà quando. Spiazzando le aspettative di tutti il Responsabile comunica la data dello “spostamento”(2): appena una settimana di attesa. La decisione provoca forti critiche e viene considerata un atto “autoritario”. Si consolida una coesione difensiva tra i membri del gruppo rinforzata da una collusiva proiezione all’esterno delle pulsioni distruttive, identificate in un’autorità persecutoria che propone un cambiamento percepito come minaccioso per gli equilibri e le abitudini consolidate. La resistenza al cambiamento, quando si manifesta con questa tematica della resistenza comune al nemico che bussa alle porte, può assumere aspetti paradossali dove gli obiettivi dell’organizzazione vengono persi di vista o attribuiti interamente ad una componente che si propone in vesti “paterne”. (3) (Carli, 1981) Un altro elemento interessante in questa fase è stato il diffondersi di nuove definizioni sulle capacità e sui bisogni dei diversi pazienti. Coloro che erano da tutti considerati autonomi venivano ora visti come bisognosi di una più completa assistenza, per coloro di cui si lamentava da anni il progressivo decadimento comportamentale si affermava ora che avrebbero sofferto per il ricovero in una struttura più contenitiva. Quando il paziente manifesta aspetti conflittuali e inconciliabili accade sovente che gli operatori si identifichino con aspetti parziali, superando la contraddittorietà attraverso il riconoscere solo una visione incompleta. Facilmente il paziente può favorire inconsapevolmente questo fenomeno con continui atteggiamenti manipolatori ed incongrui finalizzati a mantenere una residua parte attiva nella relazione. Probabilmente, proprio nelle situazioni critiche questo meccanismo di scissione si accentua permettendo di mantenere separati aspetti contraddittori dell’esperienza. Se all’interno dell’equipe si consolidano immagini inconciliabili degli stessi pazienti il risultato non può che essere una paralisi delle iniziative oppure l’emergere di aspettative angosciose. (Correale, 1991)     Ad esempio, nel nostro caso, i giorni immediatamente precedenti allo “spostamento” sono contraddistinti  da due allarmanti questioni: la prima è se i pazienti più autonomi trasferiti nella nuova struttura avrebbero avuto libero accesso ai coltelli custoditi in cucina, ricordando un banale episodio di litigio tra due di essi, occorso anni prima senza conseguenze e mai più ripetutosi. Ciò senza tener in nessun conto che questi pazienti da dieci anni utilizzavano quotidianamente i coltelli e che non era mai accaduto nulla. La seconda questione riguardava la mancanza di una sorveglianza notturna e il pericolo di una fuga. Anche qui non si capiva perché i pazienti avrebbero dovuto “fuggire” di notte scavalcando un cancello quando l’indomani mattina avrebbero potuto tranquillamente allontanarsi dalla struttura senza dover dar conto a nessuno.   Nonostante il carattere pretestuoso e ingiustificato di questi allarmi, non si può sottacere la grande risonanza emotiva che provocavano in tutti gli operatori, compresi i proponenti del progetto, che hanno vissuto i giorni immediatamente precedenti e seguenti lo “spostamento” accompagnati da continue fantasie catastrofiche e dalla definizione ormai dominante l’istituzione: se va bene è merito di tutti; se va male è solo colpa vostra.   Parallelamente alle vicende istituzionali fin qui descritte si è dato spazio ad un continuo ascolto dei pazienti coinvolti, alle loro esigenze ed aspettative. Nel momento in cui si è realizzato il cambiamento si è pensato di proporre loro uno strumento più obiettivo quale un’intervista semi-strutturata al fine di valutare più oggettivamente i loro vissuti, gli atteggiamenti e le richieste in un momento critico di passaggio.   Nello specifico si è pensato di approntare uno strumento in grado di far esprimere al meglio i loro vissuti psicologici indagando però elementi concreti di vita quali la cura della persona, il riposo notturno, il cibo, ecc.    

Ecco di seguito gli item somministrati:

Sei soddisfatto del cambiamento?

Quali sono stati i cambiamenti positivi? Quali sono stati quelli negativi?

E’stato tutto come te lo aspettavi?

Ti piace la nuova camera? E’ più confortevole?

Cosa hai modificato da quando è divenuta la tua stanza?

Ti trovi bene con i nuovi operatori? Ti sei sentito accolto?

Ti piace la cucina?

Come ti trovi con i tuoi compagni?

Tutto sommato se tornassi indietro accetteresti di fare questo cambiamento?

Si è proceduto ad una prima somministrazione ad una settimana esatta dal trasferimento dei pazienti. Una seconda somministrazione della medesima intervista è stata proposta dopo tre mesi al fine di rivalutare le opinioni espresse in precedenza alla luce di un più lungo processo di adattamento alla nuova situazione. In questo modo si è potuto procedere sia ad una lettura trasversale del questionario, potendo  confrontare le risposte di ciascun paziente ad ogni item, sia ad una lettura longitudinale, verificando cioè eventuali mutamenti di atteggiamento nel tempo.   La lettura trasversale ha evidenziato l’esistenza di una forte aspettativa rispetto al cambiamento proposto e l’emergere di un rilevante bisogno di miglioramento della qualità della vita all’interno dell’istituzione.   Ci sembra significativo sottolineare come il maggiore entusiasmo è stato espresso dai pazienti non provenienti dal manicomio che quindi manifestavano una struttura desiderativa più integra, mentre le due pazienti ex manicomiali hanno vissuto questo cambiamento con un atteggiamento più rassegnato e con una maggiore insicurezza rispetto alla novità. Questa differenza ci sembra il risultato dell’esperienza manicomiale per cui pazienti che hanno vissuto un continuo ed inesorabile impoverimento della propria esistenza tendono a considerare negativamente qualunque prospettiva di cambiamento che per loro potrebbe rivelarsi una nuova catastrofe rispetto alla quale si sentirebbero totalmente indifesi. Gli altri pazienti, che meglio ricordano una originaria situazione di accoglimento e riconoscimento di sé, mantengono invece l’idea di un possibile recupero degli elementi esistenziali perduti. Questi  elementi più che essere espressi da vissuti emotivi viene comunicato da semplici elementi concreti quali: maggiore comfort delle stanze, abbondanza e varietà dei pasti, bagni più spaziosi, ecc. Questi giudizi sembrano rimettere in moto la sfera desiderativa dei pazienti e fanno esprimere fin dai primi giorni nuove esigenze che prima non sarebbero state considerate, quali ad esempio una televisione personale, dei quadretti alle pareti, dei condizionatori nelle camere da letto, ecc. Ciò ci fa intravedere quanto ci sia in loro l’esigenza di percepire  l’istituzione non solo come luogo di cura ma anche come possibile spazio di accoglimento familiare. Il sollecitare i loro bisogni di attaccamento si manifesta anche nell’emergere di inaspettati desideri di accudimento: due pazienti esprimono il proposito di allevare dei pesciolini rossi e degli uccellini. La lettura longitudinale conferma a tre mesi di distanza il permanere di tali aspettative e di una soddisfazione rispetto al cambiamento avvenuto. Tutti sottolineano una maggiore autonomia e la sensazione di essere meno controllati. Allo stesso modo tutti notano come gran parte delle loro richieste rispetto al rendere più confortevole la struttura non siano state soddisfatte. I miglioramenti riferiti sono tutti risultato della loro iniziativa personale ma non dell’istituzione. E’ come se emergesse un giudizio di delusione rispetto a chi dapprima prospetta un cambiamento radicale e sollecita i pazienti ad esprimere i propri bisogni, ma poi si mostra incapace di soddisfarli.   In conclusione si deve rilevare come il positivo andamento del progetto sia da attribuire in maniera rilevante all’attivarsi delle risorse individuali dei pazienti a cui l’istituzione è riuscita a dare una diversa opportunità. Contrariamente ai timori espressi dagli operatori tutti i pazienti hanno mostrato un atteggiamento collaborativo e un positivo spirito di adattamento,  più degli stessi operatori che hanno vissuto con maggior disagio i momenti critici dell’operazione.   Ci sembra significativo quanto accaduto ad uno dei pazienti, quello con una maggiore difficoltà di sentirsi parte dell’istituzione. Questi la utilizzava solo per dormire e nei sei anni di ricovero mai aveva accettato di mangiare in comunità, preferendo andare ogni giorno dalla sorella, pur se ella abitava dall’altra parte della città e lo trattava da ospite mal sopportato piuttosto che da fratello, sfruttandolo anche economicamente. Pochi giorni dopo il trasferimento nella nuova casa famiglia il paziente litiga violentemente con la sorella, le rinfaccia i torti subìti e da allora, sono passati ormai sei mesi, non è più ritornato da lei. Ci è sembrato che il sentirsi parte di una struttura evidentemente più adeguata ai suoi bisogni gli abbia dato il coraggio di staccarsi da una relazione per lui carica di sofferenza che però aveva sempre sopportato con passività e rassegnazione.   Un ultimo elemento ci sembra ancora più emblematico: il paziente più giovane, dopo cinque anni di ricovero presso  la Comunità  Protetta  e quindi dopo solo sei mesi dal trasferimento nella casa famiglia ha maturato l’esigenza di una ancora maggiore autonomia. Sostenuto in un progetto specifico da alcuni operatori, ha trovato una casa dove andare ad abitare, sostenendosi con i propri mezzi economici. Da tre mesi ha lasciato l’istituzione psichiatrica.               

(*)   Psicologa tirocinante.

(**) Psicologo U.O. Salute Mentale ASL Napoli 1 Distretto 52.

NOTE

(1)  La Comunità  Protetta  Santa Rosa e  la Comunità  di via Disney fanno parte della Unità Operativa Salute Mentale del Distretto Sanitario 52- ASL Napoli 1.

(2) Con questo termine operatori e pazienti iniziano a riferirsi al progetto, a volte accompagnandolo con il gesto della mano di chi sposta delle pedine su una scacchiera.

(3) Come a scuola tante volte sembra che l’apprendimento sia un obiettivo del solo insegnante, subìto e mal sopportato dagli alunni, così in un servizio psichiatrico la proposta di una diversa soluzione operativa sembra tante volte interesse del solo proponente. Allo stesso modo, come spesso tanti insegnanti propongono una didattica insensata tale da far realmente pensare che ciò che dicono sia soltanto un loro vezzo personale, sovente gli operatori sanitari si difendono dagli attacchi subìti proponendo soluzioni e stili di intervento talmente paradossali da far pensare che stanno perseguendo un loro obiettivo più che venire incontro alle richieste dei pazienti.

 

BIBLIOGRAFIA

Carli R. Paniccia R.M. Psicosociologia delle organizzazioni e delle istituzioni. (Il Mulino, Bologna. 1981)

Correale A. Il campo istituzionale. (Borla, Roma. 1991)

Correale A. Le terapie analitiche orientate delle psicosi: la nozione di campo e la funzione dell’empatia. In Correale A. Rinaldi L. (a cura di): Quale psicoanalisi per le psicosi. (Cortina, Milano. 1997)

Jacques E. Sistemi sociali come difesa contro l’ansia persecutoria e depressiva. In Klein M. ( a cura di): Nuove vie della psicoanalisi. (Il Saggiatore, Milano. 1966)

Quaglino G.P. Psicodinamica della vita organizzata. (Cortina, Milano. 1996)

Racamier P.C. Lo psicoanalista senza divano. (Cortina, Milano. 1982)

Rubino A. Storie ritrovate. Da casi clinici a storie di vita narrate da sé medesimi. (www.psiconline.it , 2005)

CENTRO ITALIANO SVILUPPO PSICOLOGIA

www.attacchidipanico.it  www.psicoterapie.org  www.tossicodipendenze.net
 www.disturbisessuali.it  www.ossessioniecompulsioni.it  www.terapiadicoppia.it  www.prevenzione-psicologica.it www.psicosi.net  www.fobia.it  www.depressioni.it  www.ansie.it  www.infanziaeadolescenza.info  www.terapiedigruppo.info   www.lavorodigruppo.eu www.disturbialimentari.com www.psic.tv  www.cisp.info www.stresslavorocorrelato.info  

 

>>> ritorna alla homepage <<<

 

 

Copyright © CENTRO ITALIANO SVILUPPO PSICOLOGIA cod. fisc. 96241380581

Note legali - Si prega di leggerle accuratamente prima di utilizzare il sito