LA
DEPRESSIONE NELL’ANZIANO
Alessandro
Lombardo
Tale
argomento di grande attualità riveste particolare interesse, per
l’aumento dell’età media della popolazione, per le maggiori
aspettative di sopravvivenza e per le richieste d’intervento a cui siamo
chiamati a rispondere, sempre più frequenti in questa fase della vita.
Nonostante l’importanza sociale di questo disturbo, ancora non è chiara
la percentuale di diffusione della depressione nell’anziano, che sembra
oscillare tra il 3 ed il 12%, né quali siano le sue specifiche
caratteristiche diagnostiche, di cui appaiono spesso confusi I confini con
la patologia demenziale, ed anche quali siano i rapporti tra i disturbi
psichici dell’anziano ed il normale processo d’invecchiamento
cerebrale. Ciò è dovuto al fatto che la depressione nell’età senile
è sempre stata considerata sulla scorta delle osservazioni e dei metodi
d’indagine impiegati per quelli dell’età adulta, mentre gli studi più
recenti tendono a riconoscere a questa patologia un’entità clinica a sé
stante, nella quale particolare attenzione andrà posta alla concomitante
presenza di malattie fisiche e alle particolari condizioni esistenziali
dell’anziano.
Va sottolineato come lo studio dei fenomeni clinici e psicopatologici
della senescenza coincida, frequentemente, con le problematiche del
processo d’invecchiamento, interessando l’intero sistema relazionale
dell’anziano.
La depressione in questa fase della vita è una sindrome complessa dal
punto di vista sintomatologico ed eziopatogenetico, la cui presentazione
clinica è tradizionalmente considerata “atipica” per la concomitanza,
in varia misura, di elementi psicopatologici, neurologici ed internistici.
Le caratteristiche sintomatologiche e di decorso indussero già Kraepelin
a stigmatizzare una “Involutional Melancholia”. Questa insorgeva dopo
i 45 anni in pazienti, che non riferivano familiarità per disturbi
dell’umore e l’esordio della sindrome depressiva appariva correlato ad
eventi stressanti psicologici o fisici; la sintomatologia era
caratterizzata da ansia, agitazione e sintomi psicotici, quali deliri a
sfondo persecutorio e ipocondriaco. Questa sindrome tendeva a sviluppare
un decorso cronico con una frequente evoluzione demenziale e comprendeva
inoltre un elevato rischio di suicidio. Lo stesso Kraepelin ipotizzò che
le caratteristiche sintomatologiche e di decorso della “Involutional
Melancholia” potessero derivare, almeno in parte, da concomitanti
alterazioni cerebrali organiche.
In tempi più recenti il DSM-II, conservando la diagnosi “Melancolia
Involutiva”, l’ha identificata con una sindrome depressiva con esordio
dopo i 50 anni, tre volte più frequente nelle donne e caratterizzata da
preoccupazione, ansia, agitazione e grave insonnia, nonché da sensi di
colpa e preoccupazioni somatiche fino al delirio, associati ad evidenti
disturbi cognitivi quali difficoltà di concentrazione ed attenzione.
Frequente, secondo il manuale, un graduale impoverimento dell’ideazione.
Negli anni, la maggior parte degli studi sulla depressione dell’età
senile ha escluso la necessità di classificarla come entità clinica a sé
stante rispetto agli Episodi Depressivi Maggiori, osservati in altre fasce
d’età. La tradizionale “atipicità” sintomatologica è risultata
infatti significativamente ridimensionata, escludendo dalla popolazione
clinica di anziani depressi, tutti i casi di comorbilità con malattie
internistiche, neurologiche o con altri disturbi psichiatrici, quali i
disturbi d’ansia e disturbi da abuso di sostanze. Ciò nonostante, nella
pratica clinica alcune caratteristiche vanno riconosciute alle depressioni
dell’anziano.
Possiamo pertanto riassumere che la fenomenologia della depressione tende
a cambiare nel corso della vita, seppure in assenza di differenze
macroscopiche, e che l’anziano sembra esprimere il vissuto depressivo in
maniera peculiare.
Queste osservazioni non trovano ancora riscontro negli attuali sistemi
diagnostico-classificativi: ad esempio, il DSM-IV indica aspetti
sintomatologici specifici per la depressione in età infantile e
adolescenziale, mentre non esiste una categoria o “sottotipo” per la
depressione senile.
Un così ampio e prolungato dibattito sulla depressione dell’anziano ha
condotto, nel 1996, ad un “Consensus Statement” del National Institute
of Health” sulla diagnosi e terapia della depressione in età avanzata.
Questo documento sancisce che la depressione nell’anziano è una
patologia diffusa e grave, la cui prevalenza raggiunge il 25%, ed è
caratterizzata da un decorso ricorrente nel 40% dei casi e da un elevato
rischio suicidario. La prognosi della depressione dell’anziano non
differisce sostanzialmente rispetto a quella del giovane, sebbene la
remissione completa richieda spesso più tempo. La comorbilità con
malattie internistiche viene considerata una caratteristica di questa
sindrome e la diagnosi è spesso difficile proprio perché i disturbi
somatici concomitanti possono polarizzare l’attenzione di medici e
familiari. Inoltre, il paziente può lamentare solo sintomi poco specifici
di depressione, piuttosto che umore depresso e disperazione. Se poi la
sindrome depressiva è attenuata, questa viene quasi invariabilmente
considerata un’inevitabile componente del vissuto psicologico
dell’anziano. In base a queste osservazioni è comprensibile come la
depressione dell’anziano venga raramente diagnosticata e curata; ciò
comporta il progressivo deteriorarsi della qualità di vita in termini di
un graduale isolamento socio-familiare e di una scarsa adesione al
trattamento delle malattie internistiche concomitanti.
Quest’ultimo aspetto, unito al peggioramento delle condizioni somatiche
che deriva dalla malattia depressiva in sé, incrementa sensibilmente il
rischio di mortalità negli anziani depressi non curati.
Non è solo la comorbilità internistica e neurologica a interferire con
la diagnosi e a condizionare la prognosi della depressione dell’anziano:
in particolare sarebbero frequenti il Disturbo d’Ansia Generalizzata e,
nelle donne, anche il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, mentre le condizioni
di comorbilità depressione-Disturbo da Attacchi di Panico sarebbero meno
frequenti nell’anziano rispetto alle altre fasce d’età.
Eziopatogenesi
La
depressione dell’anziano appare in genere meno correlata alla
predisposizione genetica del paziente, che solitamente non presenta
familiarità per disturbi dell’umore, mentre sarebbe più importante il
ruolo degli eventi psicosociali stressanti, delle patologie fisiche
associate, dei processi d’invecchiamento del Sistema Nervoso Centrale ed
Endocrino.
La prima delle variabili ambientali è il “pensionamento”, il quale
(vissuto come la conclusione della fase lavorativa della vita) è stato a
lungo considerato un importante fattore scatente e talora precipitante. Il
ridimensionamento delle disponibilità economiche, la perdita di un
“ruolo” nella società produttiva, la maggiore disponibilità di tempo
libero, sono stati visti come elementi potenzialmente destabilizzanti.
Tuttavia, dalla maggioranza degli studi sulla depressione a esordio
tardivo si deduce che il pensionamento in sé non costituisce un fattore
di rischio significativo, mentre risulta più importante in tal senso il background socio-economico,
che l’anziano trova a suo sostegno, quando smette di lavorare. La
riduzione degli introiti e il cambiamento di ruolo legati alla cessazione
naturale dell’attività lavorativa non influenzerebbero pertanto
l’equilibrio psichico dell’anziano, soprattutto qualora egli conservi
una sufficiente rete di conoscenze intra- ed extra-familiari e una
sufficiente autonomia economica. Anche l’assenza di un coniuge o di un
compagno, più volte indicata come elemento prognostico negativo per
l’anziano depresso, rappresenterebbe un fattore di rischio “minore”.
Il celibato e la vedovanza appaiono solo debolmente correlati al rischio
di disturbi psicopatologici nell’anziano, anche se i sintomi depressivi
in generi si riscontrano più frequentemente nei pazienti non sposati.
Blazer nel 1993 elencò i possibili meccanismi, che sottendono la
relazione tra fattori ambientali e sviluppo di disturbi mentali in età
avanzata:
1. Gli
stressor ambientali, anche positivi, possono favorire o causare lo
sviluppo del disagio mentale.
2. Gli
stressor ambientali possono compromettere la salute fisica dell’anziano,
che può reagire a questo declino sviluppando un disturbo psichiatrico.
3. Gli
stressor ambientali vissuti in giovane età potrbbero contribuire a
cambiamenti fisici e psichici tali da predisporre allo sviluppo di un
disturbo psichiatrico in età avanzata.
4. L’isolamento
sociale può, di per sé, favorire o causare lo sviluppo del disturbo.
5. L’isolamento
sociale può esaltare gli effetti degli eventuali stressor ambientali.
6. L’assenza
del coniuge o di un compagno può predisporre allo sviluppo di un disturbo
psichiatrico in età avanzata.
Gli
“stressor” psico-sociali non rappresentano elementi causali unici e
sufficienti per la depressione nell’anziano. Vengono altresì
riconosciute importanti concause quali i disturbi internistici o
neurologici_ in particolare le alterazioni cerebrovascolari_ nonché
l’eventuale predisposizione genetica ai disturbi dell’umore. Inoltre,
anche in assenza di disturbi di rilievo clinico, l’invecchiamento
cerebrale rappresenterebbe un importante fattore di rischio:
l’osservazione che nel cervello del paziente depresso di qualunque età
e in quello dell’anziano non depresso esistono alterazioni simili ha
suggerito che l’invecchiamento cerebrale in sé possa predisporre alla
depressione. Queste caratteristiche comuni sono: la ridotta latenza REM,
l’iperattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, la ridotta
concentrazione cerebrale di neutrasmettitori monoaminici.
Confrontando i “marker” biologici della depressione nelle diverse
fasce d’età, sono stati individuati aspetti specifici per la
depressione dell’anziano. I livelli di cortisolo plasmatico, ad esempio,
sono superiori nell’anziano depresso rispetto ai pazienti più giovani e
agli anziani non depressi; alcuni linfociti inoltre, risultano
selettivamente ridotti nei soggetti anziani affetti da depressione. Anche
alcune alterazioni morfologiche evidenziabili con le tecniche d’imaging sembrano
caratterizzare la depressione ad esordio tardivo. Le indagini eseguite con
la risonanza magnetica hanno fornito dati significativi sulla correlazione
tra depressione dell’anziano e le alterazioni cerebrovascolari, da
quelle minime fino alla leucoencefalopatia. Gli studi con la TAC hanno da
tempo evidenziato I cambiamenti strutturali del cervello più di frequente
legati all’invecchiamento, quali l’atrofia corticale progressiva,
l’ampliamento dei ventricoli cerebrali laterali e le alterazioni
cerebrovascolari in genere. Ricerche neuroradiologiche hanno evidenziato
la localizzazione delle lesioni corticali negli anziani depressi e
l’emisfero più frequentemente colpito è risultato essere il sinistro.
In generale prevarrebbero le lesioni parietali, seguite da quelle frontali
e temporali.
Il
problema della diagnosi
L’importanza
del ragionamento diagnostico nel corretto inquadramento della depressione
dell’anziano deriva dalla mancanza di strumenti diagnostici oggettivi;
infatti, per quanto una componente biologica in tali disturbi possa essere
evidenziata, sul piano diagnostico osservazioni fenomenollogiche o livelli
di calcolo probabilistico costituiscono gli unici mezzi a disposizione del
clinico.
Dal punto di vista diagnostico si possono distinguere due aree: in una il
problema della diagnostica differenziale non è particolarmente evidente,
essendo rappresentata dall’insorgenza di episodi di depressione
inquadrabili nel contesto di una patologia dell’umore in soggetti d’età
avanzata. Tali episodi non presentano particolari elementi
carattterizzanti, fatta eccezione per la fascia d’età; l’interesse in
questo ambito è puramente conseguente all’aumentato rischio di
malattia.
Di notevole rilievo è invece l’area in cui la diagnosi differenziale
del processo organico involutivo si connette con la patologia depressiva.
Si tratta di quadri che, spesso, non vengono correttamente diagnosticati
come disturbi dell’umore, perché non ne hanno le caratteristiche
cliniche da un punto di vista fenomenologico: tuttavia, sebbene appaiono
molto simili ad un processo demenziale, di fatto, la loro reale natura è
quella di una difunzione patologica dell’umore. Il problema, in queste
condizioni, deriva dall’osservazione clinica che alcuni casi, inquadrati
da un punto di vista diagnostico nella categoria delle demenze, trattati a
livello psicoterapeutico con interventi pertinenti ad un quadro
depressivo, anziché un peggioramento, come atteso, mostrano un
miglioramento clinico evidente. Si è pertanto posta la questione di quei
processi demenziali, che hanno un’evoluzione clinica favorervole.
Come spesso avviene nella pratica clinica, il problema diagnostico viene
studiato con maggiore attenzione nel momento in cui esiste una ricaduta
sul piano terapeutico. Anche per la psicogeriatria il problema diagnostico
costituisce attualmente un elemento essenziale per le sue impllicazioni
terapeutiche, ma tuttora non vi è sempre una piena comprensione del
problema, che frequentemente non è riconosciuto e considerato in modo
adeguato.
Esistono alcuni studi che hanno preso in esame la prevalenza di diagnosi
definitiva di disturbo dell’umore in pazienti inizialmente diagnosticati
come affetti da demenza: quando la popolazione oggetto dello studio
raggiunge una dimensione consistente (e, quindi, i dati acquistano maggior
attendibilità) si riscontra una prevalenza di disturbi dell’umore
maggiore del 10%. Tali dati suggeriscono come la dimensione del fenomeno
sia abbastanza rilevante e necessiti quindi di un corretto inquadramento
diagnostico.
Il cardine del ragionamento diagnostico è la differenziazione fra demenza
e pseudodemenza. E’ possibile elencare un insieme di aspetti, che
contraddistinguono i due disturbi: pseudodemenza (evoluzione parallela a
quella di un disturbo dell’umore) e demenza (intesa come deterioramento
cerebrale progressivo dovuto in parte all’invecchiamento; caratterizzato
da indebolimento della memoria, incapacità di pensiero astratto, perdita
di regolazione e controllo degli impulsi, scarsa igiene personale, grave
disorientamento e alla fine oblio). Livello di critica di malattia,
modalità d’insorgenza (acuta o cronica) del disturbo, tempo intercorso
prima della richiesta d’intervento sono alcuni esempi: tuttavia, nessuno
di questi aspetti è patognomico, in quanto è possibile osservare dei
quadri intermedi nell’insorgenza e nelle modalità di presentazione. Di
fatto, gli elementi menzionati fino ad ora sono condizionati dal
meccanismo generatore del processo: da una parte l’involuzione cerebrale
condiziona un’evolutività molto lenta, dall’altra l’esordio di una
fase critica del disturbo dell’umore comporta_indipendentemente dalle
modalità di presentazione clinica_ la presenza di un evento databile con
un certo grado di precisione.
Un elemento importante, per quanto non di validità assoluta, è la
familiarità positiva per un disturbo dell’umore. Tale aspetto
costituisce un fattore di supporto nell’orientamento diagnostico in caso
di riscontro positivo, ma la sua assenza non esclude la possibilità di
una diagnosi di disturbo dell’umore. Più complesso è il problema
legato alla correlazione di una anamnesi psichiatrica familiare negativa
con la presenza di demenza. Essendo infatti, ormai nota l’esistenza, per
quanto non frequente, di una forma di Alzheimer familiare, tale
affermazione necessita di maggior cautela nel momento in cui venga
utilizzata, per indirizzare la diagnosi verso un determinato orientamento.
Un’altra area di possibile differenza tra i due disturbi riguarda la
reazione emotiva del paziente di fronte alla presenza di difficoltà
prestazionali: si può infatti, avere una reazione di tipo depressivo con
enfatizzazione dell’inabilità, cioè con una sottolineatura cognitiva
dell’aspetto negativo, tipica della depressione, determinata dal
confronto con il livello di funzionamento precedente. Conseguenza di ciò
è un’inibizione dell’iniziativa psicomotoria (il “rallentamento”)
che determina, a sua volta, un atteggiamento di passività; sul versante
opposto si può, invece, osservare un tentativo, quasi sempre presente, di
superamento di tale difficoltà che, tuttavia, in un contesto di
scadimento cognitivo, difficilmente produrrà risultati positivi.
Il sintomo della confusione costituisce un problema di rilievo: infatti,
dal momento che l’elemento confusionale è comunque presente per
definizione in tutti i casi in questione, è necessario studiare le
caratteristiche psicopatologiche aggiuntive di questo fenomeno (le
variazioni notturne). Fino ad ora sono state considerate (fatta eccezione
per l’elemento confusionale) caratteristiche di tipo non
psicopatologico; esistono invece elementi funzionali, che possono essere
d’utilità nel processo diagnostico differenziale: ad esempio, le
funzioni d’attenzione e concentrazione. Infatti, è facilmente intuibile
che, se il processo di deterioramento cognitivo comporta una
destrutturazione massiva del campo della coscienza (come avviene nella
demenza), anche le funzioni più elementari possono essere compromesse; il
paziente affetto da depressione, invece, pur non avendo un deficit
dell’attenzione, non riesce ad utilizzare l’integrità di tale
funzione a causa di un difetto energetico globale della vita psichica. Non
manifesta, d’altra parte, alcuna difficoltà nell’ammettere tale
limite; ciò che si osserva è piuttosto, un netto disinteresse rispetto
alla situazione ambientale nonché agli stimoli, che possono essergli
offerti; nell’altro caso, invece, nel momento in cui il soggetto è in
grado di soddisfare le richieste prestazionali, acquisisce un elemento di
tipo rassicurativo. Una
serie di elementi clinici, quindi, possono pertanto contribuire ad
indirizzare in modo probabilistico verso l’una o l’altra diagnosi
secondo un processo logico di diagnosi differenziale, che prevede due
modelli estremi: demenza e pseudodemenza. I dati della letteratura anni
’90 tuttavia, mettono in discussione tale tipo d’approccio, allargando
lo spettro a possibilità alternative costituite da situazioni
diagnostiche intermedie.
A partire dallo stereotipo di Kraepelin, in ambito psichiatrico, permane
la convinzione che una qualsivoglia difunzione umorale abbia sempre e
comunque un’evoluzione favorevole, ovvero che non presenti la tendenza
al deterioramento. Essendosi, di fatto, modificato lo scenario osservato
rispetto ai primi del Novecento (grazie all’allungamento della vita
media ed alla disponibilità di terapie efficaci), si è notato come
l’equivalente depressivo possa anche avere un aspetto deteriorante.
Esiste, infatti, un sottogruppo di disturbi dell’umore con esordio
precoce e modalità evolutive verso deterioramento, che configura un
quadro simile a quello della pseudodemenza. E’ opportuno saper
riconoscere tali situazioni da un punto di vista pratico, anche attraverso
la ricostruzione retrospettiva sul piano anamnestico, perché si
presentano con sempre maggior frequenza quadri caratterizzati da una
comparsa di deterioramento, nell’evolversi di un disturbo dell’umore,
più precoce di quanto ci si potrebbe attendere. Il reale rischio di
queste situazioni è ricondurre, a causa della presenza di deterioramento,
il problema diagnostico all’area della schizofrenia, applicando un
vecchio modello di ragionamento, con ovvi e gravi effetti sul piano
terapeutico conseguenti all’uso obbligato e quasi esclusivo di
neurolettici. Tuttavia, non infrequentemente, la comparsa di
deterioramento può essere più tardiva, complicando in tal modo il
processo diagnostico; un utile elemento, che va indagato attentamente ed
è comune a tutti questi casi, è la presenza di una anamnesi personale
che faccia riferimento esplicito ad almeno un episodio depressivo.
L’altra situazione intermedia e in un certo senso speculare è la
presenza di depressione in situazioni definite fin dall’esordio come
demenza. Analizzando i casi clinici di demenza e valutando la comparsa di
depressione, temporalmente secondaria al processo demenziale, si osserva
che il 28% dei pazienti affetti da demenza presenta una sintomatologia
diagnosticabile come distimia, mentre il 23% dei soggetti risulta essere
affetta da depressione maggiore con durata dell’episodio superiore a sei
mesi e, dato interessante, un andamento periodico con remissione; si
pongono quindi, interrogativi sul trattamento farmacologico di un quadro
che, di fatto, configura una situazione di comorbilità.
I sintomi depressivi sono considerati più gravi, mentre è generalmente
inferiore la quota ansiosa e meno frequenti sono le preoccupazioni
ipocondriache, l’agitazione, i deliri e i sintomi psicotici in genere.
Gli episodi singoli (ES) ad esordio tardivo presentano più spesso quelle
caratteristiche di atipicità, che li avvicinano maggiormente alla
descrizione della Involutional
Melancholia. Sintomi frequenti sono anche l’incontinenza emotiva e
la labilità emotiva, che non sono elencati tra i criteri diagnostici del
DSM-IV in quanto solo raramente indipendenti da un certo grado di lesione
cerebrale. L’incontinenza emotiva è caratterizzata da riso o pianto
improvvisi, manifestazioni percepite dal paziente come slegate dalle
emozioni, che abitualmente le accompagnano, che insorgono a seguito di
stimoli minimi o incongrui e sono quasi sempre associate a segni
pseudobulbari. Questa dissociazione tra umore ed emotività indica che il
controllo dell’espressione emotiva è localizzato principalmente nel
tronco dell’encefalo, al contrario del tono dell’umore che, con ogni
probabilità, ha sede principalmente limbica. L’incontinenza emotiva è
particolarmente frequente negli anziani che hanno subìto un ictus
bilaterale e nei casi di sclerosi multipla. La labilità emotiva è invece
caratterizzata da frequenti e ampie oscillazioni timiche, di solito meno
rapide rispetto ai casi d’incontinenza emotiva. La labilità è
precipitata da eventi fastidiosi o irritanti e appare sostanzialmente come
una eccessiva reattività emozionale. Questo sintomo è frequente nei casi
di lesione cerebrale e non è chiaro se esista una localizzazione
specifica (frontale, ad esempio).
Il decorso dell’ES a esordio tardivo raramente mostra caratteristiche di
ricorrenza; al contrario, il rischio di cronicità è elevato anche
rispetto a quei pazienti anziani con depressione ricorrente ad esordio
precoce, nonostante questi ultimi mostrino comunque una certa tendenza al
decorso cronico, se confrontati
con pazienti più giovani. Gli studi longitudinali di 1-6 anni
suggeriscono infatti una cronicità dell’episodio depressivo maggiore
del 7-30% nei pazienti anziani e, se si considerano “cronici” anche I
pazienti con remissione parziale dei sintomi, la percentuale sale al 40%.
Predittori di decorso cronico possono essere considerati la lunga durata
dell’episodio in atto o di quelli precedenti, la comorbilità con
malattie “somatiche”, la gravità dei sintomi depressivi, gli aspetti
sintomatologici non melancolici, i deliri.
Queste pur sintetiche considerazioni evidenziano la complessità del
problema diagnostico della depressione in pazienti anziani, nonché la sua
importanza cruciale ai fini di corrette e non lesive scelte terapeutiche.
Interventi
psicologici
In
ambito clinico comunemente si sostiene che la depressione nell’anziano
duri più a lungo e sia più resistente al trattamento psicologico; queste
affermazioni, tuttavia, non sono state provate. Esistono piuttosto dati
consisti, che indicano che soggetti anziani depressi possono essere
aiutati con interventi psicoterapeutici. Gallagher & Thomson negli
anni ’80 misero a confronto tre diverse psicoterapie: a indirizzo
cognitivo, comportamentale e breve o di sostegno. Tutte e tre risultano
efficaci. Ad un controllo ad un anno di distanza, comunque, i soggetti
sottoposti a terapia ad indirizzo cognitivo o ad indirizzo comportamentale
dimostravano un miglioramento ulteriore, presumibilmente perché
continuavano ad utilizzare le capacità apprese. Le procedure cognitive e
comportramentali sono state anche messe a confronto con la terapia
psicodinamica, sempre nel trattamento di persone anziane. In base ai
resoconti soggettivi entrambi i trattamenti riducevano in modo consistente
la depressione e l’ansia con un certo vantaggio per le strategie
cognitive e comportamentali. Negli anziani, come in qualsiasi altra fascia
d’età, dobbiamo considerare le caratteristiche delle persone trattate.
Le strategie comportamentali possono essere più utili di quelle cognive
nei casi in cui le capacità intellettive siano più deteriorate, mentre
il trattamento psicofarmacologico può essere più appropriato nelle
sindromi di lunga durata.
Sebbene l’esperienza clinica indichi che i farmaci antidepressivi sono
utili negli anziani, si deve prestare grande attenzione ai loro effetti
collaterali. Uno di questi, che risulta avere manifestazioni gravi è
l’ipotensione posturale. Molti anziani, trattati con farmaci triciclici
lamentano vertigini e svenimenti e vi può essere anche un aumento del
rischi d’infarto del miocardio. Inoltre gli anziani sono anche più
esposti al rischio di reazioni tossiche da farmaci. I vantaggi e gli
svantaggi degli psicofarmaci antidepressivi devono pertanto essere
accuratamente ponderati.
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