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LA DEPRESSIONE NELL’ANZIANO

  Alessandro Lombardo

 

Tale argomento di grande attualità riveste particolare interesse, per l’aumento dell’età media della popolazione, per le maggiori aspettative di sopravvivenza e per le richieste d’intervento a cui siamo chiamati a rispondere, sempre più frequenti in questa fase della vita.   Nonostante l’importanza sociale di questo disturbo, ancora non è chiara la percentuale di diffusione della depressione nell’anziano, che sembra oscillare tra il 3 ed il 12%, né quali siano le sue specifiche caratteristiche diagnostiche, di cui appaiono spesso confusi I confini con la patologia demenziale, ed anche quali siano i rapporti tra i disturbi psichici dell’anziano ed il normale processo d’invecchiamento cerebrale. Ciò è dovuto al fatto che la depressione nell’età senile è sempre stata considerata sulla scorta delle osservazioni e dei metodi d’indagine impiegati per quelli dell’età adulta, mentre gli studi più recenti tendono a riconoscere a questa patologia un’entità clinica a sé stante, nella quale particolare attenzione andrà posta alla concomitante presenza di malattie fisiche e alle particolari condizioni esistenziali dell’anziano.   Va sottolineato come lo studio dei fenomeni clinici e psicopatologici della senescenza coincida, frequentemente, con le problematiche del processo d’invecchiamento, interessando l’intero sistema relazionale dell’anziano.   La depressione in questa fase della vita è una sindrome complessa dal punto di vista sintomatologico ed eziopatogenetico, la cui presentazione clinica è tradizionalmente considerata “atipica” per la concomitanza, in varia misura, di elementi psicopatologici, neurologici ed internistici. Le caratteristiche sintomatologiche e di decorso indussero già Kraepelin a stigmatizzare una “Involutional Melancholia”. Questa insorgeva dopo i 45 anni in pazienti, che non riferivano familiarità per disturbi dell’umore e l’esordio della sindrome depressiva appariva correlato ad eventi stressanti psicologici o fisici; la sintomatologia era caratterizzata da ansia, agitazione e sintomi psicotici, quali deliri a sfondo persecutorio e ipocondriaco. Questa sindrome tendeva a sviluppare un decorso cronico con una frequente evoluzione demenziale e comprendeva inoltre un elevato rischio di suicidio. Lo stesso Kraepelin ipotizzò che le caratteristiche sintomatologiche e di decorso della “Involutional Melancholia” potessero derivare, almeno in parte, da concomitanti alterazioni cerebrali organiche.   In tempi più recenti il DSM-II, conservando la diagnosi “Melancolia Involutiva”, l’ha identificata con una sindrome depressiva con esordio dopo i 50 anni, tre volte più frequente nelle donne e caratterizzata da preoccupazione, ansia, agitazione e grave insonnia, nonché da sensi di colpa e preoccupazioni somatiche fino al delirio, associati ad evidenti disturbi cognitivi quali difficoltà di concentrazione ed attenzione. Frequente, secondo il manuale, un graduale impoverimento dell’ideazione.   Negli anni, la maggior parte degli studi sulla depressione dell’età senile ha escluso la necessità di classificarla come entità clinica a sé stante rispetto agli Episodi Depressivi Maggiori, osservati in altre fasce d’età. La tradizionale “atipicità” sintomatologica è risultata infatti significativamente ridimensionata, escludendo dalla popolazione clinica di anziani depressi, tutti i casi di comorbilità con malattie internistiche, neurologiche o con altri disturbi psichiatrici, quali i disturbi d’ansia e disturbi da abuso di sostanze. Ciò nonostante, nella pratica clinica alcune caratteristiche vanno riconosciute alle depressioni dell’anziano.  Possiamo pertanto riassumere che la fenomenologia della depressione tende a cambiare nel corso della vita, seppure in assenza di differenze macroscopiche, e che l’anziano sembra esprimere il vissuto depressivo in maniera peculiare.   Queste osservazioni non trovano ancora riscontro negli attuali sistemi diagnostico-classificativi: ad esempio, il DSM-IV indica aspetti sintomatologici specifici per la depressione in età infantile e adolescenziale, mentre non esiste una categoria o “sottotipo” per la depressione senile.   Un così ampio e prolungato dibattito sulla depressione dell’anziano ha condotto, nel 1996, ad un “Consensus Statement” del National Institute of Health” sulla diagnosi e terapia della depressione in età avanzata. Questo documento sancisce che la depressione nell’anziano è una patologia diffusa e grave, la cui prevalenza raggiunge il 25%, ed è caratterizzata da un decorso ricorrente nel 40% dei casi e da un elevato rischio suicidario. La prognosi della depressione dell’anziano non differisce sostanzialmente rispetto a quella del giovane, sebbene la remissione completa richieda spesso più tempo. La comorbilità con malattie internistiche viene considerata una caratteristica di questa sindrome e la diagnosi è spesso difficile proprio perché i disturbi somatici concomitanti possono polarizzare l’attenzione di medici e familiari. Inoltre, il paziente può lamentare solo sintomi poco specifici di depressione, piuttosto che umore depresso e disperazione. Se poi la sindrome depressiva è attenuata, questa viene quasi invariabilmente considerata un’inevitabile componente del vissuto psicologico dell’anziano. In base a queste osservazioni è comprensibile come la depressione dell’anziano venga raramente diagnosticata e curata; ciò comporta il progressivo deteriorarsi della qualità di vita in termini di un graduale isolamento socio-familiare e di una scarsa adesione al trattamento delle malattie internistiche concomitanti.   Quest’ultimo aspetto, unito al peggioramento delle condizioni somatiche che deriva dalla malattia depressiva in sé, incrementa sensibilmente il rischio di mortalità negli anziani depressi non curati.   Non è solo la comorbilità internistica e neurologica a interferire con la diagnosi e a condizionare la prognosi della depressione dell’anziano: in particolare sarebbero frequenti il Disturbo d’Ansia Generalizzata e, nelle donne, anche il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, mentre le condizioni di comorbilità depressione-Disturbo da Attacchi di Panico sarebbero meno frequenti nell’anziano rispetto alle altre fasce d’età.  

 

Eziopatogenesi

La depressione dell’anziano appare in genere meno correlata alla predisposizione genetica del paziente, che solitamente non presenta familiarità per disturbi dell’umore, mentre sarebbe più importante il ruolo degli eventi psicosociali stressanti, delle patologie fisiche associate, dei processi d’invecchiamento del Sistema Nervoso Centrale ed Endocrino.   La prima delle variabili ambientali è il “pensionamento”, il quale (vissuto come la conclusione della fase lavorativa della vita) è stato a lungo considerato un importante fattore scatente e talora precipitante. Il ridimensionamento delle disponibilità economiche, la perdita di un “ruolo” nella società produttiva, la maggiore disponibilità di tempo libero, sono stati visti come elementi potenzialmente destabilizzanti. Tuttavia, dalla maggioranza degli studi sulla depressione a esordio tardivo si deduce che il pensionamento in sé non costituisce un fattore di rischio significativo, mentre risulta più importante in tal senso il background socio-economico, che l’anziano trova a suo sostegno, quando smette di lavorare. La riduzione degli introiti e il cambiamento di ruolo legati alla cessazione naturale dell’attività lavorativa non influenzerebbero pertanto l’equilibrio psichico dell’anziano, soprattutto qualora egli conservi una sufficiente rete di conoscenze intra- ed extra-familiari e una sufficiente autonomia economica. Anche l’assenza di un coniuge o di un compagno, più volte indicata come elemento prognostico negativo per l’anziano depresso, rappresenterebbe un fattore di rischio “minore”. Il celibato e la vedovanza appaiono solo debolmente correlati al rischio di disturbi psicopatologici nell’anziano, anche se i sintomi depressivi in generi si riscontrano più frequentemente nei pazienti non sposati.   Blazer nel 1993 elencò i possibili meccanismi, che sottendono la relazione tra fattori ambientali e sviluppo di disturbi mentali in età avanzata:

1.      Gli stressor ambientali, anche positivi, possono favorire o causare lo sviluppo del disagio mentale.

2.      Gli stressor ambientali possono compromettere la salute fisica dell’anziano, che può reagire a questo declino sviluppando un disturbo psichiatrico.

3.      Gli stressor ambientali vissuti in giovane età potrbbero contribuire a cambiamenti fisici e psichici tali da predisporre allo sviluppo di un disturbo psichiatrico in età avanzata.

4.      L’isolamento sociale può, di per sé, favorire o causare lo sviluppo del disturbo.

5.      L’isolamento sociale può esaltare gli effetti degli eventuali stressor ambientali.

6.      L’assenza del coniuge o di un compagno può predisporre allo sviluppo di un disturbo psichiatrico in età avanzata.

Gli “stressor” psico-sociali non rappresentano elementi causali unici e sufficienti per la depressione nell’anziano. Vengono altresì riconosciute importanti concause quali i disturbi internistici o neurologici_ in particolare le alterazioni cerebrovascolari_ nonché l’eventuale predisposizione genetica ai disturbi dell’umore. Inoltre, anche in assenza di disturbi di rilievo clinico, l’invecchiamento cerebrale rappresenterebbe un importante fattore di rischio: l’osservazione che nel cervello del paziente depresso di qualunque età e in quello dell’anziano non depresso esistono alterazioni simili ha suggerito che l’invecchiamento cerebrale in sé possa predisporre alla depressione. Queste caratteristiche comuni sono: la ridotta latenza REM, l’iperattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, la ridotta concentrazione cerebrale di neutrasmettitori monoaminici.   Confrontando i “marker” biologici della depressione nelle diverse fasce d’età, sono stati individuati aspetti specifici per la depressione dell’anziano. I livelli di cortisolo plasmatico, ad esempio, sono superiori nell’anziano depresso rispetto ai pazienti più giovani e agli anziani non depressi; alcuni linfociti inoltre, risultano selettivamente ridotti nei soggetti anziani affetti da depressione. Anche alcune alterazioni morfologiche evidenziabili con le tecniche d’imaging sembrano caratterizzare la depressione ad esordio tardivo. Le indagini eseguite con la risonanza magnetica hanno fornito dati significativi sulla correlazione tra depressione dell’anziano e le alterazioni cerebrovascolari, da quelle minime fino alla leucoencefalopatia. Gli studi con la TAC hanno da tempo evidenziato I cambiamenti strutturali del cervello più di frequente legati all’invecchiamento, quali l’atrofia corticale progressiva, l’ampliamento dei ventricoli cerebrali laterali e le alterazioni cerebrovascolari in genere. Ricerche neuroradiologiche hanno evidenziato la localizzazione delle lesioni corticali negli anziani depressi e l’emisfero più frequentemente colpito è risultato essere il sinistro. In generale prevarrebbero le lesioni parietali, seguite da quelle frontali e temporali.

 

Il problema della diagnosi

L’importanza del ragionamento diagnostico nel corretto inquadramento della depressione dell’anziano deriva dalla mancanza di strumenti diagnostici oggettivi; infatti, per quanto una componente biologica in tali disturbi possa essere evidenziata, sul piano diagnostico osservazioni fenomenollogiche o livelli di calcolo probabilistico costituiscono gli unici mezzi a disposizione del clinico.   Dal punto di vista diagnostico si possono distinguere due aree: in una il problema della diagnostica differenziale non è particolarmente evidente, essendo rappresentata dall’insorgenza di episodi di depressione inquadrabili nel contesto di una patologia dell’umore in soggetti d’età avanzata. Tali episodi non presentano particolari elementi carattterizzanti, fatta eccezione per la fascia d’età; l’interesse in questo ambito è puramente conseguente all’aumentato rischio di malattia. Di notevole rilievo è invece l’area in cui la diagnosi differenziale del processo organico involutivo si connette con la patologia depressiva. Si tratta di quadri che, spesso, non vengono correttamente diagnosticati come disturbi dell’umore, perché non ne hanno le caratteristiche cliniche da un punto di vista fenomenologico: tuttavia, sebbene appaiono molto simili ad un processo demenziale, di fatto, la loro reale natura è quella di una difunzione patologica dell’umore. Il problema, in queste condizioni, deriva dall’osservazione clinica che alcuni casi, inquadrati da un punto di vista diagnostico nella categoria delle demenze, trattati a livello psicoterapeutico con interventi pertinenti ad un quadro depressivo, anziché un peggioramento, come atteso, mostrano un miglioramento clinico evidente. Si è pertanto posta la questione di quei processi demenziali, che hanno un’evoluzione clinica favorervole.   Come spesso avviene nella pratica clinica, il problema diagnostico viene studiato con maggiore attenzione nel momento in cui esiste una ricaduta sul piano terapeutico. Anche per la psicogeriatria il problema diagnostico costituisce attualmente un elemento essenziale per le sue impllicazioni terapeutiche, ma tuttora non vi è sempre una piena comprensione del problema, che frequentemente non è riconosciuto e considerato in modo adeguato.   Esistono alcuni studi che hanno preso in esame la prevalenza di diagnosi definitiva di disturbo dell’umore in pazienti inizialmente diagnosticati come affetti da demenza: quando la popolazione oggetto dello studio raggiunge una dimensione consistente (e, quindi, i dati acquistano maggior attendibilità) si riscontra una prevalenza di disturbi dell’umore maggiore del 10%. Tali dati suggeriscono come la dimensione del fenomeno sia abbastanza rilevante e necessiti quindi di un corretto inquadramento diagnostico.   Il cardine del ragionamento diagnostico è la differenziazione fra demenza e pseudodemenza. E’ possibile elencare un insieme di aspetti, che contraddistinguono i due disturbi: pseudodemenza (evoluzione parallela a quella di un disturbo dell’umore) e demenza (intesa come deterioramento cerebrale progressivo dovuto in parte all’invecchiamento; caratterizzato da indebolimento della memoria, incapacità di pensiero astratto, perdita di regolazione e controllo degli impulsi, scarsa igiene personale, grave disorientamento e alla fine oblio). Livello di critica di malattia, modalità d’insorgenza (acuta o cronica) del disturbo, tempo intercorso prima della richiesta d’intervento sono alcuni esempi: tuttavia, nessuno di questi aspetti è patognomico, in quanto è possibile osservare dei quadri intermedi nell’insorgenza e nelle modalità di presentazione. Di fatto, gli elementi menzionati fino ad ora sono condizionati dal meccanismo generatore del processo: da una parte l’involuzione cerebrale condiziona un’evolutività molto lenta, dall’altra l’esordio di una fase critica del disturbo dell’umore comporta_indipendentemente dalle modalità di presentazione clinica_ la presenza di un evento databile con un certo grado di precisione.   Un elemento importante, per quanto non di validità assoluta, è la familiarità positiva per un disturbo dell’umore. Tale aspetto costituisce un fattore di supporto nell’orientamento diagnostico in caso di riscontro positivo, ma la sua assenza non esclude la possibilità di una diagnosi di disturbo dell’umore. Più complesso è il problema legato alla correlazione di una anamnesi psichiatrica familiare negativa con la presenza di demenza. Essendo infatti, ormai nota l’esistenza, per quanto non frequente, di una forma di Alzheimer familiare, tale affermazione necessita di maggior cautela nel momento in cui venga utilizzata, per indirizzare la diagnosi verso un determinato orientamento.   Un’altra area di possibile differenza tra i due disturbi riguarda la reazione emotiva del paziente di fronte alla presenza di difficoltà prestazionali: si può infatti, avere una reazione di tipo depressivo con enfatizzazione dell’inabilità, cioè con una sottolineatura cognitiva dell’aspetto negativo, tipica della depressione, determinata dal confronto con il livello di funzionamento precedente. Conseguenza di ciò è un’inibizione dell’iniziativa psicomotoria (il “rallentamento”) che determina, a sua volta, un atteggiamento di passività; sul versante opposto si può, invece, osservare un tentativo, quasi sempre presente, di superamento di tale difficoltà che, tuttavia, in un contesto di scadimento cognitivo, difficilmente produrrà risultati positivi.   Il sintomo della confusione costituisce un problema di rilievo: infatti, dal momento che l’elemento confusionale è comunque presente per definizione in tutti i casi in questione, è necessario studiare le caratteristiche psicopatologiche aggiuntive di questo fenomeno (le variazioni notturne). Fino ad ora sono state considerate (fatta eccezione per l’elemento confusionale) caratteristiche di tipo non psicopatologico; esistono invece elementi funzionali, che possono essere d’utilità nel processo diagnostico differenziale: ad esempio, le funzioni d’attenzione e concentrazione. Infatti, è facilmente intuibile che, se il processo di deterioramento cognitivo comporta una destrutturazione massiva del campo della coscienza (come avviene nella demenza), anche le funzioni più elementari possono essere compromesse; il paziente affetto da depressione, invece, pur non avendo un deficit dell’attenzione, non riesce ad utilizzare l’integrità di tale funzione a causa di un difetto energetico globale della vita psichica. Non manifesta, d’altra parte, alcuna difficoltà nell’ammettere tale limite; ciò che si osserva è piuttosto, un netto disinteresse rispetto alla situazione ambientale nonché agli stimoli, che possono essergli offerti; nell’altro caso, invece, nel momento in cui il soggetto è in grado di soddisfare le richieste prestazionali, acquisisce un elemento di tipo rassicurativo. Una serie di elementi clinici, quindi, possono pertanto contribuire ad indirizzare in modo probabilistico verso l’una o l’altra diagnosi secondo un processo logico di diagnosi differenziale, che prevede due modelli estremi: demenza e pseudodemenza. I dati della letteratura anni ’90 tuttavia, mettono in discussione tale tipo d’approccio, allargando lo spettro a possibilità alternative costituite da situazioni diagnostiche intermedie.   A partire dallo stereotipo di Kraepelin, in ambito psichiatrico, permane la convinzione che una qualsivoglia difunzione umorale abbia sempre e comunque un’evoluzione favorevole, ovvero che non presenti la tendenza al deterioramento. Essendosi, di fatto, modificato lo scenario osservato rispetto ai primi del Novecento (grazie all’allungamento della vita media ed alla disponibilità di terapie efficaci), si è notato come l’equivalente depressivo possa anche avere un aspetto deteriorante. Esiste, infatti, un sottogruppo di disturbi dell’umore con esordio precoce e modalità evolutive verso deterioramento, che configura un quadro simile a quello della pseudodemenza. E’ opportuno saper riconoscere tali situazioni da un punto di vista pratico, anche attraverso la ricostruzione retrospettiva sul piano anamnestico, perché si presentano con sempre maggior frequenza quadri caratterizzati da una comparsa di deterioramento, nell’evolversi di un disturbo dell’umore, più precoce di quanto ci si potrebbe attendere. Il reale rischio di queste situazioni è ricondurre, a causa della presenza di deterioramento, il problema diagnostico all’area della schizofrenia, applicando un vecchio modello di ragionamento, con ovvi e gravi effetti sul piano terapeutico conseguenti all’uso obbligato e quasi esclusivo di neurolettici. Tuttavia, non infrequentemente, la comparsa di deterioramento può essere più tardiva, complicando in tal modo il processo diagnostico; un utile elemento, che va indagato attentamente ed è comune a tutti questi casi, è la presenza di una anamnesi personale che faccia riferimento esplicito ad almeno un episodio depressivo.  L’altra situazione intermedia e in un certo senso speculare è la presenza di depressione in situazioni definite fin dall’esordio come demenza. Analizzando i casi clinici di demenza e valutando la comparsa di depressione, temporalmente secondaria al processo demenziale, si osserva che il 28% dei pazienti affetti da demenza presenta una sintomatologia diagnosticabile come distimia, mentre il 23% dei soggetti risulta essere affetta da depressione maggiore con durata dell’episodio superiore a sei mesi e, dato interessante, un andamento periodico con remissione; si pongono quindi, interrogativi sul trattamento farmacologico di un quadro che, di fatto, configura una situazione di comorbilità.   I sintomi depressivi sono considerati più gravi, mentre è generalmente inferiore la quota ansiosa e meno frequenti sono le preoccupazioni ipocondriache, l’agitazione, i deliri e i sintomi psicotici in genere. Gli episodi singoli (ES) ad esordio tardivo presentano più spesso quelle caratteristiche di atipicità, che li avvicinano maggiormente alla descrizione della Involutional Melancholia. Sintomi frequenti sono anche l’incontinenza emotiva e la labilità emotiva, che non sono elencati tra i criteri diagnostici del DSM-IV in quanto solo raramente indipendenti da un certo grado di lesione cerebrale. L’incontinenza emotiva è caratterizzata da riso o pianto improvvisi, manifestazioni percepite dal paziente come slegate dalle emozioni, che abitualmente le accompagnano, che insorgono a seguito di stimoli minimi o incongrui e sono quasi sempre associate a segni pseudobulbari. Questa dissociazione tra umore ed emotività indica che il controllo dell’espressione emotiva è localizzato principalmente nel tronco dell’encefalo, al contrario del tono dell’umore che, con ogni probabilità, ha sede principalmente limbica. L’incontinenza emotiva è particolarmente frequente negli anziani che hanno subìto un ictus bilaterale e nei casi di sclerosi multipla. La labilità emotiva è invece caratterizzata da frequenti e ampie oscillazioni timiche, di solito meno rapide rispetto ai casi d’incontinenza emotiva. La labilità è precipitata da eventi fastidiosi o irritanti e appare sostanzialmente come una eccessiva reattività emozionale. Questo sintomo è frequente nei casi di lesione cerebrale e non è chiaro se esista una localizzazione specifica (frontale, ad esempio).   Il decorso dell’ES a esordio tardivo raramente mostra caratteristiche di ricorrenza; al contrario, il rischio di cronicità è elevato anche rispetto a quei pazienti anziani con depressione ricorrente ad esordio precoce, nonostante questi ultimi mostrino comunque una certa tendenza al decorso cronico, se  confrontati con pazienti più giovani. Gli studi longitudinali di 1-6 anni suggeriscono infatti una cronicità dell’episodio depressivo maggiore del 7-30% nei pazienti anziani e, se si considerano “cronici” anche I pazienti con remissione parziale dei sintomi, la percentuale sale al 40%. Predittori di decorso cronico possono essere considerati la lunga durata dell’episodio in atto o di quelli precedenti, la comorbilità con malattie “somatiche”, la gravità dei sintomi depressivi, gli aspetti sintomatologici non melancolici, i deliri.  Queste pur sintetiche considerazioni evidenziano la complessità del problema diagnostico della depressione in pazienti anziani, nonché la sua importanza cruciale ai fini di corrette e non lesive scelte terapeutiche.

 

Interventi psicologici

In ambito clinico comunemente si sostiene che la depressione nell’anziano duri più a lungo e sia più resistente al trattamento psicologico; queste affermazioni, tuttavia, non sono state provate. Esistono piuttosto dati consisti, che indicano che soggetti anziani depressi possono essere aiutati con interventi psicoterapeutici. Gallagher & Thomson negli anni ’80 misero a confronto tre diverse psicoterapie: a indirizzo cognitivo, comportamentale e breve o di sostegno. Tutte e tre risultano efficaci. Ad un controllo ad un anno di distanza, comunque, i soggetti sottoposti a terapia ad indirizzo cognitivo o ad indirizzo comportamentale dimostravano un miglioramento ulteriore, presumibilmente perché continuavano ad utilizzare le capacità apprese. Le procedure cognitive e comportramentali sono state anche messe a confronto con la terapia psicodinamica, sempre nel trattamento di persone anziane. In base ai resoconti soggettivi entrambi i trattamenti riducevano in modo consistente la depressione e l’ansia con un certo vantaggio per le strategie cognitive e comportamentali. Negli anziani, come in qualsiasi altra fascia d’età, dobbiamo considerare le caratteristiche delle persone trattate. Le strategie comportamentali possono essere più utili di quelle cognive nei casi in cui le capacità intellettive siano più deteriorate, mentre il trattamento psicofarmacologico può essere più appropriato nelle sindromi di lunga durata. Sebbene l’esperienza clinica indichi che i farmaci antidepressivi sono utili negli anziani, si deve prestare grande attenzione ai loro effetti collaterali. Uno di questi, che risulta avere manifestazioni gravi è l’ipotensione posturale. Molti anziani, trattati con farmaci triciclici lamentano vertigini e svenimenti e vi può essere anche un aumento del rischi d’infarto del miocardio. Inoltre gli anziani sono anche più esposti al rischio di reazioni tossiche da farmaci. I vantaggi e gli svantaggi degli psicofarmaci antidepressivi devono pertanto essere accuratamente ponderati.

 

 


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