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CORSO DI ADDESTRAMENTO ALLA COMUNICAZIONE ASSERTIVA

(come gestire i conflitti)

Il corso ha ottenuto 12 crediti ECM per tutte le professioni sanitarie e il riconoscimento dall'Ufficio Scolastico Regionale per il Lazio

OBESITA’, EPIDEMIA DEL TERZO MILLENNIO, INTERPRETAZIONE DELLA PSICOGENESI

di Mariantonietta Fabbricatore

1. INTRODUZIONE

Negli ultimi decenni stiamo vivendo un paradosso costituito dal fatto che metà della popolazione mondiale soffre e muore di fame mentre l’altra metà soffre e muore per le conseguenze della sovralimentazione. Tra le conseguenze più importanti dei consumi alimentari eccessivi sono da considerarsi condizioni come l’obesità ed il sovrappeso. Attualmente l’obesità è stata riconosciuta nel novero delle malattie ed è stata definita “una patologia cronica multifattoriale a componente multigenica sulla quale intervengono fattori ambientali in grado di determinarne l’espressione clinica, la cui manifestazione più evidente è rappresentata dall’aumento del peso corporeo, dovuto ad un eccessivo accumulo del tessuto grasso di deposito”. (1) Quindi l’obesità è una condizione patologica nuova, da un punto di vista filogenetico, ed è opinione comune che stia per diventare uno dei primi cinque problemi di salute pubblica. Infatti in numerosi studi scientifici condotti sull’argomento è stato dimostrato che il sovrappeso e l’obesità sono condizioni che causano un incremento significativo del rischio di morbosità per ipertensione, dislipidemia, diabete di tipo 2, patologia cardio-vascolare, ictus, calcolosi biliare, patologia osteo-articolare, sleep apnea e altre patologie polmonari, tumori dell’endometrio, della mammella, della prostata e del colon (2). Negli Stati Uniti il sovrappeso e l’obesità sono stati definiti la seconda causa di morte “potenzialmente prevenibile”, infatti è stato dimostrato che la diminuzione del peso corporeo in soggetti in sovrappeso e obesi riduce il rischio di diabete di tipo 2 e patologia cardiovascolare, è stata rilevata anche la riduzione della pressione arteriosa sia in soggetti ipertesi che normotesi, della glicemia indipendentemente dal livello basale ed anche è stato registrato un decremento dei valori ematici dei trigliceridi e del colesterolo totale. D’altro canto è certo che valori di peso corporeo superiori alla norma sono associati ad incremento di tutte le cause di morte. (3) Il continuo aumento negli indici di prevalenza del sovrappeso e dell’obesità si stà registrando a partire dagli anni ‘60, sia nel sesso maschile che in quello femminile. I dati sono attualmente allarmanti anche nella popolazione giovane che sembra essere una categoria particolarmente a rischio. Negli ultimi 10 anni in Italia la percentuale di soggetti in sovrappeso ed obesi è salita al 54,9% nella popolazione adulta con età uguale o maggiore a 20 anni (4). I dati di prevalenza registrati in Italia sono sovrapponibili a quelli rilevati nel Nord America ed in Europa. L’aumento del peso corporeo quindi è un evento esplosivo che ha raggiunto un incremento del 50% negli ultimi 5-7 anni. L’ Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ritiene che l’obesità stia diventando un problema globale, tanto che è stata coniata al riguardo l’espressione di “epidemia globale”. Infine è stato stimato che il persistere del trend attuale, entro qualche decennio, porterà tutti gli abitanti del mondo industrializzato ad essere obesi. (2).Tale situazione rappresenta un fatto nuovo ed allarmante e per questo motivo si è costituita, il 10 Marzo 1995 a Bruxelles, la International Obesity Task Force (IOTF) per creare una rete internazionale di esperti con il compito di mettere a fuoco il problema e sviluppare un consenso sulle azioni da programmare. Infatti il costo socio-economico dell’obesità rappresenta un problema di estrema attualità per la gestione della salute pubblica (3). Negli ultimi anni sono stati fatti notevoli progressi nello studio delle complicanze dell’obesità, è anche migliorata la conoscenza delle strategie di prevenzione e trattamento di questa condizione. Tuttavia, nonostante i successi teorici, non è stato ottenuto un controllo efficace sull’incidenza dell’obesità a livello della popolazione. Infatti le conoscenze sulla fisiopatologia dell’obesità sono ancora oggi incomplete e sembrano essere coinvolti diversi fattori: sociali, comportamentali, culturali, fisiologici, metabolici e genetici. Recentemente proprio a questi ultimi fattori genetici si è dedicata molta attenzione in quanto nei casi di obesità si sono osservate associazioni familiari e genetiche, il che ha fàtto ipotizzare la presenza di una predisposizione individuale. Tuttavia, anche se gli studi sull’ereditarietà indicano che il 70% circa della variabilità del peso corporeo umano è attribuibile a fattori genetici, non è possibile che i geni siano i soli responsabili dell’aumento dell’obesità poichè il pool genetico non si è modificato in maniera significativa negli ultimi 20 anni, mentre l’incidenza dell’obesità ha subito un incremento superiore al 30% nello stesso periodo. (5) Allora si è pensato che alcuni fattori comportamentali possano contribuire significativamente alla genesi dell’obesità e tali fattori, a differenza di quelli genetici, sono suscettibili di correzione. Tuttavia l’approccio terapeutico basato sui fattori ambientali e sulla modificazione delle abitudini alimentari e l’aumento dell’attività fisica, si è dimostrato inefficace. Infatti molti soggetti obesi riescono a ridurre il peso corporeo ma la maggior parte di essi non mantiene il calo ponderale per periodi superiori a qualche mese o un anno.(6-7) E allora il perchè sia così difficile trattare l’obesità nella pratica medica quando è così semplice teoreticamente rimane ancora un quesito senza risposta e tale condizione patologica è ancora oggi ritenuta non curabile o necessitante di un trattamento continuativo per tutta la durata della vita. Infatti il maggior problema, nel trattamento dell’obesità, è mantenere il calo ponderale ottenuto e le ricadute sono forse il fattore più importante nel fallimento della terapia. Ma quali sono le forze che conducono alla ricaduta? (8) Per tutti gli esseri viventi mangiare è una necessità vitale; mangiare e bere sono pulsioni naturali attraverso le quali l’ organismo riceve l’energia e il nutrimento che è incapace di sintetizzare. Mangiare e bere però non sono solo atti fisiologici ma possono essere considerate esperienze psicofisiche, infatti per la psiche essi rappresentano un’esperienza, ovvero l’appagamento di un desiderio. Il cibo quindi è utilizzato dagli esseri umani primariamente per la nutrizione, ma questo uso è solo il primo tra molti. Esiste da sempre anche un uso non alimentare del cibo legato ai costumi sociali, culturali e simbolici che derivano dalle concezioni della vita, dalle credenze, dai valori, dai gusti che caratterizzano una determinata società. Se è vero che la nutrizione si pone come una necessità derivante dalla fisiologia umana, è anche vero che le risposte a questo bisogno sono condizionate dal contesto socio-culturale e possono essere considerate risposte sociali e culturali. Inoltre non si può trascurare il fatto che nella quasi totalità dei casi l’obesità non dipende da fattori organici ma si presenta collegata ad una alterazione del comportamento alimentare le cui origini andrebbero ricercate nella sfera psichica. Infatti solo l’uomo, proprio perchè usa il cibo anche per finalità diverse da quelle nutritive, sperimenta la condizione dell’obesità che è sconosciuta tra gli animali, anche tra i primati, ad eccezione di quelli che vivono in cattività. Pertanto in questi ultimi anni stà diventando sempre più evidente il fatto che occorre affiancare alla dietoterapia un trattamento psicologico mirato ad individuare e rimuovere le cause che rendono difficile per il paziente assumere le giuste quantità di cibo e mantenere il suo peso su valori vicini alla norma.(9) Quindi nella sovralimentazione capire il “perchè” di tale comportamento è di importanza fondamentale e tentare di capire le ragioni del paziente può aiutare nel cambiamento di alcune di queste e dei pensieri che spingono a sovralimentarsi, d’altra parte è evidente che ignorare le ragioni della sovralimentazione non porta alla sua scomparsa ed alla fine si assiste al fallimento anche della dieta meglio strutturata.Per far fronte a questa emergenza medica, dopo decenni durante i quali la risposta ottenuta dal soggetto in eccesso ponderale era essenzialmente una prescrizione dietetica, si sono sviluppate strategie che pongono al centro del processo terapeutico l’individuo in eccesso ponderale valutando i suoi aspetti psicologici e comportamentali. Pertanto le tematiche relative al comportamento alimentare disfunzionale sono state oggetto di diversi studi e ricerche in ambito psicologico che hanno cercato di individuare i tratti di personalità e gli stili relazionali collegati ad un comportamento alimentare disfunzionale. I principali modelli psicologici: psicoanalitico, relazionale sistemico, comportamentale e cognitivo, da punti di vista differenti hanno descritto le possibili cause eziopatogenetiche e gli interventi terapeutici per l’obesità.

2.1 L’impostazione psicodinamica-psicoanalitica.

La psicoanalisi ha offerto importanti contributi all’interpretazione del comportamento alimentare alterato rapportandolo alle diverse fasi del ciclo vitale. Secondo i primi modelli interpretativi della impostazione psicodinamica, si nasce immaturi e dipendenti dalla figura materna, durante il primo anno di vita il bambino, attraverso la fase orale dello sviluppo psicosessuale, trova piacere ed entra in contatto con il mondo principalmente con la bocca, considerata la prima zona erogena. L’atto della suzione rappresenta la prima espressione della pulsione sessuale e il seno materno è considerato il primo oggetto attraverso il quale si prova piacere. Tramite la suzione del seno viene soddisfatto il bisogno fisiologico di nutrimento ma si provano anche le prime emozioni e si fanno le prime esperienze di soddisfazione e di insoddisfazione, di piacere e dispiacere. Pertanto un individuo che abbia provato, durante questo primo periodo dello sviluppo definito “orale”, un piacere intenso e indisturbato nel contatto con il cibo, nell’età adulta non ricorrerà, di fronte alle difficoltà della vita, alle soddisfazioni orali come unica modalità da contrapporre alla sofferenza e per provare piacere. Viceversa, se l’appagamento delle pulsioni orali è stato frustrato, sarà favorito l’instaurarsi di comportamenti nei quali saranno osservabili delle modalità di funzionamento tipiche dello stadio orale. Pertanto, secondo questo modello teorico, il ricorrere al cibo sarebbe la principale strategia di adattamento di fronte a situazioni problematiche ed emotivamente coinvolgenti.(12, 13, 14). L’obesità, così come i disturbi del comportamento alimentare in genere, sono visti dunque come la manifestazione di un mancato o insoddisfacente superamento della fase orale dello sviluppo psicosessuale (15, 16). Tuttavia l’idea di un neonato passivo la cui psiche è come una “tabula rasa” non sembra corrispondere con quello più attuale che considera il lattante come un essere attivo e agente. Fin dal primo momento il nuovo nato è ben inserito nella realtà e instaura con la madre una comunicazione reciproca e, come l’adulto, vive in un mondo al quale adatta il suo comportamento (17, 18, 19). Per svilupparsi normalmente il lattante non ha bisogno solo di essere nutrito e tenuto pulito, ma anche di affetto e di tenerezze. E’ stato Winnicot (20) che ha sottolineato per primo la necessità dell’empatia materna per il corretto sviluppo del bambino. Secondo Winnicot la madre trasmetterebbe il suo affetto al lattante non solo nutrendolo e accompagnando l’allattamento con gesti e parole affettuose ma anche attraverso i contatti corporei che si stabiliscono fra madre e figlio. Sarebbero questi contatti che permetterebbero al lattante di formare una specie di “membrana di delimitazione” sovrapponibile all’epidermide ed è in questo modo che si formerebbe la percezione della propria identità ed il concetto di esterno e interno. Ma affinchè questo processo avvenga in modo corretto è necessario anche che l’offerta materna sia adeguata alle richieste del bambino. Una madre incapace di capire le necessità del bambino non è in empatia con lui e rispondendo immediatamente a ogni richiesta con il cibo, per l’ ansia di soddisfare ogni bisogno del suo, altera il processo di apprendimento.(20) Una interpretazione del tutto simile alla precedente si ritrova nel modello psicogenetico dell’obesità proposto dalla ricercatrice Hilde Bruch (21) che ha sottolineato l’importanza delle modalità di interazione madre-bambino ed ha evidenziato la frequente incapacità delle figure genitoriali a riconoscere adeguatamente i bisogni del bambino. Infatti il cibo a volte può rappresentare il principale strumento per rispondere alle diverse esigenze infantili ma il bambino, abituandosi a riceverlo in modo indipendente dai suoi bisogni, può diventare da un lato incapace di discriminare le sensazioni di fame e sazietà, dall’altro può sviluppare la tendenza ad usare passivamente il cibo ogniqualvolta si trovi a provare sensazioni sgradevoli. Da quanto esposto si deduce che la fame, da sempre considerata una pulsione o sensazione innata, nei pazienti con disturbi del comportamento alimentare, viene percepita in maniera anomala. L’indagine su questo problema ha portato quindi a riconoscere che l’esperienza della fame non è innata ma è condizionata dall’ apprendimento. Informazioni riguardanti le esperienze alimentari precoci e tardive confermano che la funzione della nutrizione deve essere appresa e che il processo di apprendimento può deviare se le risposte dell’ambiente e le comunicazioni verbali e concettuali che lo accompagnano sono tali da confondere le idee e da indurre in errore. Se il processo dello sviluppo procede bene il bambino impara ad identificare esattamente i suoi bisogni fisici e a soddisfarli in modi biologicamente appropriati e nello stesso tempo adeguati al suo ambiente sociale e culturale. Ma se le necessità innate del bambino sono fuori fase con le risposte dell’ambiente ne risulterà una confusione che renderà incerta la sua consapevolezza concettuale. In questo caso il soggetto non sà distinguere quando ha fame e quando è sazio, nè distingue il bisogno di nutrimento da altre sensazioni o sentimenti di disagio. Perciò occorrono segnali provenienti dall’esterno per sapere quando e quanto si deve mangiare. Hilde Bruch (21) ha formulato un modello di sviluppo evolutivo del bambino basato sull’integrazione di fattori innati e fattori derivanti dall’esperienza. Come già è stato detto, pur essendo immaturo il neonato non è del tutto impotente o completamente dipendente. La sua apparente impotenza è dovuta alla sua immaturità funzionale e soprattutto alla incapacità di spostarsi. Tuttavia il bambino fin dalla nascita è un essere dotato di notevoli facoltà: vede, sente, percepisce gli odori, è sensibile al dolore e al tatto ed è capace di succhiare qualcosa che gli venga messo a contatto con la bocca. Il pianto è il suo strumento più importante poichè con questo mezzo segnala i suoi malesseri, i desideri e le necessità. Il modo in cui si risponde al suo pianto sembra essere il fattore decisivo nel rendere consapevole il bambino dei propri bisogni. Pertanto Hilde Bruch (21) ha individuato due caratteristiche fondamentali per l’insorgenza di gravi disturbi del comportamento alimentare: la prima è rappresentata dall’incapacità di riconoscere la fame e altre sensazioni fisiche e la seconda è la mancata consapevolezza di vivere la propria vita. Il processo di apprendimento del comportamento alimentare ha inizio alla nascita ma non riguarda solo la prima infanzia, interessa anche tutta la fanciullezza e il suo contenuto riguarda tutta la vasta gamma delle esperienze che caratterizzano la vita umana. Quanto più vasta sarà stata l’area delle risposte appropriate alle svariate espressioni delle sue necessità e dei suoi impulsi tanto più il bambino sarà in grado di differenziare e identificare le sue esperienze fisiche e altre sensazioni. La mancanza di risposte congrue alle sue necessità priva il bambino, che si sviluppa, delle basi essenziali su cui costruire la propria “identità fisica” e la consapevolezza percettiva e concettuale delle proprie funzioni. In questo modello teorico dell’interazione tra figlio e madre il bambino è considerato “partecipante attivo” del suo sviluppo e la consapevolezza di sè come individuo a sè stante può nascere solo dall’esperienza e dalla continua interazione con quanto lo circonda. A riguardo della seconda caratteristica dei pazienti con disordini della condotta alimentare Bruch H. spiega che ogni madre esprime il concetto che ha del proprio bambino attraverso la maniera di alimentarlo e a lungo andare lo comunica al bambino. Così il modo di dar da mangiare al bambino diventa un sistema di messaggi che informano il bambino di ciò che la madre pensa di lui e di ciò che lo circonda. Un tratto comune delle madri di giovani con disturbi del comportamento alimentare era proprio quello di aver imposto al figlio il proprio concetto rispetto a quelli che sarebbero stati i suoi bisogni. Spesso il bambino è considerato un bene prezioso a cui si debbono le cure migliori ma nello stesso tempo non gli viene riconosciuta la propria individualità. Se i genitori non accettano le scelte alimentari del figlio e fanno prevalere sui bisogni e desideri del bambino i loro schemi educativi e le loro convinzioni alimentari operano una prima forzatura della personalità del bambino che si trasformerà successivamente nel mancato riconoscimento delle sue scelte di vita (21) Quindi i disturbi della percezione della fame si sviluppano da inesatti modelli di feedback reciproco nei rapporti tra madre e figlio.Molto interessanti sono gli studi di Montecchi (23) a riguardo delle origini psicologiche e psicodinamiche dei disturbi del comportamento alimentare nei quali si sostiene che la vita del bambino inizia già prima della sua nascita biologica, infatti alla nascita egli ha già un gran numero di informazioni ed esperienze emotive che ha ricevuto ed accumulato sin dal momento del concepimento. Queste esperienze vengono trasmesse dalla madre attraverso canali sensoriali e vascolari. Ogni variazione dello stato fisico e dello stato emotivo materno viene percepita dal feto come un messaggio piacevole o spiacevole, e questa è già una prima forma di comunicazione con la madre. La madre non comunica al figlio solo le proprie esperienze personali ma svolge anche un ruolo di mediatore tra il feto ed il mondo esterno nel senso che nella comunicazione tra madre e figlio sono presenti elementi relativi alle storie personali dei genitori, al momento evolutivo della coppia e ai rapporti sociali che questa intrattiene. Spesso il bambino è vissuto fantasticamente dai genitori e da quanti fanno parte del nucleo familiare prima ancora del suo concepimento. Si forma in questo modo l’immagine di un bambino diverso da quello che sarà il bambino reale, carica di contenuti emotivi, che alla nascita peserà sul bambino reale. Nei mesi di gravidanza la madre deve confrontarsi con la propria trasformazione corporea e con la percezione fisica del feto. Le esperienze fatte in questa fase rappresentano la base della comunicazione che si instaurerà successivamente tra la madre ed il suo bambino, ed è questo, secondo Montecchi (23), il primo passo che porterà la madre a comprendere empaticamente i bisogni del nascituro e a provvedervi nella giusta misura. La gravidanza è un momento particolarmente importante nella vita della donna infatti sembra riattivare la memoria inconscia della propria nascita e del rapporto instaurato con la propria madre (24). Questo movimento regressivo è considerato funzionale per l’acquisizione della capacità di comprendere empaticamente il figlio e per sviluppare quella funzione che Winnicott (20) ha definito “preoccupazione materna primaria”. Questa funzioni viene appresa regredendo alla propria esperienza di figlia e di feto. Secondo Montecchi se la donna ha avuto però un rapporto difficile con la propria madre la regressione acquisterà caratteri più o meno problematici, che potranno fare da base all’insorgenza di disturbi nel figlio fino alla eventuale strutturazione di una patologia. Pertanto la regressione è da un lato funzionale alla donna per acquisire le competenze e le capacità necessarie ad assumere la sua funzione materna ma dall’altra causa un ripristino delle proprie aree psichiche problematiche, che rendono difficile proprio l’acquisizione delle competenze materne. La futura madre ha bisogno di essere aiutata a vivere questa fase e la possibilità di una trasformazione della situazione passa attraverso il terzo componente della famiglia: il partner. Il futuro padre dovrebbe assumere il ruolo di tramite tra la madre e il mondo esterno, e diventare l’elemento trasformante delle angosce presenti nello spazio psichico della donna. In questa fase spetta al padre il compito di fornire alla donna il modello corretto da utilizzare nella costruzione del rapporto con il figlio. Tuttavia può succedere che questa funzione paterna, come quella materna, possa essere alterata da pensieri angosciosi, infatti esiste anche un mondo fantastico del padre che sottende problematiche irrisolte. La gravidanza può rappresentare un momento critico nella vita e nella relazione della coppia e può fare insorgere delle risposte emotive anche nel padre. Se ad esempio la donna assume nella mente del partner delle valenze materne, egli può percepire il figlio, con sentimenti di gelosia e rivalità come se si trattasse di un fratellino. Altre volte il padre può invidiare il fatto che la gravidanza rappresenti una esperienza che assegna alla donna un primato e per contrastare questa situazione rende sempre più competitivo il loro rapporto. Però spesso l’unica area in cui l’uomo sente di poter superare la creatività femminile è quella del lavoro e pertanto succede che si impegna di più nella vita professionale, con la conseguenza di lasciare sola la compagna con le proprie paure (24).Per Montecchi (23) dopo la nascita inizia per il lattante, attraverso l’alimentazione, un processo di apprendimento che si estende a molte funzioni. Infatti nel lattante la cavità orale ha due diverse funzioni, entrambe fondamentali per la sopravvivenza, la prima è la suzione necessaria per la sopravvivenza fisica, la seconda è la percezione del contatto che fa da base allo sviluppo delle altre modalità percettive che sono il gusto, l’odorato, la vista e l’udito.Renate Gockel (25) riconosce all’atto di mangiare anche una terza funzione rappresentata dalla risoluzione della tensione ottenuta con l’appagamento della mucosa orale mediante il movimento delle labbra, della lingua, del palato e della gola determinato dalla suzione. Avere rapporti, contatti e mangiare sono una forma di scambio attraverso l’epidermide e la bocca. Quindi oltre ad avere una funzione nutritiva ed essere fonte di piacere-diaspiacere, l’attività orale rappresenta una forma primitiva di conoscenza e di rapporto con il mondo esterno. In conseguenza di ciò se la prima relazione del bambino con il mondo esterno è mediata dalla cavità orale, ne consegue che l’affettività legata alle prime esperienze alimentari può influire sul comportamento alimentare molto più delle caratteristiche organolettiche dell’alimento. Durante l’allattamento il neonato fissa costantemente il volto materno e questo contatto visivo crea un legame specifico tra madre e figlio e quindi la soddisfazione dei bisogni alimentari costituisce per la madre la situazione tramite la quale insegnare il piacere al figlio. Infatti attraverso la relazione alimentare vengono sperimentate dal bambino le prime esperienze di soddisfazione e di frustrazione, di piacere e di dispiacere. In un rapporto problematico tra madre e figlio, il cibo e la modalità di alimentazione assumono significati simbolici diversi che influenzano la capacità di provare piacere. Il comportamento alimentare è quindi il risultato di influenze precoci che però possono avere effetti duraturi non soltanto sul comportamento psichico ma anche sulle caratteristiche anatomo-fisiologiche e metaboliche dell’adulto.(25) E’ stato detto prima che tutte le esperienze della prima infanzia si basano sulle reazioni della madre nei confronti del neonato, tuttavia per il bambino non sono importanti i singoli comportamenti ma è il clima emotivo generale e l’atteggiamento che la madre ha verso di lui che viene percepito in maniera globale. Se la madre si comporta amorevolmente anche il bambino si sente degno di amore; se al contrario manifesta ostilità neanche lui sarà capace di amarsi. Tutte le sensazioni provenienti dall’interno del corpo e dal contatto durante l’allattamento contribuiscono a formare il nucleo dell’Io e sembrano restare il punto centrale da cui deriva l’autostima (25). Attraverso il clima emotivo che la madre instaura nel rapporto con il figlio viene trasmessa al bambino l’immagine emotiva del mondo. Il bambino apprende direttamente dalla madre se qualcosa è buono o cattivo, disgustoso o affascinante, pulito o sporco e dalle valutazioni della madre deriva l’atteggiamento del bambino verso il proprio corpo, il suo senso di autostima e il suo atteggiamento nei confronti della vita. Con il processo della crescita prende avvio anche un processo di distacco e di individuazione, che si esprime con la capacità di allontanarsi dalla madre grazie anche alla possibilità di muoversi e di camminare. Il processo di individuazione è caratterizzato da una autonomia sempre maggiore a livello psichico. In questo periodo il bambino oltre al bisogno di essere accudito avverte un crescente bisogno di scoprire. Con il passare dei mesi aumenta la sicurezza e la distanza che raggiunge diviene sempre maggiore. Il bambino si allontana volentieri dalla madre ma ha bisogno che questa sia sempre visibile. Il sapere che la madre esiste dà fiducia al bambino. Dal canto suo la madre deve consentire al piccolo di esplorare il proprio mondo, deve lasciarlo andare e frenare il suo bisogno di controllo sorvegliando però che non gli accada nulla. Da quanto esposto si comprende che, anche se il momento dell’allattamento rappresenta per un essere umano il massimo della protezione, un equilibrato processo di distacco e di individuazione costituisce il presupposto per un sicuro sviluppo della propria identità. Se questo processo non è riuscito tutte le fasi successive ne saranno disturbate ed allora invece dell’autonomia e di un atteggiamento attivo nei confronti della vita si determinerà un atteggiamento passivo di attesa e di bisogno e si sperimenta una enorme paura della separazione e dello stare da soli. Renate Gockel (25) ha osservato che le donne con alterazioni nell’alimentazione hanno una capacità di sopportazione molto ridotta nei rapporti interpersonali, vivono male le separazioni anche temporanee perchè non hanno fiducia in se stesse, precipitano nel panico e avvertono una profonda tristezza che spesso conduce alla depressione. Le difficoltà sperimentate da queste donne nell’accettare i distacchi e le separazioni, o anche opinioni contrastanti rappresentano il loro desiderio di tenere stretto e cioè aggrapparsi Dopo la nascita succhiare e aggrapparsi sono le prime attività che garantiscono la sopravvivenza e, poichè entrambi questi atti sono associati a protezione calore, contatto fisico e intimità, è da supporre che qualcuna continui anche in seguito, da adulta, a succhiare e aggrapparsi in senso figurato, a cercare calore e intimità e protezione manovrando le altre persone, facendole sentire in colpa, affinchè corrispondano alle proprie esigenze e aspettative e gli attacchi di fame rappresentano un succedaneo del desiderio di succhiare. E poichè queste donne spesso desiderano vicinanza, calore, protezione e accettazione incondizionata, ne consegue che aspirano a ritornare alla condizione originaria dell’allattamento. Queste persone cercano, in determinate occasioni, di recuperare qualcosa che da bambini non hanno vissuto in maniera adeguata.Un processo di crescita si può considerare ben riuscito solo nel momento in cui il bambino si stacca da sè e alterna, senza timori, la conquista del mondo e la ricerca di sicurezza nella madre. Ciò non significa che il bambino non abbia vissuto nessuna frustazione, infatti frustrazioni e privazioni sono necessarie alla crescita in quanto in seguito alle frustrazioni l’uomo impara più rapidamente. Tuttavia deve trattarsi di una frustrazione che il bambino è in grado di tollerare e quello che un bambino non riesce a sopportare è sicuramente la paura di perdere la madre o di essere abbandonato. Pertanto un altro fattore importante di un processo di crescita ben riuscito è la fiducia del bambino nel fatto che la madre sia disponibile, che lo ami così com’è, che rispetti i suoi bisogni. Durante la sua crescita il bambino inizia a formarsi il concetto di realtà, impara gradualmente a sopportare i fallimenti e a programmare i desideri istintivi. Si passa così dalla fase di adattamento all’ambiente circostante a quella dell’adattamento dell’ambiente ai propri bisogni e desideri e si forma il concetto di ambiente legato allo sviluppo motorio, il bambino impara a compiere azioni finalizzate ad uno scopo attraverso tentativi ed errori, ragionamenti logici ed imitazione di comportamenti altrui. Questo processo di apprendimento gli consente di capire la differenza tra il suo comportamento, e le reazioni materne e, con lo sviluppo della sua personalità, inizia a riconoscere che la madre emette comportamenti contrastanti pur restando sempre la stessa. Tuttavia la sintesi tra madre buona e madre cattiva può avvenire solo se la madre permette al bambino di manifestare l’aggressività nei confronti della madre cattiva. In questo modo il bambino apprende che può esternare le proprie reazioni pur continuando ad essere amato. L’aggressività del piccolo non è diretta contro la persona della madre ma contro il fatto che lei non abbia soddisfatto un suo desiderio opponendosi al suo impulso di conquista. Se la madre interpreta le attività del bambino rivolte contro la propria persona la sua immagine di “buona madre con un figlio obbediente” viene messa in discussione. La reazione allora di fronte al figlio cattivo sarà quella di suscitare in lui sensi di colpa minacciandolo di non volergli più bene pertanto il bambino, per non perdere la madre modificherà il proprio comportamento reprimendo una parte della propria percezione. Tracce di queste modalità di comportamento sono state osservate in molte donne con disordini alimentari infatti queste provano dei sensi di colpa quando si comportano in modo egoistico. Spesso non osano modificare la propria vita per renderla più soddisfacente, si tirano indietro perché percepiscono che decisioni in questo senso le allontana dalla madre, dalle sue regole e abitudini; sono scelte che portano verso l’indipendenza vera, ma conducono fuori dalla simbiosi e tutto questo non riesce loro facile.Anche gli attacchi di fame sono funzionali a mantenere questa illusione dell’antica simbiosi, il cibo è l’oggetto che si identifica con la madre affidabile, sempre disponibile che non pianta mai in asso.Il primo incontro dei genitori con l’ individualità del figlio passa attraverso l’alimentazione che, oltre a costituire per il bambino una modalità relazionale che lo apre alla conoscenza del mondo, è anche la prima rappresentazione di uno spazio decisionale tipicamente individuale (23). Infatti, è stato già detto che se i genitori non accettano le scelte alimentari del figlio questa prima forzatura della personalità del bambino successivamente si esprimerà con il disconoscimento delle sue scelte di vita (21). Inoltre l’eccessiva importanza assegnata dai genitori a regole rigide sulle quantità e la qualità del cibo, sugli intervalli tra i pasti, la paura della superalimentazione o della sottoalimentazione creano disagio in questi bambini che si manifesterà successivamente nei vari quadri della patologia alimentare.Le interpretazioni basate sulla teoria freudiana degli stadi oggi non possono essere utilizzate in quanto sono risultate in contrasto con i progressi della biologia e delle scienze umane, e con l’evoluzione di pensiero avvenuta nel contesto dello stesso movimento psicoanalitico. Il modello psicopatologico dell’obesità proposto dalla Bruch, anche se molto affascinante, è stato in seguito criticato e le sue osservazioni non hanno trovato univoche conferme sperimentali. Tuttavia i suoi studi hanno posto in rilievo la difficoltà, nelle persone con disordini alimentari, a riconoscere adeguatamente le proprie sensazioni corporee, ed in particolare quella della fame e della sazietà, ed includere nel termine “fame” bisogni, sensazioni o stati emotivi diversi tra loro, fenomeni frequentemente riscontrabili in molti soggetti obesi.Anche agli altri modelli interpretativi dell’approccio psicodinamico non hanno fatto seguito conferme sperimentali, nè hanno fornito schemi di intervento terapeutico che si siano dimostrati specificamente efficaci se applicati a soggetti obesi nel determinare una di perdita di peso, o una modifica dello stile alimentare con il successivo miglioramento della qualità della vita.

2.2 La prospettiva relazionale-sistemica.

La prospettiva relazionale sistemica studia l’individuo inserito nel suo contesto, pertanto l’indagine non è orientata solo sull’individuo ma si osserva l’individuo nel suo ambiente fisico, biologico e sociale. Pertanto la prospettiva sistemica interpreta l’obesità come una condizione connessa con i modelli relazionali in cui l’individuo è immerso nella vita di tutti i giorni (27). La differenza con gli altri approcci psicoterapeutici consiste nel fatto che questi focalizzano l’attenzione sulla ricerca delle componenti elementari che giustificano l’obesità, mentre il modello sistemico dirige la sua attenzione sul ruolo che l’obesità riveste all’interno delle relazioni, vale a dire che viene ricercata l’influenza della interazione sociale sull’alimentazione (28). Il modello sistemico dà grande rilievo alla famiglia che costituisce l’ oggetto di studio e di intervento: l’obesità quindi viene affrontata tenendo conto del significato che essa assume oltre che per l’individuo anche per gli altri membri della famiglia (29). Alcuni Autori hanno avanzato l’ipotesi che l’obesità e l’iperfagia sarebbero la conseguenza di relazioni complesse e spesso alterate all’interno della famiglia per cui il cibo è usato non solo per soddisfare il bisogno fisiologico ma diventa un mezzo per esprimere affetto o per creare alleanze (29, 30). L’obesità all’interno della famiglia rappresenta una perturbazione che agisce su tutti i familiari, che, a loro volta, rispondono con azioni e comportamenti che si ripercuotono sull’obeso. Una recente evoluzione del pensiero e della pratica sistemica è stata proposta da Ugazio (31) partendo dall’ipotesi di fondo che una organizzazione psicopatologica si sviluppa in un interno familiare caratterizzato da una specifica semantica. Lo sviluppo dei disturbi del comportamento alimentare e dell’obesità così come di ogni altra psicopatologia, dipende dalla posizione che l’individuo e le persone per lui significative assumono rispetto alla polarità critica. In particolare i pazienti con disturbo alimentare stabiliscono le loro relazioni come forme di “adeguamento” o di “opposizione” all’altro e alle sue richieste. Ma la relazione che si stabilisce con l’altro è centrale per la formazione del proprio sè: nel senso che tutti i componenti del nucleo familiare sono attenti al giudizio degli altri, alle apparenze sociali e diventa importante chi ottiene la supremazia, mentre il contenuto del conflitto risulta irrilevante.Bertrando e coll.(32) hanno individuato la presenza di due messaggi nascosti dietro la condizione dell’obesità: il primo è una richiesta di aiuto mentre il secondo è un atteggiamento di difesa. In famiglie dove vige una povertà comunicativa il messaggio veicolato dal corpo può avere, all’interno del sistema famiglia, una funzione di richiesta di cambiamento. Il modello interpretativo proposto da Minuchin (33) identifica quattro tipi di situazioni familiari in grado di favorire l’insorgenza di sintomi psicopatologici, tra i quali anche l’obesità, esse sono: l’invischiamento, la rigidità, l’iperprotettività e la mancanza di risoluzione del conflitto. La combinazione e la ripetitività di queste condizioni può far sviluppare un sistema familiare che favorisce la “trasformazione di conflitti emotivi in sintomi-somatici” dove il bambino o l’adolescente portatori del sintomo possono svolgere un ruolo nel nascondere il conflitto familiare e mantenere in equilibrio il sistema. In sintesi si può dire che la terapia sistemica studia il “sistema di relazioni” e le dinamiche interpersonali collegate al disagio psichico, all’interno di un primo gruppo sociale rappresentato dalla famiglia. Pertanto l’intervento terapeutico è basato sulla individuazione e sulla ristrutturazione delle relazioni e della comunicazione nella famiglia del paziente portatore del sintomo. Al momento è in studio l’applicazione di un modello di terapia familiare efficace nel trattamento dell’obesità nelle diverse età della vita (2).

2.3 L’impostazione cognitivo comportamentale

La psicoterapia cognitivo comportamentale dell’ obesità è stata considerata, negli ultimi decenni, la metodica che maggiormente è stata capace di elaborare i dati dell’osservazione clinica mettendo a punto dei protocolli di intervento terapeutico di successo. La teoria comportamentista è nata negli Stati Uniti a partire dai primi decenni del Novecento, il suo obiettivo prioritario è la descrizione e lo studio dei sintomi psicologici osservabili e misurabili, definiti comportamenti, in relazione agli stimoli ambientali. In questa prospettiva, le variabili intrapsichiche assumono un ruolo marginale, in quanto considerate eventi non verificabili con metodi sperimentali. La sua vasta diffusione è da attribuibire alla semplicità del modello e alla possibilità di verifica sperimentale dei suoi principi base (34, 35). Il comportamento oggetto di studio è considerato il risultato di esperienze causate dalla necessità di fronteggiare gli stimoli provenienti dall’ambiente esterno. Il processo di apprendimento segue le leggi del condizionamento classico, descritto da Pavlov, e quelle del condizionamento operante, individuato da Skinner. (36) In prima istanza, nella scuola comportamentista, viene fatto un largo uso dell’analisi funzionale del comportamento. Questa metodica pone molta attenzione sull’importanza dell’osservazione considerata la tecnica migliore per studiare e identificare le relazioni funzionali esistenti tra un dato comportamento ed i suoi antecedenti e conseguenti. Il primo passo per effettuare una corretta analisi funzionale è la definizione e descrizione minuziosa del comportamento osservato. Successivamente si valuta e analizza l’esistenza di eventuali correlazioni significative tra quel comportamento ed eventi precedenti e successivi alla sua emissione. Applicando i principi teorici del comportamentismo, l’obesità è considerata il risultato di una ridotta attività fisica e di una eccessiva e persistente modalità di assunzione del cibo , appresa e successivamente mantenuta in modo quasi automatico. In particolare, lo stile alimentare dell’obeso fornisce dei rinforzi positivi o piacevoli strettamenti connessi con il cibo quali il soddisfacimento del gusto e della fame. Inoltre ci sono altri rinforzi, non direttamente connessi con il cibo e la fame, ma che sono altrettanto importanti nel favorire il mantenimento nel tempo del comportamento di ricerca ed assunzione del cibo, questi sono rappresentati dalla riduzione dell’ansia e della tristezza. In conseguenza di ciò, il mangiare e gli atti in relazione con l’assunzione del cibo diventano, proprio per la loro capacità di soddisfare dei bisogni e di ridurre il malessere, dei comportamenti spesso emessi con elevata frequenza, indipendentemente dalla reale necessità fisiologica di cibo, in una varietà di situazioni diverse tra di loro, che svolgono sia la funzione di stimolare il comportamento di assunzione del cibo, sia di rinforzarlo (37, 38). A partire da questi concetti di base, sono state sviluppate delle strategie terapeutiche che hanno, come punto di partenza l’analisi precisa, fatta insieme dal terapeuta e dal paziente, delle modalità e delle circostanze che caratterizzano il comportamento alimentare e gli altri comportamenti correlati all’obesità. L’analisi del comportamento disturbato consentirà sucessivamente una modifica dello stesso, andando ad agire sulle situazioni ambientali contingenti che lo determinano e lo rinforzano. La terapia del comportamento è orientata inoltre sugli obiettivi da raggiungere e la loro definizione accurata è un aspetto centrale dell’intervento. In tale prospettiva, il trattamento comportamentale si propone di modificare il comportamento problematico senza concentrare l’attenzione sulle cause e sulle motivazioni che ne sono alla base. Purtroppo è stato rilevato che con la sola terapia comportamentale la maggior parte dei pazienti recupera il peso corporeo perduto in circa tre anni (39) e pertanto attualmente l’evoluzione dell’approccio comportamentista è rappresentata dal modello cognitivo-comportamentale. Il modello teorico cognitivista si è sviluppato a partire dagli anni Sessanta, considera l’essere umano come un soggetto che elabora informazioni. In ambito sperimentale la psicologia cognitivista studia le funzioni psicologiche (percezione, pensiero, linguaggio) ed in ambito clinico si occupa della relazione tra conoscenza e comportamento. L’insieme dei significati personali elaborato dall’individuo condiziona il suo comportamento ed è responsabile di eventuali condotte disfunzionali e disadattive. L’applicazione di tecniche cognitiviste nel trattamento dell’obesità ha integrato i programmi comportamentali con un’analisi dei pensieri e delle emozioni che si legano all’assunzione del cibo, alla forma e al peso corporeo. L’attenzione in questo modo si sposta dall’ambiente verso il mondo interno del soggetto, pur mantenendo nei confronti dell’obesità un approccio pragmatico mirato alla perdita di peso. Questa verrà ottenuta quando il paziente sarà in grado di fronteggiare i propri pensieri e le proprie emozioni legate all’assunzione del cibo, più gli stimoli provenienti dall’ambiente. Viene dato meno significato quindi al determinismo ambientale del comportamentismo a favore di un tentativo più globale di comprendere i legami esistenti tra cibo, corpo, umore e pensieri (40, 41).La psicologia cognitivista, e la sua psicoterapia, sono largamente tributarie dell’opera di Aaron Beck, nell’ambito della cui opera particolare rilievo assume l’identificazione della cosiddetta “triade cognitiva”, definita dal modo in cui un individuo considera se stesso, il mondo ed il futuro (42). Le tecniche cognitive più frequentemente utilizzate nel trattamento dell’obesità sono rappresentate dalla ristrutturazione cognitiva e dal problem-solving. La prima (42) si basa sul riconoscimento di una serie di cognizioni che provocano stati emotivi negativi che sono state denominate “pensieri automatici”. Sono strutture di conoscenza pre-conscie, riconoscibili dall’individuo soltanto se vi presta attenzione, elaborate in seguito a errori cognitivi. Il carattere dell’ automaticità le rende difficili da individuare, infatti vengono date per scontate dal soggetto che le ha elaborate e non vengono poste minimamente in dubbio. La procedura terapeutica si conclude con la sostituzione graduale delle convinzioni disadattive con altre strutture di conoscenza più adattative e adeguate alla realtà.La tecnica del problem-solving, introdotta da D’Zurilla e Goldfiend (43), rappresenta un metodo sistematico per affrontare le difficoltà messe in evidenza con l’auto-monitoraggio. Permette al paziente di sviluppare una serie di abilità finalizzate a una gestione più funzionale di situazioni difficili. La procedura è suddivisa in alcune fasi, che devono essere ripetute nel tempo in modo da favorire il processo di apprendimento. Come è stato già anticipato, l’orientamento cognitivo comportamentale ha elaborato un protocollo terapeutico per la cura dell’obesità che è stato scientificamente verificato ed ha prodotto una vasta serie di casi risolti con successo e, inltre, ha dimostrato di favorire il mantenimento del peso corporeo perduto. Pertanto attualmente, nei protocolli terapeutici più innovativi ed efficaci, nella cura dell’obesità e del sovrappeso si prevede l’uso congiunto della dietoterapia e della psicoterapia cognitivo comportamentale.

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