NON
E' VER CESARE DE SILVESTRI ...il peggior di tutto i mali Lunghi anni di professione mi hanno portato più di una volta a discutere con pazienti che consideravano il suicidio una soluzione ai loro problemi esistenziali, finanziari, amorosi, eccetera. Ho parlato anche con pazienti terminali che anelavano a una fine rapida e indolore, ed ho visto ma non ho potuto parlare con pazienti terminali ridotti ormai a uno stato puramente vegetativo. Ho solo cercato di consolare i loro familiari che, come me, non capivano l'ostinato accanimento "terapeutico" di voler tenere in "vita" un organismo che non aveva più nulla di umano. Situazioni tutti importanti, difficili, spinose, intorno a cui si esercitano discussioni e polemiche di varia ispirazione filosofica, etica e morale, deontologica e professionale. In realtà, tutte riassunte e regolate in provvedimenti di natura politica, perché in proposito esistono leggi draconiane e severi articoli del codice penale.Particolarmente in questo paese, mentre in altri paesi civili sono in vigore e vengono applicate regole meno proibitive e circostanze attenuanti di vario genere, ed in alcuni di essi (Olanda, Australia, Svizzera, Oregon negli Stati Uniti) sono state recentemente approvate legislazione entro certi limiti ancor più liberali e permissive. Che fare? L'intenzione suicida può venir discussa con il paziente e spesso si rivela appunto soltanto un'intenzione. Talvolta si tratta di un atto di protesta o di ripicca, un tentativo di ricatto, di punizione o di vendetta. In questi casi non è impossibile far riflettere l'individuo e trovare con lui opzioni alternative meno drastiche e definitive. In altri casi può esser molto più difficile ma è sempre consigliabile evitare di opporsi irriducibilmente al progetto suicida del paziente. Conviene anzi prendere molto sul serio le sue motivazioni, che qualche volta sono credibili, impellenti e non privi di coerenza e ragionevolezza. Certo, si ha sempre a che fare con il bene esenziale che possiede l'individuo e quindi occorre esercitare ogni opportuno mezzo per farlo recedere da una decisione irreversibile. E se tutto fallisce, la perdita di una vita umana è sempre dolorosa e dolorosamente istruttiva sulla nostra pochezza professionale e sulla pochezza dei nostri mezzi.Nelle strettoie di una legislazione priva di ogni compassione ed ogni pietà per i malati terminali che chiedono di venir aiutati a porre termine alla loro tortura, siamo costretti a limitarci ad un sostegno psicologico il più delle volte poco efficace se non completamente inutile. Ma persino questo poco risulta impossibile con i terminali in stato vegetativo. Possiamo soltanto tentare di alleviare l'angoscia dei familiari che assistono impotenti alla lunga e insensata agonia di un loro congiunto.Poiché tuttavia, oltre ad essere psichiatri e psicoterapeuti, siamo anche cittadini ed esseri umani, possiamo sempre protestare e combattere contro lo stolto fanatismo ideologico che va ben oltre una già esecrabile indifferenza per assumere i disgustosi lineamenti della sadica crudeltà verso le sofferenze altrui. Ma di chi è questa vita? A me sembra che in ultima analisi la questioni fondamentale sia quella di stabilire se la vita appartiene all'individuo oppure appartiene ad altri (la società, lo Stato, o chicchessia). Per quanto mi riguarda, ho la precisa convinzione che questa vita è mia e soltanto mia. Essa è inoltre l'unica che ho, l'unica che lo mai avuto ed avrò mai, e che quindi va da me vissuta al meglio possibile, nonostante tutte i guai che purtroppo mi possono capitare. Mi ribello pertanto decisamente all'idea che una qualsiasi ingerenza estranea di qualsivoglia natura si arroghi la pretesa di dettarmi come ne devo disporre - da sano o da malato. Se qualcuno la pensa diversamente, ha tutto il diritto di credere a quello che gli pare, ma non ha certamente alcun diritto d'impormi la sua opinione su questo o qualsiasi altro argomento.
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