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IL MALTRATTAMENTO PSICOLOGICO DELLE DONNE NEL CONTESTO DI COPPIA

Giovanna Piagione

                                

RIASSUNTO

Il seguente lavoro focalizza l’attenzione sul maltrattamento psicologico che è una particolare forma di maltrattamento in quanto, non presentando effetti fisici evidenti, è difficilmente riconoscibile sia da parte di un osservatore esterno sia da parte della vittima stessa (Tinelli, 2000; Reale, 2000). Gli effetti psicologici di questo tipo di maltrattamento però sono molteplici e rilevanti.   Questa modalità di maltrattamento si attua principalmente mediante la comunicazione e le sue distorsioni operate nell’ambito di relazioni caratterizzate per la continuità e per il legame affettivo come nella coppia. Nell’ambito della coppia queste modalità relazionali si inseriscono nel processo di definizione dei ruoli a cui prendono parte anche le credenze socialmente condivise circa le differenze di genere per quanto concerne i ruoli assunti nella famiglia (Ardone, 1990; Fruggeri, 1998).   Nonostante questo tipo di maltrattamento possa essere perpetrato nei confronti sia degli uomini che delle donne, queste ne risultano particolarmente vulnerabili per le idee socialmente diffuse sul loro ruolo all’interno della famiglia.

 

LA COMUNICAZIONE NELLE RELAZIONI FAMILIARI

Secondo la prospettiva sistemica la famiglia non è la semplice somma dei suoi membri, ma una unità in cui le parti assumono significato solo rispetto al tutto e il tutto emerge dall’interscambio tra le parti. Oggetto d’indagine diventano, pertanto, le relazioni fra le parti (Fruggeri, 1998).   Il mezzo con cui si compie e si manifesta la relazione è la comunicazione intesa come comportamento (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967).   Riguardo la pragmatica della comunicazione umana, ossia quell’aspetto della comunicazione che influenza il comportamento, Watzlawick, Beavin e Jackson (1967) hanno individuato delle proprietà che definiscono assiomi.   Il primo assioma afferma che, poiché il comportamento nell’ambito di una interazione costituisce comunicazione e poiché non è possibile non avere un comportamento, non è possibile non comunicare.   Il secondo assioma afferma che una comunicazione è costituita dal contenuto e dalla relazione. Il contenuto è l’informazione mentre la relazione è una regola su come interpretare il contenuto che può essere comunicata verbalmente, mediante il linguaggio non verbale e anche mediante il contesto, e costituisce una metacomunicazione (Bateson, 1972).  Il terzo assioma afferma che il tipo di relazione è determinato anche dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione. La punteggiatura definisce delle regole per lo scambio comunicativo organizzando la sequenza di comportamenti e conferendo dei ruoli ai partner della comunicazione.  Il quarto assioma afferma che la comunicazione umana utilizza contemporaneamente il modulo analogico e il modulo numerico. Il modulo numerico consente di trasmettere il contenuto della comunicazione, mentre il modulo analogico consente di trasmettere la relazione e consiste nella comunicazione non verbale e nel contesto della comunicazione (Bateson, 1972).   Il quinto assioma, infine, afferma che tutti gli scambi comunicativi possono essere o simmetrici o complementari. Questo assioma trae origine dal concetto di schismogenesi di Bateson (1975) che corrisponde ad un processo di cambiamento del comportamento individuale in seguito all’interazione con altri individui. Quando la schismogenesi è simmetrica la relazione è basata sull’ugualianza e il partner della comunicazione tende a rispecchiare il comportamento dell’altro; quando la schismogenesi è complementare la relazione è basata sulla differenza e un partner assumerà la posizione superiore mentre l’altro quella inferiore. I due partner però assumeranno i rispettivi ruoli in maniera interdipendente e non sarà uno dei due a imporre questo tipo di relazione all’altro.   La distorsione di questi assiomi può essere tale da comportare un disturbo della comunicazione che distorce patologicamente, se il disturbo si ripete quotidianamente, le interazioni reciproche (Fruggeri, 1998).

 

Disturbi nella comunicazione

Secondo Watzlawick, Beavin e Jackson (1967) le distorsioni della comunicazione possono essere distinte per l’assioma interessato. Per quanto riguarda il primo assioma una persona che in una situazione di interazione volesse evitare la comunicazione potrebbe o rifiutarla, ma in questo modo comunicherebbe comunque, o accettarla nonostante non voglia, o squalificarla, rendendola incomprensibile, contraddittoria o incompleta, o addurre una qualche causa incontrollabile che gli impedisce di comunicare come un sintomo. Anche il sintomo costituisce una comunicazione non verbale.   Per quanto riguarda il secondo assioma, secondo il quale la comunicazione è composta da un contenuto e da una relazione, la sua distorsione può generare un conflitto. Mentre un conflitto riguardante il contenuto è facilmente risolvibile, un conflitto riguardante la relazione può risultare più difficile perché i partner continuano a confrontarsi sul livello di contenuto mentre dovrebbero farlo sul livello di relazione attraverso la metacomunicazione.   Un aspetto molto importante del livello di relazione della comunicazione è il suo riferirsi non solo alla definizione della relazione ma anche alla definizione del soggetto comunicante. Quando un soggetto comunica al livello della relazione comunica se stesso e il partner può rispondere a questa comunicazione confermando tale definizione, accrescendo così la consapevolezza del soggetto, rifiutandola e fornendogli la possibilità di modificare tale definizione, o può disconfermarla. La disconferma equivale alla negazione che il soggetto sia l’emittente di un messaggio, alla negazione quindi dell’esistenza del soggetto che può portarlo alla perdita del Sé. La disconferma del Sé è però possibile solo se è presente una mancanza di consapevolezza delle percezioni interpersonali.   Per quanto riguarda il terzo assioma, se si verificano discrepanze sulla punteggiatura della sequenza comunicativa si genera un conflitto che può condurre ad attribuzioni reciproche di cattiveria e di follia; questo può continuare all’infinito se non si giunge a metacomunicare per comprendere l’effettiva natura del conflitto. Generalmente una discrepanza della punteggiatura si verifica quando almeno uno dei due interlocutori ignora di non avere lo stesso grado d’informazione dell’altro. La discrepanza nella punteggiatura porta ad un conflitto circa la causa e l’effetto degli eventi comunicativi.  Un errore nel quarto assioma consiste in un errore nella traduzione del materiale analogico in numerico. Il linguaggio analogico è privo di elementi quali la morfologia e la sintassi che invece caratterizzano il linguaggio numerico, ed è contraddittorio in quanto si presta a molteplici interpretazioni in linguaggio numerico. Pertanto la traduzione di un messaggio dal linguaggio analogico a quello numerico diventa difficile e può generare conflitti. Per poter operare una conversione tra un messaggio analogico e uno numerico è possibile utilizzare un rituale che simula il messaggio ma in modo stilizzato e ripetitivo rendendolo un simbolo. Il simbolo infatti corrisponde alla rappresentazione in grandezza reale (numerica) di qualcosa di astratto come la relazione (analogica). Se si perde la capacità di metacomunicare con un metodo numerico, una situazione di compromesso è rappresentata proprio dal simbolo (Bateson, 1972) e, per poter comunicare un concetto astratto come la relazione, il simbolo può essere anche un sintomo come quelli di conversione.   Anche l’ultimo assioma può presentare delle disfunzioni legate alla rigidità della complementarietà e della simmetria. In una relazione simmetrica è sempre possibile il verificarsi di una competitività fra i partner e la sua escalation. Mentre in una relazione simmetrica sana i partner sono in grado di accettarsi e di confermare i rispettivi Sé, se la relazione simmetrica raggiunge la rottura i partner tenderanno a rifiutare il Sé dell’altro. Anche in una relazione complementare sana i partner sono in grado di confermare i rispettivi Sé, ma se la complementarietà è rigida, più che rifiutare, i partner tenderanno a disconfermare il Sé dell’altro.   Secondo Watzlawick, Beavin e Jackson (1967) ciò che rende disfunzionale una interazione non è la presenza di complementarità o simmetria, ma l’assenza di flessibilità e alternanza di questi due stili comunicativi che consentirebbe la loro stabilizzazione reciproca impedendone l’irrigidimento.

   Teoria sistemica e relazioni nel sistema famiglia

Prima di passare all’analisi delle interazioni fra le parti che compongono il sistema ‘famiglia’ è importante soffermarsi sui concetti fondamentali della teoria sistemica.   Innanzitutto è importante definire cosa sia un sistema. Secondo Hall e Fagen (1956) un sistema è un insieme di parti e di relazioni fra le parti e i loro attributi. Pertanto in un sistema comunicativo le parti possono essere gli individui e gli attributi che le identificano possono essere i loro comportamenti. Ciò che è importante in questo sistema non sarà il contenuto della comunicazione ma l’aspetto di relazione (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967; Bateson, 1972).   I sistemi presi in esame sono viventi, o aperti, perché si evolvono attraverso l’interazione col loro ambiente.   Il primo principio dei sistemi aperti è quello della totalità e ordine. Secondo tale principio la totalità del sistema è qualcosa di più della somma delle sue parti, pertanto ciascuna parte deve essere studiata facendo riferimento al contesto di appartenenza e alle relazioni fra le parti. Il secondo principio è la circolarità delle relazioni causali secondo il quale le relazioni causa-effetto non sono lineari ma sono complesse e circolari; pertanto non è possibile individuare il punto in cui comincia l’interazione, è necessario osservare il sistema nella sua complessità e tener presente che il punto in cui si comincia l’osservazione delle relazioni causali è arbitrario (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967; Marvin, Stewart, 1999).   Il risultato di una serie di cambiamenti del sistema sarà dato sia dalle condizioni iniziali che dalla natura del processo e dai parametri del sistema; pertanto condizioni iniziali diverse possono portare allo stesso risultato e risultati diversi possono seguire alle stesse condizioni iniziali secondo il principio dell’equifinalità (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967). Il principio delle relazioni invarianti afferma che, per la sopravvivenza di un sistema, sono necessari dei limiti alla sua variabilità e alla variabilità delle sue relazioni con l’ambiente in quanto devono rimanere costanti le sue variabili fondamentali. Il principio dell’autoregolazione adattiva consente di far fronte ai cambiamenti ambientali attraverso variazioni dei valori interni al sistema che, una volta ristabilitesi le condizioni ambientali precedenti, grazie ad un meccanismo di feedback negativi, tornano ad assumere i valori precedenti. Il principio dell’auto-organizzazione adattiva invece consente di far fronte a cambiamenti permanenti interni o esterni al sistema mediante la sua riorganizzazione permanente attraverso feedback positivi, pur salvaguardando le variabili necessarie alla sopravvivenza del sistema stesso. Questo principio consente quindi al sistema di evolversi e svilupparsi.  Infine il principio dei sottosistemi e confini sostiene che ogni sistema fa parte di un sistema più ampio e comprende altri sottosistemi e che i diversi sottosistemi sono definiti da confini costituiti da regole circa il funzionamento interno del sistema e le relazioni fra sottosistemi. Nella maggior parte dei sistemi biologici i confini non sono fissi così ogni componente può appartenere a diversi sottosistemi contemporaneamente o in momenti diversi sottostando alle diverse regole dei sistemi a cui appartiene (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967;Marvin, Stewart, 1999).   I disturbi della comunicazione assumono maggior importanza per le relazioni in corso, ossia per quelle relazioni di lunga durata, con una storia, che hanno la stessa importanza per i partner. In questo tipo di relazione c’è l’occasione che le modalità comunicative si ripetano e i loro effetti risultino più marcati. Un esempio di sistema interattivo è la famiglia.   Le relazioni si legano e ripetono a causa dei limiti che ne rendono difficile la modificazione. I limiti sono imposti dalla comunicazione, dal momento che ogni scambio di messaggio restringe il numero delle risposte successive, e dal contesto in cui si verifica la comunicazione. Il contesto è inteso sia come esterno che come contesto interpersonale. Poiché a livello di relazione si possono riscontrare delle ridondanze nella comunicazione indipendentemente dal contenuto, si può affermare che queste costituiscano delle regole della comunicazione e della relazione. Anche il sintomo psicopatologico si introduce in un meccanismo omeostatico che mantenga l’equilibrio del sistema anche se disturbato. Il sintomo per il principio di totalità sarà inserito nelle relazioni fra tutti i membri del sistema che concorreranno al suo perpetuarsi (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967).   La famiglia, mediante il principio di retroazione, affronterà le crisi dovute alle modificazioni dell’ambiente e del sistema stesso. Le crisi possono consentire al sistema di evolversi e passare alle tappe successive del ciclo di vita; infatti alcuni eventi critici come la nascita di un figlio, sono considerati normativi perché si presentano con una certa regolarità nel ciclo di vita della famiglia. Ma anche gli eventi critici paranormativi che risultano più sporadici e non facenti parte della fisiologia, come un trasferimento, possono, a seconda del modo in cui vengono affrontati, costituire una occasione di evoluzione per il sistema.  Indipendentemente dal tipo di crisi affrontata però, il modo in cui verrà affrontata e le modificazioni che avverranno nel sistema potranno essere diverse proprio per il principio dell’equifinalità. Pertanto anche un sintomo psicopatologico potrà essere l’esito di una strategia messa in atto per affrontare la crisi (Malagoli Togliatti, Lubraro Lavadera, 2002).   In presenza di crisi la famiglia tende a mantenere l’omeostasi senza portare il sistema ad una evoluzione e in tal caso anche i feedback negativi assumeranno un aspetto ridondante al punto tale da poter essere definiti come regole del sistema. Sono proprio tali regole che concorrono al mantenimento di una situazione patologica che costituisce uno stato di equilibrio del sistema (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967).

I ruoli nella famiglia

I comportamenti interpersonali sono determinati dalle rappresentazioni che i partner hanno della situazione interattiva. Tale interpretazione sarà fatta in funzione di credenze derivanti dalle esperienze relazionali del soggetto. In un sistema familiare le influenze e interdipendenze reciproche, messe in atto durante la comunicazione fra i membri, portano alla condivisione di credenze che definiscono ruoli e comportamenti dei membri. Poiché la famiglia è anche parte di una comunità, condivide con essa credenze che definiscono cosa sia accettabile o meno. Le credenze a questi tre livelli di analisi si influenzano a vicenda attraverso le relazioni (Fruggeri, 1998).   Dalle interazioni all’interno della famiglia emergono i miti familiari che comprendono un insieme di credenze circa l’immagine che la famiglia ha di se stessa e dei comportamenti che dovrebbero tenere i vari membri. L’adesione al mito è espressa in modo analogico e mai mediante metalinguaggio (Fruggeri, 1998; Malagoli Togliatti, Lubraro Lavadera, 2002). Secondo Ferreira (1966) il mito non si modifica grazie al comportamento ma tenta di forgiarlo distorcendo la realtà. In tal modo il mito funge da meccanismo di difesa in quanto consente di evitare tensioni e conflitti. Secondo Bagarozzi e Anderson (1989), al contrario, il mito si costruisce e ricostruisce nel presente garantendo l’identità del nucleo familiare e promuovendone in tal modo lo sviluppo.   I paradigmi familiari comprendono non solo le credenze condivise circa l’immagine che la famiglia ha di se stessa, ma anche la visione del mondo condivisa. In questo modo permette ai componenti di orientarsi nella vita quotidiana e di essere in grado di affrontare ciò che è nuovo. In più il rapporto fra paradigmi familiari e comportamento interattivo è bi-direzionale in modo tale che i primi siano in grado anche di modificare il secondo (Fruggeri, 1998).   Grande importanza per la formazione di credenze condivise ha l’ambiente in cui la famiglia è immersa e con cui continuamente interagisce. L’idea di famiglia socialmente condivisa è quella della famiglia nucleare tradizionale ed è in base a questa idea che vengono giudicate tutte le altre forme di famiglia e si creano degli stereotipi su queste. L’influenza degli stereotipi però non è unidirezionale in quanto anche questi si modificano col modificarsi delle famiglie e delle credenze condivise nel nucleo familiare (Ardone, 1990; Fruggeri, 1998).   I rapporti e i ruoli all’interno di una coppia sono legati anche alla scelta oggettuale inconscia che è alla base del suo formarsi. La scelta d’oggetto è alla base del formarsi di regole aperte, tacite o implicite su come deve essere il rapporto di coppia. Tali regole, come anche le aspettative sociali e individuali sulle modalità di relazione e i ruoli, si modificheranno anche a seconda della fase del ciclo di vita attraversato dalla coppia e la famiglia (Francescano, 1992).   I cambiamenti sociali degli ultimi anni hanno portato al mutamento dell’immagine condivisa di famiglia improntata più alla parità, anziché alla dominanza maschile, e allo scambio affettivo anziché a quello istituzionale. Resta confermata però l’asimmetria nella condivisione del lavoro familiare; questo infatti resta prevalentemente a carico della donna (Ardone, 1990; Fruggeri, 1998).   L’imposizione del lavoro domestico e di cura alla donna è da rintracciarsi nelle rappresentazioni dei due sessi; la donna è rappresentata come ricca rispetto all’uomo di capacità di cura, espressività ed empatia (Ravaioli, 1978; Argentieri, 1995; Francescano, 1992; Fruggeri, 1998; Reale, 2000) mentre l’uomo sarebbe più orientato all’autorealizzazione e l’indipendenza. Secondo altre tendenze socialmente prevalenti nei conflitti gli uomini tenderebbero a distanziarsi mentre le donne preferirebbero mantenere la comunicazione, le donne si sentirebbero minacciate dalla separazione mentre gli uomini dall’intimità, le donne tenderebbero a riferirsi all’etica della responsabilità e gli uomini a quella del diritto e, per quanto concerne la comunicazione, le donne tenderebbero a ricercare il dialogo e gli uomini a fuggirlo amplificando così la richiesta di dialogo delle donne che, a sua volta, amplifica la chiusura degli uomini al dialogo (Francescano, 1992; Fruggeri, 1998).   Le ipotesi circa la formazione delle differenze di genere le fanno risalire o alla socializzazione o ad una costruzione sociale che si produce e riproduce nelle interazioni quotidiane. La prima ipotesi fa riferimento solo alla dimensione familiare in cui avverrebbe l’apprendimento delle differenze di genere attraverso le relazioni con i genitori; tali differenze una volta acquisite rimarrebbero costanti. La seconda ipotesi considera le differenze di genere come dovute all’intreccio di processi simbolici e relazionali di tipo sociale, individuale e familiare; tali differenze sarebbero dinamiche (Fruggeri, 1998).

MODI E FORME DEL MALTRATTAMENTO PSICOLOGICO NEL CONTESTO DI COPPIA

La famiglia e la coppia presentano delle caratteristiche che possono rendere più facile il maltrattamento di qualsiasi forma esso sia; infatti la continua vicinanza nello stesso luogo, la mancanza per ciascuno dei propri spazi, può portare alla sensazione che l’altro sia eccessivamente intrusivo e ciò può scatenare aggressività, la convivenza di persone di età e genere differenti rende più frequenti i conflitti generazionali e di ruolo e il maggior coinvolgimento emotivo porta a reazioni più marcate nei momenti di crisi.   Il maggior coinvolgimento emotivo, l’interdipendenza affettiva e materiale che lega i vari membri e la maggior conoscenza delle rispettive biografie, li rende anche più vulnerabili e fragili nei confronti di un eventuale maltrattamento (Gulotta, 1984).

Il maltrattamento psicologico

Il maltrattamento psicologico si articola in una serie di comportamenti che mirano a svalutare una persona ponendola in una condizione di subordinazione e danneggiandone il benessere psicologico ed emotivo; tali comportamenti non hanno effetti fisici evidenti, come nella violenza fisica o in quella sessuale, e sono molto difficili da riconoscere sia da parte di un osservatore esterno sia da parte della vittima stessa (Tinelli, 2000; Reale, 2000), anche perché spesso, specie se mossi nei confronti di una donna, sono culturalmente accettati (Muratore, 2003; Reale, 2000).   Il messaggio che passa attraverso questi comportamenti è che la vittima sia una persona priva di valore, tali atteggiamenti si insinuano gradualmente nella relazione portando la vittima ad accoglierli, a tollerarli e ad accettare in seguito anche altri comportamenti quali la violenza fisica e sessuale (Paunez, 2004).   Per parlare di abuso psicologico è necessario che questi comportamenti siano talmente pervasivi da far sorgere serie preoccupazioni circa il funzionamento e le condizioni emotive della vittima (Tinelli, 2000).   Secondo Marie-France Hirigoyen (1998) il rapporto molesto attraversa due fasi: la seduzione perversa, o fase di condizionamento, e la violenza palese o violenza perversa.   Durante la fase di condizionamento la vittima viene destabilizzata fino a perdere la fiducia in se stessa. Inizialmente l’aggressore la attrae inviandole una buona immagine di sé e guadagnandosene così l’ammirazione e inviandole un’immagine positiva di se stessa sfruttando i suoi istinti protettivi. Le fa credere di essere libera ma, contemporaneamente, la priva della sua libertà e del senso critico per potersi difendere, inducendola ad obbedire inizialmente per far piacere al partner o consolarlo, per dipendenza, acquiescenza e adesione, poi per timore derivante da minacce velate e intimidazioni che la rendono sempre più debole. Si verifica il cosiddetto ‘lavaggio del cervello ’ o ‘controllo mentale’ (Tinelli, 2000; Reale, 2000).   La vittima viene privata di contatti sociali e rapporti con la famiglia d’origine perchè vietati dal partner. Lo stesso stato di tensione o stress permanente in cui viene a trovarsi la potrebbero portare ad assumere una posizione difensiva e ad essere scontrosa, lamentosa o ossessiva inducendo chi la circonda ad allontanarsi da lei. Il partner potrebbe indurla a privarsi di rapporti sociali anche aizzandola contro le persone con allusioni, dubbi e bugie, oppure cercando di suscitarne la gelosia perché tenda ad essere sempre più protettiva verso di lui ed eviti il conflitto concentrando le sue forze nel conflitto con una terza persona.  Le viene attribuita eccessiva responsabilità nel prendersi cura della famiglia anche con richieste che non possono essere soddisfatte sottolineandone così l’impotenza. Le responsabilità e l’isolamento determinano nel partner dominato una continua difficoltà che ne favorisce il controllo; infatti questi diventa dipendente dall’aggressore in un contesto in cui lui rappresenta l’unica fonte di soddisfazione del bisogno fondamentale di relazione.   A tutto ciò vanno aggiunte la distorsione della realtà oggettiva operata mediante la continua critica alla visione del mondo del partner dominato, la messa in dubbio delle cose provate o viste e dei suoi sentimenti, la negazione della sua autonomia di scelta, l’induzione del senso di colpa se non accetta le imposizioni e le limitazioni che gli vengono fatte, e la paura indotta in lui attraverso minacce esplicite di percosse, morte, sottrazione di figli e denaro, e comportamenti imprevedibili come sbattere le porte e rompere gli oggetti (Ventimiglia, 1996; Hirigoyen, 1998; Reale, 2000; Paunez, 2004).   Il processo di condizionamento si svolge attraverso la comunicazione che è di tipo perverso in quanto mira ad allontanare lo scambio e ad usare l’altro.  Innanzitutto la comunicazione viene negata e in questo modo vengono attribuite importanza e significati nascosti al non detto; ciò porta la vittima a cercare le spiegazioni che le vengono negate e a trovarsele da sola incolpandosi senza ragione o attribuendo rimproveri e conflitti al partner di cui però lui nega l’esistenza.  Per stancare l’avversario il partner maltrattante lo induce a travisare il linguaggio attraverso la prosodia che dà un significato diverso alle parole, mormora le parole costringendo l’altro a chiedere di ripeterle perché non le ha sentite per poi accusarlo di non ascoltare. A volte vengono utilizzati termini difficili perché l’altro non capisca e resti sempre più confuso. L’aggressore può dare l’impressione di saperne di più, di detenere la verità, attraverso discorsi totalizzanti e che appaiono universalmente veri, portando così il partner a pensare come lui e ad accettare come cosa vera e indiscutibile tutto ciò che dice.  Viene utilizzata anche la menzogna indiretta sottoforma di sottointesi e risposte imprecise per la formazione del malinteso che portano la vittima a non distinguere più cosa sia vero e cosa falso.  (Ventimiglia,1996; Hirigoyen, 1998).   Fra i comportamenti più comuni troviamo la svalorizzazione della vittima che viene ottenuta attraverso il sarcasmo, la derisione anche in pubblico e continue critiche  e offese al partner, alle sue idee, alle persone a cui è legato e alle cose che fa, fino a convincerlo che non vale niente attraverso anche comportamenti non verbali e facendo leva sulle sue debolezze per farlo sentire inadeguato, accusandolo ad esempio di eccesso di emotività o di pazzia. La derisione in pubblico rende complici gli spettatori nell’attacco ai punti deboli della vittima. La vittima viene continuamente squalificata fino ad indurla a credere lei stessa di non valere niente, viene trattata come un oggetto negandone autonomia e personalità attraverso comportamenti quali indurla a cambiare aspetto e modo di comportarsi e controllarla negli spostamenti (Hirigoyen, 1998; Paunez, 2004; Santini,2004).   Grande importanza assumono nella comunicazione l’uso del paradosso e della mistificazione. Il concetto di mistificazione è stato introdotto da Laing (1969) per indicare una modalità comunicativa che ha lo scopo di eludere un conflitto, mantenendo così i ruoli stereotipati, creando confusione e sostituendo un conflitto o una costruzione reale con una falsa. Può essere attuata ad esempio confermando il contenuto di un’esperienza ma disconfermandone la modalità, oppure disconfermando il contenuto dell’esperienza dell’altro modificandolo con attribuzioni connesse alla visione che si ha dell’altro. La mistificazione raggiunge il limite estremo quando un soggetto cerca di portare confusione in tutta l’esperienza, nei processi e nelle azioni dell’altro che ne risulterà confuso su sé stesso e sugli altri. In un rapporto in cui è in atto una mistificazione si configura una pseudo-reciprocità, in tal caso non vengono considerati i mutamenti del rapporto e le conferme vengono fatte su vecchi ruoli e aspettative che non sono reali (Wyenne et al., 1980).   Anche il paradosso ha lo scopo di impedire l’insorgere del conflitto ma paralizzando e negando la vittima. La comunicazione paradossale è costituita da una sollecitazione duplice secondo cui viene posta un’ingiunzione primaria verbale e contemporaneamente un’ingiunzione secondaria in contrasto con quella primaria ma espressa non verbalmente che costituisce un messaggio sottointeso che viene percepito dalla vittima ma di cui l’aggressore nega l’esistenza. A differenza della mistificazione, nel paradosso è presente una terza ingiunzione che paralizza la vittima in quanto non le fornisce un modo ‘corretto’ di agire o esperire perché, secondo questa terza ingiunzione, qualunque modo è sbagliato(Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967; Bateson, 1972). La vittima in questo caso tende ad avere delle reazioni e ad innervosirsi ma, poiché viene negata la fondatezza delle sue percezioni, viene accusata di essere paranoica, viene messa in dubbio la sua capacità di giudizio e lei stessa tende a ridere di sè, a sminuirsi e a sentirsi confusa su chi sia l’aggressore e chi la vittima, arriva a sentirsi lei l’aggressore e a sentirsi in colpa.   La violenza perversa viene scatenata quando la vittima si oppone al condizionamento (Ventimiglia, 1996; Hirigoyen, 1998). Quando la vittima tenta di esprimere ciò che prova viene fatta tacere con colpi bassi, ingiurie, sottointesi, manifestazioni di condiscendenza e sarcasmo per sminuirla e umiliarla e per evitare la comunicazione. L’aggressione è continua, ogni ingiuria fa eco a quelle precedenti impedendo di dimenticare, mentre in pubblico viene distillata a piccole dosi in modo tale che se la vittima reagisce, ad esempio alzando la voce, sembri aggressiva. Nella ricerca di uno scambio, la vittima rivela le sue debolezze come tendenza alla depressione, all’isteria o alla caratterialità, di cui l’aggressore si serve perché si metta in ridicolo e si screditi da sola. Ciò che scatena le reazioni della vittima è la paura suscitata dalle aggressioni (Hirigoyen, 1998).   Quando la vittima si separa dall’aggressore questi può molestarla con un comportamento persecutorio, denominato stalking in America, con la presenza, le telefonate, parole minacciose dirette e indirette, incursioni sul posto di lavoro e l’utilizzo di ogni mezzo anche legale per sottolinearne l’incapacità, minacciarne il senso di autonomia e indipendenza, farla sentire impaurita e in trappola e contemporaneamente mantenere un legame con lei (Hirigoyen, 1998; Paunez, 2004).  L’aggressore può coinvolgere anche i figli rappresentandosi ai loro occhi come la vittima e portandoli a schierarsi dalla sua parte contro l’altro genitore, rendendolo in questo modo ancora più solo (Ventimiglia, 1996).Le vittime spesso non sono in grado di usare la legge come l’aggressore e le aggressioni sono talmente velate da essere difficilmente riconosciute da un osservatore esterno, la vittima pertanto non è in grado di difendersi (Hirigoyen, 1998; Paunez, 2004).   Fa parte del maltrattamento psicologico anche il maltrattamento economico che mira a rendere la vittima completamente dipendente da questo punto di vista. A questo scopo l’aggressore ad esempio vieta alla vittima di lavorare (Proietti, 2004), non le fornisce informazioni circa il conto corrente, la situazione patrimoniale e di reddito e non condivide con lei le decisioni relative al bilancio familiare. In caso di separazione si rifiuta di pagare gli alimenti arrivando persino a licenziarsi o la costringe ad umilianti trattative per averli (Ventimiglia,1996; Paunez, 2004; Sintini, 2004).  Il lavoro, oltre a fornire l’indipendenza economica, consente anche di sfuggire alla reclusione domestica e alla dipendenza affettiva che crea, consente di avere rapporti sociali, ha notevoli effetti sull’autostima grazie alla possibilità di affermarsi e di vedere riconosciute le proprie capacità (Filosof, 2000).

Le conseguenze

Il maltrattamento psicologico procura grande sofferenza principalmente perché il soggetto non riesce a riconoscerlo come tale e a riconoscersi come vittima (Reale, 2000; Sintini, 2004). il maltrattamento psicologico, oltretutto, non è visibile socialmente, se perpetuato nei confronti di una donna, in quanto è culturalmente accettato che una donna non abbia pensieri autonomi, faccia ciò che il marito le chiede e sia o pensi di essere ciò che il marito le dice di essere (Reale, 2000; Muratore, 2003). Il perpetuarsi di una distorsione della relazione agevola lo strutturarsi di una serie di problemi fisici e mentali e sono tali problemi che portano la vittima a chiedere aiuto (Reale, 2000).  Hirigoyen (1998) distingue due tipi di conseguenze alla violenza psicologica: quelle alla fase di condizionamento che sono immediate e consentono il perpetuarsi della violenza perché rendono la vittima incapace di difendersi, e le conseguenze a lungo termine che si presentano a distanza di tempo anche quando la vittima ha cominciato a reagire, a riconoscersi come vittima e ad allontanarsi dall’aggressore.   La svalorizzazione continua porta alla perdita dell’autostima, al sentimento di inadeguatezza, insicurezza e vergogna rispetto a cosa si fa, si pensa e si sente, che induce la vittima a perdere la propria visione del mondo assimilando la visione del compagno abusante nel tentativo così di costruire una valorizzazione di sé; in questo modo si instaura un rapporto asimmetrico che renderà possibile il perpetuarsi della violenza (Hirigoyen, 1998; Reale, 2000).   Gli attacchi indiretti generano confusione che porta la vittima a vivere una condizione di stress, portano a dubitare circa la distinzione fra vittima e aggressore e la vittima tende ad attribuirsi delle colpe per spiegarsi le aggressioni immotivate. A ciò si aggiungono l’eccessiva responsabilità e il senso di privazione che rendono la vittima soggetta a continue difficoltà da cui si sente sopraffatta e che la pongono in uno stato di iper-eccitazione  e ansia (Ventimiglia,1996; Hirigoyen, 1998; Reale, 2000; Paunez, 2004). La condizione protratta di stress porta a sintomi quali suscettibilità individuale, palpitazioni, sensazioni di oppressione, affanno, stanchezza, disturbi del sonno, irritabilità, mal di testa, disturbi digestivi, dolori addominali e manifestazioni psichiche quali ansia (Reale, 2000; Sintini, 2004) che può diventare cronica fino all’insorgere di un disturbo d’ansia generalizzato con tensione costante e ipervigilanza. La paura che la violenza possa esplodere in qualunque momento, la mancanza di controllo della propria incolumità fisica e la paura anche solo dei giudizi negativi dell’aggressore la pongono in uno stato di incertezza e difficoltà permanente che la portano a cercare di compiacere il partner per proteggersi. La vittima in questo modo è sottoposta ad una tortura mentale ed emotiva che la fa sentire come un ostaggio. La solitudine conseguente all’isolamento, sommata all’incapacità di riconoscere la violenza, le rende impossibile cercare aiuto e le causa paura e panico (Hirigoyen, 1998; Reale, 2000; Paunez, 2004). Lo stress, l’assuefazione agli atteggiamenti svalorizzanti e la tendenza a reprimere le istanze di ribellione per bloccare gli atteggiamenti aggressivi del partner, portano ad una situazione depressiva di base su cui possono prendere piede sintomi psichici quali attacchi di panico, comportamenti ossessivi e ripetitivi, ansia generalizzata, disordini alimentari, disturbi di tipo psicotico, depressione cronica e alcolismo(Tinelli, 2000; Reale, 2000; Reale, 2004).  La malattia appare anche come segnale di un disagio che non ha nome perché non ne viene riconosciuta l’origine e come richiesta di aiuto e solidarietà mascherata da richiesta di cure mediche (Reale, 2000).   Quando le vittime prendono coscienza dell’aggressione si trovano disorientate, ferite, sorprese a causa della loro impreparazione a questa scoperta dovuta al condizionamento e subiscono uno choc emozionale con dolore e angoscia. La scoperta di essere state manipolate e ingannate le porta a perdere la stima di sé e la propria dignità, provano un senso di vergogna per non essere state in grado di reagire, a volte manifestano un desiderio di vendetta, ma principalmente ricercano una riabilitazione e il riconoscimento della loro identità da parte dell’aggressore che però spesso non ottengono.   La perdita di un ideale, l’esperienza della sconfitta e dell’impotenza e la sensazione di essere stati umiliati e presi in trappola possono portare ad uno stato depressivo in cui la vittima si sente vuota, stanca, priva di energia e di interessi, non riesce più a pensare o a concentrarsi, e possono sopravvenire idee suicide.  Per alcune vittime la reazione è fisiologica, si presentano disturbi psicosomatici in cui viene espressa un’aggressione psichica di cui non si è coscienti. In questo caso il disturbo è direttamente conseguente non alla violenza ma all’impossibilità di reagire della vittima.   Altre vittime potranno avere reazioni caratteriali alle provocazioni continue in cui, nel tentativo di farsi ascoltare, possono arrivare a crisi di nervi in pubblico, scatti violenti fino al crimine nei confronti dell’aggressore o al suicidio come tentativo estremo di fuga da lui.   Il trauma prodotto dalla violenza può portare anche alla scissione o disgregazione della personalità come difesa contro la paura, il dolore e l’impotenza attraverso la distinzione di ciò che si può sopportare dall’intollerabile che viene dimenticato ottenendo così sollievo e protezione parziale.   Se la vittima prende la decisione di separarsi dal suo aggressore dovrà affrontare dolore e senso di colpa perché l’aggressore in queste situazioni si atteggia a vittima.   Anche quando la vittima riuscirà ad allontanarsi definitivamente dall’aggressore, potrà presentare gli effetti della violenza subita come reminiscenze della situazione traumatica che potranno portare anche al disturbo post-traumatico da stress.   Il disturbo post-traumatico da stress generalmente è ricondotto ad una situazione traumatica in cui la vittima si è sentita minacciata per la sua incolumità fisica; ma anche le vittime di violenza sono state messe in uno ‘stato d’assedio’ che le ha costrette a stare sempre sulla difensiva (Hirigoyen, 1998). La vittima pertanto potrebbe rivivere le aggressioni e le umiliazioni impresse nella memoria sia di giorno che di notte, con incubi e insonnia. Parlare degli episodi traumatizzanti può suscitare manifestazioni psicosomatiche che corrispondono a paura, le vittime possono presentare disturbi della memoria o di concentrazione, perdere l’appetito o avere comportamenti bulimici e aumentare il consumo di alcol o di tabacco. A più lungo termine la paura suscitata dai ricordi può portare a strategie per evitarli con conseguente diminuzione dell’interesse per le attività e una diminuzione degli affetti (Sgarro, 1997).   La comunicazione paradossale, in una situazione in cui vi sia una relazione intensa con alto valore di sopravvivenza fisica e psicologica come nel rapporto di coppia, costituisce un doppio vincolo che, se ripetuto in maniera tale da diventare una modalità comunicativa attesa nella relazione, può portare il partner che lo subisce a reagire con comportamenti che possono indurre alla diagnosi di schizofrenia (Beateson, 1972). Anche la mistificazione, nel generare disordine e dubbi non riconosciuti come tali, è una modalità comunicativa a potenziale schizogeno (Laing, 1969).

Le origini della vulnerabilità femminile

Il maltrattamento psicologico può essere perpetrato sia nei confronti degli uomini che delle donne; le donne però appaiono più fragili, così come avviene per altri tipi di violenza all’interno della coppia, sia perché economicamente più deboli, sia perché è stato loro attribuito per lungo tempo un ruolo subordinato rispetto all’uomo. La violenza contro le donne nella storia è stata socialmente accettata come un aspetto della normale condizione di subordinazione femminile fatta eccezione per quei reati che, per la loro eccezionalità, scuotevano l’opinione pubblica e, proprio perché eccezionali, si prestavano bene ad interpretazioni di tipo individualistico e psicologistico secondo le quali il violento presenta psicopatologie o marginalità sociale e la vittima è masochista e complice della violenza (Giannini,1995; Radford, 2000; Romito, 2000).  Il nodo del problema veniva ricercato nella vittima che era ritenuta responsabile di aver reso possibile la violenza se non assumeva le precauzioni per non esporsi al rischio; infatti le venivano consigliati comportamenti che ledevano la sua libertà ma non venivano prese precauzioni perché fosse messo l’aggressore nella condizione di non nuocere (Radford, 2000).   In Italia dal 1942 fino al 1970 il codice civile stabiliva l’obbligo per il marito di mantenere la moglie e, per alcuni mariti, tale obbligo dava loro il diritto di sottometterla. Questo diritto è stato avvalorato più volte dalla Corte di Cassazione che ha stabilito negli anni Cinquanta e Sessanta che il marito potesse impedire alla moglie di lavorare, picchiarla, controllarle la posta e pretendere prestazioni sessuali, non ritenendo pertanto stupro quello esercitato sulla moglie. L’uguaglianza di diritti e doveri fra i coniugi venne sancita dalla Corte Costituzionale nel nuovo diritto di famiglia del 1975. Nella pratica, però, il delitto d’onore, secondo il quale un uomo che uccideva una donna della sua famiglia poteva avere delle attenuanti se il delitto era stato commesso perché lei ne aveva leso l’onore, è stato abrogato solo nel 1981. Inoltre nel 1996 la Corte di Cassazione aveva dichiarato che la violenza fisica da parte del marito verso la moglie non costituiva maltrattamento (Ravaioli, 1978; Boneschi, 1999; Romito, 2000).  Con il femminismo a partire dagli anni ’70 e coi primi gruppi di autocoscienza, auto-aiuto e i centri anti-violenza, si rileva per la prima volta l’entità del fenomeno della violenza che appare troppo diffuso e trasversale rispetto a variabili quali età, religione e posizione sociale, per poter essere letto ancora in termini psicopatologici. Tutte le forme di violenza presentano una specificità di genere secondo la quale è molto più frequente l’aggressione da parte di un uomo nei confronti di una donna che l’aggressione da parte di una donna verso un uomo. La violenza verso una donna ha lo scopo di controllarla riducendola al silenzio, limitandone la libertà e portandola ad addossarsi lei la responsabilità della violenza stessa (Giannini, 1995; Ventimiglia, 1996; Radford, 2000).  La violenza maschile quindi appare come uno strumento per mantenere il controllo sulle donne e anche come legata alla costruzione del genere maschile e al concetto di mascolinità nel contesto sociale (Radford, 2000; Romito, 2000).   Secondo il pensiero femminista la divisione dei ruoli, che impone alla donna tutto l’onere del lavoro domestico e dell’educazione dei figli, rappresenta una vera e propria pratica politica e sociale che stabilisce una gerarchia fra i sessi del tipo dominatore/dominato in quanto non ha altra ragione d’esistere. Mentre per la casalinga si può ipotizzare che il lavoro domestico venga svolto in cambio del mantenimento, per la donna che lavora viene svolto in cambio di niente (Filosof, 2000).   La stessa Costituzione italiana afferma all’articolo 37 che la donna ha diritto ad un lavoro e una retribuzione pari a quelli dell’uomo, ma le condizioni di lavoro devono consentirle l’adempimento della sua essenziale funzione familiare (Boneschi, 1999)  L’appropriazione del tempo e del lavoro delle donne le porta spesso a scegliere soluzioni lavorative meno redditizie rendendole così parzialmente dipendenti dal partner e meno in grado di sfuggire alla violenza; infatti molte donne continuano a convivere con un partner violento anche per necessità economiche (Filosof, 2000).   Il ruolo femminile di cura socialmente riconosciuto entra nel circuito della violenza sia prima del suo nascere, quando porta una donna all’atteggiamento di colei che deve soddisfare qualunque bisogno o richiesta, sia nel suo perpetuarsi, quando la violenza è considerata come naturale conseguenza alle mancanze nel comportamento di cura (Reale, 2000).  Un altro stereotipo che ha portato per lungo tempo a ignorare la violenza sulle donne e a colpevolizzare la vittima stessa, è il supposto masochismo della vittima. Davanti ad una donna che subisce soprusi e, nonostante ciò, continua a difendere il suo aggressore e non si allontana da lui, si pensava che la vittima fosse masochista.   In realtà il masochismo patologico è presente in modo limitato fra le donne vittime di violenza e in quei casi è difficile stabilire se fosse preesistente al maltrattamento o sia una conseguenza della vittimizzazione (Ravaioli, 1978; Giannini, 1995).   Si può parlare di masochismo della vittima però anche come masochismo non patologico, corrispondente alla rinuncia alla propria personalità e ai propri bisogni che una donna mette in atto per il ruolo di cura che le viene attribuito dalla società (Ravaioli, 1978). Ciò però non rende la vittima meno vittima perché se ha partecipato passivamente al processo della violenza, è perchè le manovre dell’aggressore l’hanno indotta a farlo.  A riprova di ciò, quando le vittime riescono a separarsi dall’aggressore provano un grande senso di liberazione perché, al contrario dei masochisti, la sofferenza in sé non le interessa; il masochismo scompare dopo la separazione dall’aggressore e non si manifesta in altri contesti (Hirigoyen, 1998).

ALCUNE CONSIDERAZIONI FINALI

L’entità dei disturbi che possono essere provocati dal maltrattamento psicologico, rende necessari degli interventi preventivi nei confronti di questo fenomeno.   La prevenzione può essere primaria, secondaria e terziaria. La prevenzione primaria mira all’eliminazione della causa del fenomeno, quella secondaria mira a trattare il fenomeno il più precocemente possibile per prevenirne la completa manifestazione o il suo ripetersi, e quella terziaria mira ad attenuare le conseguenze di un fenomeno nei soggetti in cui già si è manifestato (Gulotta, 1984).   Rientra nell’ambito della prevenzione secondaria l’individuazione dei casi in cui si stia già manifestando il fenomeno; ma si è potuto notare come ciò che rende più problematica la violenza psicologica è la difficoltà di riconoscerla come tale dalla vittima stessa. La vittima riuscirà a chiedere aiuto per un disagio che non ha nome soltanto dandogli un nome, ossia attraverso sintomi di problemi fisici e mentali. Sarà compito degli operatori del servizio a cui la donna si rivolgerà riconoscere, indagando opportunamente, l’origine e la natura del disturbo per aiutarla a scegliere il percorso più indicato per uscire dalla violenza e dalla sofferenza.   Un ulteriore problema è che spesso la violenza all’origine del disturbo non viene riconosciuta dagli operatori a causa di pregiudizi ancora molto radicati che li porta a non indagare adeguatamente ignorando completamente il fenomeno. È necessario quindi istituire dei corsi specifici di formazione che consentano di conoscere meglio il fenomeno e le modalità d’intervento (Romito, Crisma, 2000; Paci, Romito, 2000; Ventimiglia, 1996).   Sempre nell’ambito di una prevenzione secondaria dovrà essere apportato un intervento nei casi individuati per contrastare il perpetuarsi del fenomeno (Gulotta, 1984). Fondamentale per uscire dalla fase di condizionamento e dalla conseguente dipendenza dal partner è riconoscere la violenza e di essere vittima, senza la possibilità di addossarsi colpe e responsabilità. La valutazione della dipendenza stessa non deve essere ricondotta ad una qualche caratteristica di personalità ma solo come effetto del condizionamento e pertanto revocabile e modificabile.  Le reazioni della vittima devono essere valutate come le uniche possibili, senza mai insinuare il dubbio che sia stata in qualche modo complice dell’aggressore, per combattere il senso di colpa.   La donna dovrà essere aiutata ad agire per non essere più vittima, dovrà pertanto imparare a non giustificarsi continuamente quando attaccata, a prendersi tempo per riflettere, ad allontanarsi dall’aggressore evitando, se è il caso, il dialogo diretto con lui utilizzando la mediazione di una terza persona, anche perché è proprio quando la vittima si sottrae alla sottomissione che l’aggressione psicologica si intensifica. Dovrà essere aiutata a recuperare autostima e fiducia in se stessa, a recuperare i propri interessi, ricercare risorse sia interne che esterne modificando contesto e stile di vita e dovrà essere supportata in un nuovo progetto di vita che non neghi la violenza ma che la faccia diventare occasione di un cambiamento per poter superare l’immagine soggettiva di vittima (Hirigoyen, 1998; Reale, 2000;  Reale, 2004). È necessario darle anche la possibilità di esprimere la collera che fino a quel momento era stata censurata (Hirigoyen, 1998).   L’utilizzo esclusivo di un intervento psicoterapeutico individuale per aiutare le vittime di violenza psicologica, rischia di essere dannoso poiché tende a considerare il singolo individuo come portatore di problemi e, pertanto, rischia di colpevolizzare e stigmatizzare la vittima colludendo in questo modo con l’aggressore (Nasorri, 1998; Romito, Crisma, 2000; Paci, Romito, 2000).  Il gruppo invece consente di condividere le esperienze, di scoprire così di non essere le uniche, di uscire dall’isolamento e consente di comprendere che il maltrattamento è un fenomeno diffuso con connotazioni culturali e sociali, arrivando così a superare il senso di colpa. Allo stesso tempo nel piccolo gruppo possono essere recuperate la propria individualità e il proprio valore e si può ritrovare un momento da dedicare a se stesse e da togliere al ruolo di cura, un’occasione quindi per darsi valore e recuperare le capacità affermative che la dipendenza protratta ha negato. Le capacità affermative possono essere recuperate anche attraverso esercizi che mirino all’espressione della collera nell’ambiente protetto del gruppo per superare il processo della vittimizzazione (Gruppo di lavoro e ricerca sulla violenza alle donne, 1993).   Il piccolo gruppo di auto-aiuto caratterizzati dall’assenza di figure professionali in veste di leader formale, i cui membri sono considerati alla pari e sono chiamati alla partecipazione personale con la condivisione delle esperienze, difficoltà e disagi attraverso interazioni faccia a faccia, consente di conferire ai membri un ruolo attivo che non è quello di paziente (Nasorri, 1998).   In un’ottica preventiva i gruppi di auto-aiuto potrebbero fornire sostegno e difesa dallo stress alle vittime di violenza psicologica per poterne prevenire le conseguenze a lungo termine, i gruppi di autocoscienza, opportunamente strutturati in modo da garantire la ‘sicurezza psicologica’ , così come i gruppi di crescita personale e autorealizzazione possono fornire l’opportunità per riflettere sul fenomeno della violenza psicologica per poterla riconoscere, e incrementare le capacità di autoaffermazione e autostima per poterla contrastare.   Certamente i gruppi per le donne vittime di violenza sono già diffusi, ma si concentrano principalmente sulla violenza fisica o sessuale mentre sarebbe necessario focalizzarsi anche sul maltrattamento psicologico considerandolo come un fenomeno violento con effetti non trascurabili.

 

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