CRONACHE
DA UN’ISTITUZIONE PSICHIATRICA
Rossella
Battaglia (*)
Maria Rosaria De Micco (*)
Alfredo Rubino (**)
La letteratura scientifica sul funzionamento delle istituzioni, pur
nella diversità dei diversi approcci teorici, concorda sull’ipotesi che
queste strutture complesse rispecchino il funzionamento
dell’organizzazione psichica, considerando come preponderante l’azione
di una dimensione soggettiva ed emozionale in ciascuno dei membri che la
compongono. (Quaglino, 1996) Ogni individuo inserito in un gruppo di
lavoro ricerca una gratificazione personale, al di là dell’incentivo
costituito dal compenso economico e, parallelamente, sviluppando un senso
di appartenenza, concorre ai bisogni dell’istituzione garantendo la sua
integrità e difendendola dai possibili attacchi esterni che ne potrebbero
pregiudicare l’esistenza.
L’approccio psicosociologico (Carli, 1981) che analizza la vita
istituzionale in termini di efficienza ed efficacia è comunque
consapevole che i suoi strumenti di indagine partono dal presupposto solo
ipotetico di una relazione di reciprocità tra i membri dell’istituzione
e che quindi un gruppo di lavoro funziona “come se” i suoi membri
fossero razionali e aderissero consensualmente agli obiettivi individuati
esplicitamente.
L’approccio socioanalitico (Correale, 1991) invece considera come ogni
istituzione presenti, oltre alla funzione e agli obiettivi di lavoro
espliciti, una sottostante finalità inconscia che è quella di sostegno e
difesa dei propri membri contro l’emergere di angosce primitive. Infatti
uno dei più importanti elementi di coesione che lega gli individui in una
istituzione sarebbe proprio la difesa contro l’ansia psicotica; i
singoli possono esteriorizzare quei contenuti di indifferenziazione,
persecutorietà, distruttività, che altrimenti invaderebbero il
loro spazio psichico, facendoli confluire negli spazi e nei momenti che
costituiscono la vita istituzionale. (Jacques, 1966)
Tale meccanismo che è comune a tutti i tipi di istituzione sociale
sicuramente è più evidente nelle istituzioni demandate alla cura e
all’assistenza di pazienti psichiatrici gravi che inevitabilmente,
grazie al meccanismo dell’identificazione proiettiva, rimandano e
stimolano negli operatori emozioni legate alle loro parti più arcaiche. (Correale,
1997) Non a caso, l’analisi socioanalitica delle istituzioni nasce negli
anni sessanta proprio con lo studio delle dinamiche osservabili nelle
strutture di cura psichiatriche.
Questo lavoro è una descrizione e una riflessione su un intervento
istituzionale realizzato in due comunità residenziali per pazienti
psichiatrici gravi per la cui realizzazione si sono dovute affrontare
rilevanti difficoltà, con l’ipotesi che un qualsiasi intervento di
modifica di un assetto istituzionale consolidato nel tempo è destinato a
fallire se gli operatori non tengono conto delle dinamiche che esprimono
la resistenza del gruppo al cambiamento e non assicurano ai pazienti
coinvolti un adeguato spazio di ascolto, al fine di evitare il rischio di
proporre soluzioni consone alle esigenze dell’istituzione e non ai
bisogni dei pazienti stessi.
Le Comunità dove è avvenuta questa esperienza sono due Strutture
Intermedie Riabilitative aperte nell’ambito della dismissione degli
ospedali psichiatrici promossa dalla Legge 180. (1)
La prima (Comunità Santa Rosa) ospita diciotto pazienti le cui diagnosi
indicano i più gravi quadri dell’ambito psicotico. Essi sono in gran
parte anziani e tali quadri psicopatologici sono in fase residuale con una
sempre maggiore preponderanza di elementi di decadimento senile. Di
conseguenza, la organizzazione comunitaria prevede un alto livello di
protezione, con una assistenza sanitaria garantita costantemente
nell’arco delle 24 ore.
La seconda Comunità (di via Disney) ospita invece solo quattro pazienti,
ha caratteristiche più simili ad una civile abitazione e su alcuni
aspetti è organizzata sul modello di una “casa famiglia”, con un più
basso grado di protezione.
Il reinserimento di queste persone nel tessuto sociale, che pure almeno
nominalmente è l’obiettivo istituzionale, è una prospettiva illusoria
visto il carattere residuale delle capacità e delle potenzialità dei
pazienti. Infatti la storia di queste strutture si può leggere come il
continuo tentativo da parte degli operatori di contraddire il carattere
immutabile dell’istituzione, trasformandolo da luogo di custodia a
luogo di accoglienza e di appartenenza, mitigando quel senso di
separazione (scissione), di sospettosa chiusura (paranoia), di fredda
immobilità (depressione) e di rigida ripetitività (compulsività) che
contraddistingue istituzioni di questa natura. (Rubino, 2005) Nel
corso degli anni, agli ospiti provenienti dall’ospedale psichiatrico,
sono sopraggiunti quattro nuovi pazienti, di età più giovane, che quindi
non hanno conosciuto la realtà manicomiale. E’ evidente la differenza
con i pazienti ex-manicomiali, sia in termini di autonomia personale ed
abilità sociale, sia nel diverso senso di appartenenza all’istituzione,
molto meno passivo e più critico, sia nel rapporto più complesso e
personalizzato con la realtà extraistituzionale. Nonostante ciò, la
pressione all’omologazione dell’istituzione nel corso del tempo è
risultata inesorabile con un progressivo appiattimento al funzionamento
istituzionale, per cui anche per questi quattro pazienti, il
“ricovero” all’inizio presentato come una soluzione provvisoria in
attesa di risolvere le questioni abitative, è divenuta l’unica
soluzione possibile senza alcuna concreta alternativa.
L’intervento proposto, una volta che si erano resi disponibili due posti
letto nella Comunità più piccola, è stato quello di trasferire in
essa i quattro pazienti “non manicomiali”, concentrando così nella
struttura a maggior grado assistenziale i pazienti più anziani e più
bisognosi di assistenza; si poteva così consentire nella struttura di via
Disney condizioni appropriate per poter realizzare più compiutamente una
casa-famiglia, con la prospettiva futura per qualcuna di queste persone
anche di una sistemazione al di fuori del circuito sanitario.
Si potrebbe considerare un intervento di questo tipo un qualcosa di molto
semplice, quasi dettato dal comune buon senso. In realtà, si è assistito
all’attivazione di dinamiche istituzionali che hanno bloccato la sua
realizzazione per alcuni mesi, con diversi momenti dove si è rischiato di
non poterlo portare a termine.
Gli operatori che avevano ipotizzato questo intervento, prima di
presentarlo formalmente al Responsabile del servizio, hanno intrattenuto
una serie di confronti informali con gli operatori che maggiormente ne
sarebbero stati coinvolti al fine di raccogliere preventivamente la loro
opinione. In questi contatti nessuno si dichiarava contrario, molti
esprimevano perplessità ma con l’atteggiamento di rimandare ad un
futuro confronto più ampio la possibilità di ritrovare nell’opinione
generale i propri dubbi. Considerato il sostanziale consenso alla
proposta, pur con diversi distinguo rispetto alle modalità di
realizzazione, il progetto viene formalmente presentato. Immediatamente si
attiva un acting-out probabilmente come difesa nei confronti di un
cambiamento vissuto come minaccioso. I pazienti vengono allarmati da
alcuni operatori, alcuni con comunicazioni “confidenziali”, altri con
messaggi più drammatici, provocando facilmente la loro reazione
angosciata.
E’ inevitabile che persone che hanno conosciuto il carattere
catastrofico e destrutturante della psicosi diffidino di qualsiasi
cambiamento, anche se prospettato come benefico, temendo di essere privati
anche di quel poco che gli rimane. La fantasia comune in cui tutti
sembrano riconoscersi è la difesa dell’esistente evitando che
dall’esterno penetrino elementi minacciosi in quanto inattesi ed
incomprensibili. Questi stessi operatori si rivolgono al Responsabile
stigmatizzando la “strumentalizzazione” dei pazienti e chiedendo conto
delle “voci di corridoio” da loro stessi alimentate. Il risultato è
l’immediato congelamento del progetto. E’ così possibile descrivere
in questo frangente il manifestarsi di una sorta di isomorfismo tra la
reazione dell’istituzione e quella dei pazienti. Chi manifesta uno stato
di dissociazione o frammentazione del Sé provoca negli altri intense
reazioni di allarme indotte dalla pervasività delle emozioni trasmesse.
Se la possibilità di uno spazio di elaborazione mentale che manca al loro
apparato psichico non è compensato da un adeguato e corrispondente spazio
di elaborazione da parte dell’istituzione curante, allora diviene molto
forte il rischio di un acting-out, che può essere agito indifferentemente
dal paziente stesso o dall’istituzione attraverso interventi inopportuni
o inadeguati, oppure espresso da una rilevante conflittualità tra gli
operatori. (Racamier, 1972)
Segue una lunga fase di contenimento delle ansie dei pazienti.
Probabilmente per lo stesso meccanismo di isomorfismo e di pervasività
emozionale, il mitigarsi delle ansie dei pazienti si riflette in un
parallelo mitigarsi delle ansie degli operatori. I due sottosistemi
istituzionali condivideranno la stessa definizione della situazione
attraverso la medesima operazione difensiva di distanziamento: il
cambiamento prospettato è possibile ma solo se viene rimandato
indefinitivamente nel tempo.
A questo punto una nuova situazione rende possibile riconsiderare la
questione in sospeso: un avvicendamento nella leadership del Servizio. Il
nuovo Responsabile riprende i passi istituzionali previsti per la
realizzazione del progetto (riunioni di equipe, informazione ai familiari,
preparazione dei bagagli, momenti di commiato e accoglienza), gli
operatori ne sono coinvolti ma sempre con la convinzione che il
cambiamento verrà infine rimandato a chissà quando. Spiazzando le
aspettative di tutti il Responsabile comunica la data dello
“spostamento”(2): appena una settimana di attesa. La decisione provoca
forti critiche e viene considerata un atto “autoritario”. Si consolida
una coesione difensiva tra i membri del gruppo rinforzata da una collusiva
proiezione all’esterno delle pulsioni distruttive, identificate in
un’autorità persecutoria che propone un cambiamento percepito come
minaccioso per gli equilibri e le abitudini consolidate. La resistenza al
cambiamento, quando si manifesta con questa tematica della resistenza
comune al nemico che bussa alle porte, può assumere aspetti paradossali
dove gli obiettivi dell’organizzazione vengono persi di vista o
attribuiti interamente ad una componente che si propone in vesti
“paterne”. (3) (Carli, 1981)
Un altro elemento interessante in questa fase è stato il diffondersi di
nuove definizioni sulle capacità e sui bisogni dei diversi pazienti.
Coloro che erano da tutti considerati autonomi venivano ora visti come
bisognosi di una più completa assistenza, per coloro di cui si lamentava
da anni il progressivo decadimento comportamentale si affermava ora che
avrebbero sofferto per il ricovero in una struttura più contenitiva.
Quando il paziente manifesta aspetti conflittuali e inconciliabili accade
sovente che gli operatori si identifichino con aspetti parziali, superando
la contraddittorietà attraverso il riconoscere solo una visione
incompleta. Facilmente il paziente può favorire inconsapevolmente questo
fenomeno con continui atteggiamenti manipolatori ed incongrui finalizzati
a mantenere una residua parte attiva nella relazione. Probabilmente,
proprio nelle situazioni critiche questo meccanismo di scissione si
accentua permettendo di mantenere separati aspetti contraddittori
dell’esperienza. Se all’interno dell’equipe si consolidano immagini
inconciliabili degli stessi pazienti il risultato non può che essere una
paralisi delle iniziative oppure l’emergere di aspettative angosciose. (Correale,
1991)
Ad esempio, nel nostro caso, i giorni immediatamente precedenti allo
“spostamento” sono contraddistinti da due allarmanti questioni:
la prima è se i pazienti più autonomi trasferiti nella nuova struttura
avrebbero avuto libero accesso ai coltelli custoditi in cucina, ricordando
un banale episodio di litigio tra due di essi, occorso anni prima senza
conseguenze e mai più ripetutosi. Ciò senza tener in nessun conto che
questi pazienti da dieci anni utilizzavano quotidianamente i coltelli e
che non era mai accaduto nulla. La seconda questione riguardava la
mancanza di una sorveglianza notturna e il pericolo di una fuga. Anche qui
non si capiva perché i pazienti avrebbero dovuto “fuggire” di notte
scavalcando un cancello quando l’indomani mattina avrebbero potuto
tranquillamente allontanarsi dalla struttura senza dover dar conto a
nessuno.
Nonostante il carattere pretestuoso e ingiustificato di questi allarmi,
non si può sottacere la grande risonanza emotiva che provocavano in tutti
gli operatori, compresi i proponenti del progetto, che hanno vissuto i
giorni immediatamente precedenti e seguenti lo “spostamento”
accompagnati da continue fantasie catastrofiche e dalla definizione ormai
dominante l’istituzione: se va bene è merito di tutti; se va male è
solo colpa vostra.
Parallelamente alle vicende istituzionali fin qui descritte si è dato
spazio ad un continuo ascolto dei pazienti coinvolti, alle loro esigenze
ed aspettative. Nel momento in cui si è realizzato il cambiamento si è
pensato di proporre loro uno strumento più obiettivo quale
un’intervista semi-strutturata al fine di valutare più oggettivamente i
loro vissuti, gli atteggiamenti e le richieste in un momento critico di
passaggio.
Nello specifico si è pensato di approntare uno strumento in grado di far
esprimere al meglio i loro vissuti psicologici indagando però elementi
concreti di vita quali la cura della persona, il riposo notturno, il cibo,
ecc.
Ecco
di seguito gli item somministrati:
Sei
soddisfatto del cambiamento?
Quali
sono stati i cambiamenti positivi? Quali sono stati quelli negativi?
E’stato
tutto come te lo aspettavi?
Ti
piace la nuova camera? E’ più confortevole?
Cosa
hai modificato da quando è divenuta la tua stanza?
Ti
trovi bene con i nuovi operatori? Ti sei sentito accolto?
Ti
piace la cucina?
Come
ti trovi con i tuoi compagni?
Tutto
sommato se tornassi indietro accetteresti di fare questo cambiamento?
Si è proceduto ad una prima somministrazione ad una settimana esatta dal
trasferimento dei pazienti. Una seconda somministrazione della medesima
intervista è stata proposta dopo tre mesi al fine di rivalutare le
opinioni espresse in precedenza alla luce di un più lungo processo di
adattamento alla nuova situazione. In questo modo si è potuto procedere
sia ad una lettura trasversale del questionario, potendo confrontare
le risposte di ciascun paziente ad ogni item, sia ad una lettura
longitudinale, verificando cioè eventuali mutamenti di atteggiamento nel
tempo.
La lettura trasversale ha evidenziato l’esistenza di una forte
aspettativa rispetto al cambiamento proposto e l’emergere di un
rilevante bisogno di miglioramento della qualità della vita all’interno
dell’istituzione.
Ci sembra significativo sottolineare come il maggiore entusiasmo è stato
espresso dai pazienti non provenienti dal manicomio che quindi
manifestavano una struttura desiderativa più integra, mentre le due
pazienti ex manicomiali hanno vissuto questo cambiamento con un
atteggiamento più rassegnato e con una maggiore insicurezza rispetto alla
novità. Questa differenza ci sembra il risultato dell’esperienza
manicomiale per cui pazienti che hanno vissuto un continuo ed inesorabile
impoverimento della propria esistenza tendono a considerare negativamente
qualunque prospettiva di cambiamento che per loro potrebbe rivelarsi una
nuova catastrofe rispetto alla quale si sentirebbero totalmente indifesi.
Gli altri pazienti, che meglio ricordano una originaria situazione di
accoglimento e riconoscimento di sé, mantengono invece l’idea di un
possibile recupero degli elementi esistenziali perduti. Questi
elementi più che essere espressi da vissuti emotivi viene comunicato da
semplici elementi concreti quali: maggiore comfort delle stanze,
abbondanza e varietà dei pasti, bagni più spaziosi, ecc. Questi giudizi
sembrano rimettere in moto la sfera desiderativa dei pazienti e fanno
esprimere fin dai primi giorni nuove esigenze che prima non sarebbero
state considerate, quali ad esempio una televisione personale, dei
quadretti alle pareti, dei condizionatori nelle camere da letto, ecc. Ciò
ci fa intravedere quanto ci sia in loro l’esigenza di percepire
l’istituzione non solo come luogo di cura ma anche come possibile spazio
di accoglimento familiare. Il sollecitare i loro bisogni di attaccamento
si manifesta anche nell’emergere di inaspettati desideri di accudimento:
due pazienti esprimono il proposito di allevare dei pesciolini rossi e
degli uccellini.
La lettura longitudinale conferma a tre mesi di distanza il permanere di
tali aspettative e di una soddisfazione rispetto al cambiamento avvenuto.
Tutti sottolineano una maggiore autonomia e la sensazione di essere meno
controllati. Allo stesso modo tutti notano come gran parte delle loro
richieste rispetto al rendere più confortevole la struttura non siano
state soddisfatte. I miglioramenti riferiti sono tutti risultato della
loro iniziativa personale ma non dell’istituzione. E’ come se
emergesse un giudizio di delusione rispetto a chi dapprima prospetta un
cambiamento radicale e sollecita i pazienti ad esprimere i propri bisogni,
ma poi si mostra incapace di soddisfarli.
In conclusione si deve rilevare come il positivo andamento del progetto
sia da attribuire in maniera rilevante all’attivarsi delle risorse
individuali dei pazienti a cui l’istituzione è riuscita a dare una
diversa opportunità. Contrariamente ai timori espressi dagli operatori
tutti i pazienti hanno mostrato un atteggiamento collaborativo e un
positivo spirito di adattamento, più degli stessi operatori che
hanno vissuto con maggior disagio i momenti critici dell’operazione.
Ci sembra significativo quanto accaduto ad uno dei pazienti, quello con
una maggiore difficoltà di sentirsi parte dell’istituzione. Questi la
utilizzava solo per dormire e nei sei anni di ricovero mai aveva accettato
di mangiare in comunità, preferendo andare ogni giorno dalla sorella, pur
se ella abitava dall’altra parte della città e lo trattava da ospite
mal sopportato piuttosto che da fratello, sfruttandolo anche
economicamente. Pochi giorni dopo il trasferimento nella nuova casa
famiglia il paziente litiga violentemente con la sorella, le rinfaccia i
torti subìti e da allora, sono passati ormai sei mesi, non è più
ritornato da lei. Ci è sembrato che il sentirsi parte di una struttura
evidentemente più adeguata ai suoi bisogni gli abbia dato il coraggio di
staccarsi da una relazione per lui carica di sofferenza che però aveva
sempre sopportato con passività e rassegnazione.
Un ultimo elemento ci sembra ancora più emblematico: il paziente più
giovane, dopo cinque anni di ricovero presso
la Comunità
Protetta
e quindi dopo solo sei
mesi dal trasferimento nella casa famiglia ha maturato l’esigenza di una
ancora maggiore autonomia. Sostenuto in un progetto specifico da alcuni
operatori, ha trovato una casa dove andare ad abitare, sostenendosi con i
propri mezzi economici. Da tre mesi ha lasciato l’istituzione
psichiatrica.
(*)
Psicologa tirocinante.
(**)
Psicologo U.O. Salute Mentale ASL Napoli 1 Distretto 52.
NOTE
(1)
La Comunità
Protetta
Santa Rosa e
la Comunità
di via Disney fanno parte
della Unità Operativa Salute Mentale del Distretto Sanitario 52- ASL
Napoli 1.
(2)
Con questo termine operatori e pazienti iniziano a riferirsi al progetto,
a volte accompagnandolo con il gesto della mano di chi sposta delle pedine
su una scacchiera.
(3)
Come a scuola tante volte sembra che l’apprendimento sia un obiettivo
del solo insegnante, subìto e mal sopportato dagli alunni, così in un
servizio psichiatrico la proposta di una diversa soluzione operativa
sembra tante volte interesse del solo proponente. Allo stesso modo, come
spesso tanti insegnanti propongono una didattica insensata tale da far
realmente pensare che ciò che dicono sia soltanto un loro vezzo
personale, sovente gli operatori sanitari si difendono dagli attacchi subìti
proponendo soluzioni e stili di intervento talmente paradossali da far
pensare che stanno perseguendo un loro obiettivo più che venire incontro
alle richieste dei pazienti.
BIBLIOGRAFIA
Carli
R. Paniccia R.M. Psicosociologia delle organizzazioni e delle istituzioni.
(Il Mulino, Bologna. 1981)
Correale
A. Il campo istituzionale. (Borla, Roma. 1991)
Correale
A. Le terapie analitiche orientate delle psicosi: la nozione di campo e la
funzione dell’empatia. In Correale A. Rinaldi L. (a cura di): Quale
psicoanalisi per le psicosi. (Cortina, Milano. 1997)
Jacques
E. Sistemi sociali come difesa contro l’ansia persecutoria e depressiva.
In Klein M. ( a cura di): Nuove vie della psicoanalisi. (Il Saggiatore,
Milano. 1966)
Quaglino
G.P. Psicodinamica della vita organizzata. (Cortina, Milano. 1996)
Racamier
P.C. Lo psicoanalista senza divano. (Cortina, Milano. 1982)
Rubino
A. Storie ritrovate. Da casi clinici a storie di vita narrate da sé
medesimi. (www.psiconline.it ,
2005)
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